L’uomo senza nome

L’uomo senza nome

Sono le 9:30 e l’uomo siede su una panchina blu di fronte al lago.
I pantaloni che indossa hanno una vecchia macchia oleosa che non andrà più via.
Arriva la signora delle papere, si avvicina alla riva per gettare il pane agli uccelli e come ogni mattina rivolge all’uomo un vago cenno che potrebbe sembrare un saluto.
Quella donna non parla mai con le persone, ma quando saluta le papere la voce è di zucchero a velo e i suoi occhi si muovono veloci per controllare che i piccoli siano ancora tutti lì in salvo, nonostante le incursioni minacciose dell’airone che condivide con loro il rifugio.
L’uomo risponde distratto al cenno. Nulla gli interessa, vorrebbe solo prendere a calci le lancette di quel tempo di cui non capisce la logica dello scorrere.
Si guarda intorno: a condividere quel destino di ore diluite ci sono altre persone, altri corpi che, come il suo, si aggirano lì attorno, assecondando un ritmo sempre uguale.

Negli ultimi sessant’anni di vita l’uomo si è svegliato alle 6:00, ha messo la caffettiera sul fuoco e portato il caffè a letto alla moglie. La donna a quel punto gli rivolgeva sempre la stessa domanda, con lo sguardo tenero ma affacciato sulla soglia della rabbia: “Ma dove dobbiamo andare così presto?”
Lui, dopo, si radeva sempre e lei iniziava con calma a rassettare la loro casa quasi sempre già in ordine.
Poi, quella mattina ingrata, sua moglie non aveva aperto gli occhi alle 7:00, né alle 8:00, né mai più.
L’uomo ricorda di aver pensato: “E adesso che faccio?”. E dopo aver appoggiato le labbra secche sulle sue era uscito dalla stanza,
Quella era stata l’ultima volta che vide sua moglie.
Si era seduto al tavolo della cucina e aveva telefonato al fratello che quaranta minuti dopo era già lì, pronto ad occuparsi di tutte le formalità.

L’uomo osserva le papere che si ingozzano di molliche, sollevano il collo come per guardare il cielo e deglutiscono avide.
Si chiede quanto bene gli faccia mangiare tutto quel pane. Domani, si dice, lo chiederà alla donna.

Ma il giorno dopo, davanti ai pezzi di pane che le volano via dalle mani della donna, l’uomo tace, mentre l’airone osserva la scena dall’alto.

Gli torna alla mente quel pomeriggio di quasi quarant’anni prima, ricorda l’odore di sterpaglie bruciate nell’aria: un incendio nei campi davanti casa rendeva complicato anche solo respirare. Rientrando dal lavoro aveva trovato la moglie con la cornetta a mezz’aria, aveva appena scoperto che la figlia non sarebbe più tornata a casa.
Glielo aveva comunicato la ragazza, chiamando da una cabina del telefono e aggiungendo, col tono pacato di sempre, che sarebbe stato meglio per tutti.
L’uomo aveva tolto la cornetta muta dalle mani della moglie e aveva riagganciato.
Poi l’aveva accompagnata al divano e sedendosi accanto a lei, le aveva detto che aveva ragione la figlia: sarebbe stato meglio così.

Qualche minuto dopo arriva trotterellando il cane bianco e marrone, all’uomo fa sorridere quel suo orecchio ripiegato.
Il cane si ferma a pochi centimetri da lui, gira su se stesso provando a grattarsi il fondoschiena ma si arrende subito e si accontenta di una scrollata.
Prende un bastone e lo lascia cadere ai piedi dell’uomo, che sa cosa deve fare e obbedisce lanciandoglielo più lontano che può.
Sono passati solo venti minuti da quando si è seduto sulla panchina e il tempo gli appare immobile come la cappa avvolta intorno al cielo che non fa passare nemmeno un filo d’aria.
Ha letto su un giornale che quella che sta per arrivare sarà un’estate caldissima e, spera lui, anche l’ultima.

Durante i mesi prima della morte della moglie, la sua salute era peggiorata. Lei era solita tenere un calendario per le medicine e ricordargli le visite mediche.
Era più giovane di lui di quasi dieci anni, la sua morte una possibilità ridicola.

L’uomo che ogni mattina mattina fa il giro del lago di corsa gli passa davanti, ha la sua stessa età ma le cosce toniche e le vene in evidenza lo fanno sembrare più giovane e in forma.

Del resto l’uomo non è mai stato uno sportivo e, anzi, pensa di non aver mai corso, nemmeno quando era giovane.
Quando portava al parco sua figlia, si ricorda, le diceva sempre di non allontanarsi troppo, che lui non l’avrebbe seguita: “Guarda che se ti allontani, torni a casa da sola” le ripeteva con voce ferma. Poi la incalzava: “Lo sai che autobus passa di qui? Perché devi prendere quello se rimani sola, eh?”, ignorando il fatto che bambini e sarcasmo non vanno d’accordo.
Alcune volte invece era lui a scomparire, si nascondeva dietro agli alberi e la bambina rimaneva immobile e confusa in attesa che il papà tornasse.

Proprio in quel parco, una domenica di tanti anni prima, ricorda che la figlia correva fino al laghetto, sull’erba gialla bruciata dal sole, andava a vedere le nutrie che si facevano la doccia e poi tornava da lui, che l’aspettava all’ombra di un albero intento a leggere il giornale.
Ad un tratto però l’andirivieni s’interruppe e la piccola rimase dietro la siepe: riusciva a vederne le gambette magre con le ginocchia sbucciate che se ne stavano ferme immobili.
Dopo averla chiamata più volte, era tornata.
I calzini di cotone bianchi bucherellati erano scivolati giù e ora somigliavano una bocca triste sulle scarpette nere di vernice.
L’uomo capì con orrore che la bambina aveva in mano una la pagina di un giornale pornografico, gliela aveva strappata di mano e le aveva chiesto: “Dove l’hai presa questa zozzeria?” Lei, col mento tremante, aveva risposto “Me l’ha dato un signore laggiù, dietro la siepe”.
L’uomo si era alzato e aveva visto un tizio allontanarsi con passo calmo e le mani in tasca. Dopo pochi minuti e senza dire nulla, se ne andarono anche loro, era l’ora di pranzo. Non ne parlarono mai più.

“Stamattina il cielo non promette niente di buono”. Mentre l’uomo osserva l’orizzonte arriva una signora mai vista che si siede sulla panchina accanto alla sua, lo guarda e gli sorride. Poi, sentendo la sua frase cadere nel vuoto, apre la borsa e tira fuori il suo lavoro all’uncinetto. A sua moglie, ricorda, non era mai piaciuto fare quei lavori.
Sotto l’albero c’è un bambolotto sporco. L’uomo si alza con fatica e va a prenderlo, non ha il vestito, il corpo è solo stoffa ripiena di ovatta sporca di terra e pennarello. Lo mette in bella vista su un muretto, forse qualche bambina lo sta cercando.

Da piccola anche sua figlia aveva un bambolotto così, un Cicciobello regalo di Natale che ricorda essergli costato parecchi soldi, la bambina lo adorava.
Poi, da un giorno all’altro aveva smesso di giocarci: “È diventata grande”, aveva detto sua moglie.
E così Cicciobello era finito nella spazzatura sotto casa insieme ad altri giochi, cianfrusaglie e vestiti vecchi.
Il giorno dopo, la moglie e la figlia erano uscite di casa per fare la spesa al mercato e, dopo pochi passi, avevano sbarrato gli occhi, incredule.
Cicciobello era sopra un banco della frutta, sorridente e profumato, con una corona in testa e uno straccio bianco addosso: un inquietante Gesù Bambino crocifisso.
La ragazzina si diede un tono e non pianse: sul volto quella buffa aria indignata di chi vuole apparire adulta.

Il cane oggi zoppica e allora l’uomo gli dà una grattata sulla schiena ma non gli lancia il bastone. Sarà meglio che non sforzi la zampa, pensa.
Lui non ha mai avuto un cane, se si esclude quel meticcione che viveva a casa dei genitori quando era piccolo e che un giorno era scomparso. È convinto che i genitori ne sapessero qualcosa ma non ha mai avuto il coraggio di chiedere nulla.
La donna delle papere oggi ha parlato al telefono con la figlia, che era agitata perché avrebbe dovuto presentarsi a un colloquio per un importante lavoro. La madre le aveva detto di andare e mettercela tutta, che poi coi bambini l’avrebbe aiutata lei.

L’ultima volta che lui aveva parlato al telefono con sua figlia, invece, c’era stato uno scambio veloce e il “Ti passo tua madre” a salvare entrambi dal silenzio.
Il danno irreparabile era stato fatto il giorno prima, le parole scagliate e le minacce: “Se domani vai davvero lì, non tornare mai più a casa”, le aveva detto.
Lei aveva provato a spiegargli le sue ragioni fino a che, esasperata dal muro di gomma che era suo padre, gli aveva urlato contro pur sapendo che sarebbe stato inutile.
Infine, aveva lanciato un incantesimo di protezione tutto intorno a sé e ripetuto in maniera assente e quasi catatonica che su quella decisione non sarebbe tornata indietro.
Lo fece con una sicurezza che al momento sembrò quella irresponsabile dei vent’anni ma che, in seguito, si sarebbe rivelato un atto necessario di sopravvivenza.

Un pomeriggio l’uomo si sveglia di soprassalto, gli sembra che ci sia del fumo nella stanza e si domanda se sia già mattina.
La puzza di bruciato si insinua tra le narici prendendo il posto del sogno che arrendevole scivola via e di colpo l’allarme antincendio vibra fino alle ossa.
Si è addormentato sul divano col sugo che intanto bruciava sul fuoco.
Ha sognato sua moglie: “Ma cosa hai fatto? Ti rendi conto? Hai cacciato tua figlia di casa! E ora sei un vecchio e morirai da solo in questa stanza, nessuno si accorgerà che non ci sei più. Perché non l’hai richiamata? Perché?”, urlava lei dal sogno, con una voce rauca che lui in tanti anni non aveva mai sentito.
Negli ultimi anni gli incubi sono diventati terribili: qualche tempo prima ha sognato la figlia, è tornata ad essere quella bambina buona che gli sorrideva in silenzio ma aveva in bocca una pagina di giornale a colori, prova a masticarla e mandarla giù ma il viso diventa livido mentre soffoca e lui la osserva senza riuscire a fare niente.

Aveva preso da poco l’abitudine di non addormentarsi mai con le finestre aperte, neanche in estate. Qualche anno prima, un conoscente gli aveva raccontato una storia: tutto si era svolto in uno di quei palazzoni di periferia, non molto distante dalla loro vecchia casa. Uno di quegli edifici spalmati per lungo dove le porte sono tutte attaccate una all’altra su corridoi interminabili e gli stendini sui ballatoi impregnano l’aria di ammorbidente stucchevole.
Lì, tra le altre persone, viveva una donna sola: la gattara.
La chiamavano così perché aveva creato una piccola colonia sul marciapiedi di fronte al palazzo. I vicini, infastiditi dalla puzza, avevano provato a farla smettere, ma non c’era stato verso. Lei diceva sì sì a tutti, sorrideva in un modo che non capivi mai se era per gentilezza o perché ti stava per sgozzare col coperchio di latta, e continuava con lo stesso rituale quotidiano. Quando scendeva a dare da mangiare ai gatti, portava anche dei pezzi di pane per le cornacchie.
Nessuno sapeva niente della sua vita, se era stata anche lei moglie, madre o figlia di qualcuno, se aveva interpretato mai uno di quei ruoli rassicuranti che l’avrebbero resa più accettabile.
Poi un’estate sparì ma inizialmente non se ne accorse nessuno.
Una vicina giovane, con la voglia di fare tipica di chi si è trasferito da poco, la sostituì nello sfamare le bestiole lasciando per giunta tutto più pulito.

Anche sua figlia, intorno ai dieci anni, si era fissata col voler salvare i gatti che giravano nel quartiere. Avendo il divieto assoluto di portare animali in casa, si era organizzata con un’amica del palazzo per portare da mangiare a un gattino di poche settimane che viveva in un cortile interno dietro il loro palazzo. Era piccolo, cisposo e malnutrito, e lei era molto fiera di quel salvataggio.
Dopo pochi giorni scese a portare la scatoletta e lo trovò schiacciato in mezzo alla strada con le budella rosa corte ad avvolgere, come una cinta, quella che per poco tempo era stata la sua pancia gonfia.

Dopo qualche settimana, i vicini della gattara iniziarono a sentire una strana puzza, forse una carogna di animale. Poi realizzarono che la vacanza della donna stava durando davvero troppo a lungo e iniziarono a insospettirsi. Allarmati avvertirono il padrone di casa ma quello rispose: “L’affitto viene pagato regolarmente, io non posso entrare in casa sua senza permesso. Se vi interessa tanto, chiamate la polizia”.
Dopo una settimana, il fetore era divenuto insopportabile e nel mezzo di un agosto indifferente, la ragazza decise di chiamare la polizia.
Quando quelli buttarono giù la porta trovarono la gattara. Era stesa sul divano, intorno a sé migliaia di oggetti inutili, tanti libri, quaderni pieni di parole incomprensibili, qualche giocattolo e decine di sacchi della spazzatura e scatolette di cibo per gatti. Morta.
Dentro la vasca da bagno c’erano delle bacinelle piene di urina e sul pavimento della cucina delle pentole piene di un liquido dall’odore acido, che nessuno ebbe il coraggio di identificare come vomito.
Il volto della donna era stato beccato dagli uccelli: i lembi di pelle tirati verso l’alto da strappi violenti.
Della gattara misteriosa, che incuriosiva e infastidiva i vicini, si vennero a sapere così due cose: grazie a un addebito sul conto bancario pagava l’affitto puntualmente e aveva il vizio di lasciare sempre le finestre spalancate.

“Ma voi non mi mangiate se muoio, vero? Lo promettete? Sennò non vi do più il pane”, si raccomanda il vecchio alla cornacchia sul balcone.

Il giorno successivo, mentre accarezza il cane, intravede in lontananza una donna e per un attimo solo immagina possa essere sua figlia, ma quella sale veloce su un autobus e sparisce.
Del resto anche sua figlia era salita su un autobus per andare ad abortire ed uscire dalla sua vita.

Lui, che non ne aveva voluto sapere niente di tutta quella storia, non aveva mai chiesto niente su come fosse andata.
La ragazza non ebbe nessun tipo di complicazione, l’intervento non fu doloroso e neanche emotivamente complicato. Non ci furono pianti né rimpianti, solo un po’ di sana paura per l’operazione in sé, che si rivelò invece essere davvero piccola e innocua.
La madre si era offerta di accompagnarla in macchina quel giorno, ma lei aveva rifiutato con decisione. Non voleva assolutamente che i suoi genitori si mettessero a discutere tra di loro su quell’argomento.
Si era portata dietro una borsa parecchio grande per poche ore di ospedale ma molto piccola, considerando che ci aveva infilato dentro tutto quello che aveva deciso di tenere con sé.
Qualche mese dopo, l’uomo entrò nella camera della figlia, già congelata in uno spazio-tempo nel quale lei non era mai esistita e riempì dieci sacchi neri della spazzatura con le sue cose da portare in chiesa. La moglie non lo aiutò.
Decidendo di non voler essere madre, la ragazza aveva scelto di non essere più nemmeno figlia.

Il lago è quasi completamente ghiacciato e i pochi uccelli rimasti condividono il piccolo specchio d’acqua che, chissà perché, non congela mai. Aspettano il momento in cui la lastra di ghiaccio si sciolga e gli restituisca le loro case fatte di canne, sassi e foglie.
L’uomo passeggia con cautela lungo il lago dalla riva scivolosa di brina e incontra la donna dell’uncinetto, sta passeggiando anche lei e non tiene in mano il solito lavoro di fili intrecciati.
Si salutano e, mentre fanno qualche passo nella stessa direzione, lei gli fa delle domande banali alle quali lui risponde evasivo, fino a quando lei non gli chiede: “Senta, stavo pensando, vorrebbe venire a pranzo da me?”
L’uomo la guarda di sbieco come se non afferrasse la domanda.
Lei si affretta a spiegare: “Siamo tutti e due soli, da quello che ho capito è vedovo anche lei. Potremmo mangiare qualcosa insieme e farci compagnia, che male c’è?”
L’uomo si gira verso lo specchio d’acqua argentata e immagina la casa della donna, pensa a un posto zeppo di centrini di ogni fattezza, il copridivano, il copriletto tutto rigorosamente all’uncinetto. Se la immagina, però, anche luminosa e profumata. Gli pare quasi di sentire il profumo di un sughetto fresco di pomodoro, uno di quelli veloci e deliziosi, preparato col soffritto leggero di cipolla e tre foglie di basilico fresco coltivato sul davanzale e poi anche quello del caffè e dello zucchero a velo delle pastarelle che avrebbero preso strada facendo.
Si vede seduto a fare due chiacchiere e a domandarle se anche lei vedeva ancora quella scemenza di Beautiful.
Infine apre la bocca: “No”, le risponde, e senza aggiungere altro torna verso casa.
La donna lo guarda andare via, in fondo non si aspettava niente di diverso.

L’uomo rientra a casa, ha fame e col freddo che ha preso al lago sarebbe meglio prepararsi una zuppa di legumi ma si è dimenticato di comprarli, così mette su l’acqua a bollire per cuocersi un uovo.
Finito di mangiare fa la scarpetta fino a far brillare il piatto, poi mette la caffettiera sul fuoco e si avvicina alla mensola della cucina: l’edera sempre vogliosa di arrampicarsi, due vecchie bomboniere ingrigite, un dito di polvere, qualche libro di cucina e quel quaderno verde su cui la moglie appuntava qualche ricetta e, come ha sempre sospettato, non solo quelle.
Lo sfoglia, le prime pagine sono piene zeppe di ricette scritte con grafia curata. Gli torna in mente l’odore della focaccia, sapeva un po’ di acido e di latte, lei la preparava perché la figlia, che ne era golosa, potesse portarla a scuola per merenda.
Gira uno a uno i fogli irrigiditi dalle macchie di acqua e olio fino ad arrivare all’ultima pagina, sulla quale trova scritto un numero di telefono. Quel nome, mai più nominato né dimenticato, non c’era nemmeno bisogno di scriverlo.
L’uomo chiude il quaderno e lo mette via: per quella telefonata è in ritardo di trent’anni.
Beve il caffè in un sorso e si sdraia sul divano, cercando di allontanare una mosca fastidiosa. Dopo pochi minuti, i sogni si accomodano a sedere accanto a lui: scuri e tormentati come la vita che si è sforzato di non vivere.
Vede sua figlia, è di spalle e appoggiata adì una lapide, con un pugno sul marmo fa cadere una foto che ritrae lui da bambino.
Compare anche sua moglie che mastica i fogli del quaderno verde e gli dice: “Copriti la pancia che stai digerendo”.
Le cornacchie battono col becco duro contro le finestre chiuse, formano una piccola crepa che diventa una ragnatela e infine un buco grande dove può passarci un pugno. La mano dell’uomo sale fino al volto, si accorge di non essersi rasato, se ne dispiace mentre fa buio.

Il giorno dopo, l’unico ad accorgersi della sua assenza è il cane che lo aspetta per qualche minuto guaendo davanti alla panchina col bastone in bocca.
La donna dell’uncinetto non alza gli occhi dal suo lavoro infinito.
La signora delle papere lancia pezzi di pane in compagnia dei suoi nipotini.
Il fischio del padrone richiama il cane che in un attimo si dimentica dell’uomo, delle sue grattate e corre via veloce, in cerca di un nuovo bastone da farsi lanciare.
Non importa da chi: basta che arrivi lontano.

Copertina AI-generated con Canva (Magic Studio™)

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Francesca Addei nasce a Roma e ci mette trentasei anni a lasciarla per andare a Berlino, dove vive ormai dal 2013 con un marito, un cane problematico, la vitamina D e diverse piante tutte incredibilmente ancora vive.
Vorrebbe viaggiare più di quanto non faccia già.
Non ama descriversi, né parlare di sé in terza persona, di conseguenza la sua biografia termina qui.

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