L’acqua continuava a cadere sui suoi lunghi capelli castani, che aderivano al volto, alle spalle, fino a ricoprirle i seni.
Il piccolo bagno era saturo del caldo del vapore che nascondeva i colori, l’arredo e persino la disposizione dei sanitari. Le piaceva quella sensazione di non essere visibile neppure a se stessa e comunque in quella casa non sarebbe entrato nessuno. L’ultima persona era andata via poche settimane prima, lasciandole dentro una rabbia, un dolore che stava provando a lavare sotto l’acqua bollente i cui vapori si condensavano sulle pareti, sulle quadrelle, sui vetri e anche sullo specchio in cui non si guardava da giorni.
C’erano troppe cose che evitava da quando lo aveva cacciato di casa per una verità scoperta fra le lenzuola. Una verità bionda, con un corpo che gridava sesso da tutti i pori, che chiamava sesso da tutti i pori, e un’età pari alla metà dei suoi anni.
Non si erano accorti di lei. Rimasta lì, sulla porta della camera da letto, con lo sguardo fisso su un quadro in movimento, che le stava accoltellando ventre e cuore. Non aveva pianto, né urlato. Per un tempo indefinibile era rimasta a guardare uno spettacolo eccitante agli occhi di qualcun altro, ma che a lei trasmetteva solo un forte senso di nausea. Poi, ancora non vista, era uscita dal suo appartamento e in strada gli aveva scritto il messaggio, maledicendo i social, le chat, tutti i whatsapp che le permettevano, nascosta dietro a uno schermo, di chiudere la storia di una vita, di mandare a puttane un amore, con poche parole prive di coraggio. In un modo che non le apparteneva, attraverso un mondo, quello virtuale, che fa diventare tutti altri da sé:
Quando avrai finito di scopartela, esci dalla mia casa. Esci dalla mia vita.
Un testo di cui si vergognava, perché la rendeva figlia di quel tempo senza identità e senza volto, ma grazie al quale, nello stesso tempo, disinnescava la sua voglia di prenderlo a pugni e calci. Doveva respirare, forse urlare o forse semplicemente bere.
Si rifugiò nel bar sotto casa, aspettando di vederli andar via.
Era certa che lui avrebbe fatto ciò che lei aveva preteso, senza nemmeno provare a farle cambiare idea. Conosceva bene la sua incapacità di cercare un confronto, di litigare, anche solo di discutere. Era lui il primo a comunicare con messaggi lasciati su Whatsapp, scritti oppure registrati su un vocale. Era così che risolveva ogni questione, a distanza, con la parola scritta, affidata a volte anche a un post-it lasciato sulla porta e sullo specchio del bagno.
Non aspettò troppo tempo. Non aveva ancora finito di bere che vide aprirsi il portone del vecchio condominio. Loro non potevano scorgerla. Uscì per prima la ragazza che camminava con fare circospetto, temendo forse di essere aggredita da una pazza sbucata da dietro un angolo o un albero.
Lui arrivò un bel po’ dopo, con i suoi pochi bagagli: il piccolo trolley, il computer e i sogni bugiardi che le aveva regalato. Probabilmente prima di uscire, le aveva anche lasciato un biglietto, per chiedere scusa. Un ti amo, destinato a morire su un post-it color pastello, attaccato alla porta d’ingresso o sopra il frigo.
Quando entrò in casa, la porta della camera da letto era chiusa. L’occhio cadde sull’inchiostro blu della penna con cui aveva scritto: Il nostro è amore e non può finire così. Non lascerò che finisca così. Ti amo.
Beh, doveva essere ispirato! Prese una birra dal frigo e si sedette sul tavolo della cucina a sorseggiarla, in modo inesperto. Cazzo! A lei faceva schifo la birra. Le poche gocce che le avevano attraversato la gola, erano quelle rubate alle sue labbra, alla sua bocca, all’intrecciarsi delle loro lingue. Poggiò con una calma strana la bottiglia, chiedendosi perché stesse cercando ancora quel po’ di lui rimasto in quella stanza. Non era chiaro cosa volesse o dovesse fare. Non le piaceva essere in balia di uno stato di inconsapevolezza e confusione e voleva subito compiere un gesto chiaro, forte che indicasse una nuova direzione alla sua vita.
Andò verso la camera da letto, staccò e appallottolò il biglietto, infilandolo nella tasca dei jeans. La scena che le comparve dinanzi, aprendo la porta la lasciò a bocca aperta. In un momento le fu chiaro quale direzione intraprendere.
Nei giorni successivi andò in un mobilificio e rottamò la vecchia camera da letto. Comprò mobili nuovi, cambiò persino il divano e il tavolo della cucina. Imbiancò casa e pensò di avere di nuovo in mano la sua vita. Completati i lavori, però, si accorse che sotto il fresco colore delle bianche pareti era rimasto ciò che nessuno sarebbe stato in grado di cancellare. Respirò la solitudine delle poche stanze, sentì forti le voci e le risa del passato. Ritornarono alla mente i progetti futuri. Fecero rumore anche i sogni. Chiuse le persiane, spense le luci e si abbandonò sul letto nuovo, immune al profumo di lui e sordo alla musica suonata all’unisono dai loro corpi amanti.
Aveva lasciato fuori il mondo per intere settimane e solo quel pomeriggio aveva deciso di aprire le finestre alla luce del sole primaverile e regalarsi il ristoro e il piacere di una doccia calda. Mentre l’acqua continuava a caderle sul capo, con le mani portò indietro i capelli, liberando il volto e gli occhi chiusi. Con le mani piene di schiuma cominciò ad accarezzarsi le spalle, poi i seni. Prima delicatamente, poi roteando con più energia. Alzò la testa al soffitto, mentre la mano accarezzava il ventre piatto. I suoi occhi chiusi volevano vedere le mani di lui, così esperte del suo corpo, sul suo corpo. Stava provando ad accendersi, ma l’unica cosa che voleva, nonostante tutto, era sentirlo ancora dentro di lei.
Non sarebbe riuscita mai a farsi godere e allora, d’un tratto, chiuse l’acqua e si precipitò fuori dalla doccia. Si mosse nel vapore denso come nebbia rapida e sicura come un gatto. Si asciugò alla meglio e senza biancheria intima, infilò una tuta e corse fuori. Corse con i capelli bagnati, con le lacrime che le rigavano il viso. Combattuta se fermarsi e tornare indietro o farsi divorare da una rabbia e un odio che non conoscevano fine.
Era lì, seduto all’anonima scrivania della sua agenzia immobiliare. Chissà a quante donne aveva aperto la porta di case da vendere o da affittare, accogliendole anche fra le sue braccia, affondando il viso fra i loro seni. Non poteva immaginare quel film. Non in quel momento. Era lì, davanti al suo ufficio e non voleva tornare indietro. La segretaria non era alla sua scrivania: un ostacolo in meno fra lei e il suo desiderio. Inspirò a pieni polmoni, quasi a volersi calmare, prima di aprire di scatto la porta.
Era sprofondato nella sua comoda poltrona di pelle nera, e parlava al telefono cercando di concordare la data per un rogito. Non fece in tempo a voltarsi, colto di sorpresa dal rumore della porta che andava chiudendosi di colpo, che se la trovò lì davanti, in quella vergognosa tuta grigia, due taglie più grandi. I capelli bagnati e l’affanno. Aveva corso: glielo leggeva sulle gote rosse, e avevano pianto quei grandi occhi verdi che lo fissavano in un modo forse equivoco. Aveva paura, lui di sentire nel silenzio della stanza, dove i respiri diventavano uno solo, di provare un desiderio non condiviso. Che la voglia di fare l’amore, forse per lei semplicemente voglia di prenderlo a calci e pugni. Non fece nulla, se non continuare a guardarla negli occhi, mentre metteva via il telefono, aspettando la sua prima mossa, pronto persino ad essere schiaffeggiato, perché sapeva di meritarlo.
Ma lei non si muoveva e sarebbe potuta essere la statua di un esile e sexy corpo di donna celato in un sacco a forma di ampia tuta, se a tradirla non ci fosse quel respiro ansante e le labbra che, animandosi, presero ad accarezzargli il viso e la bocca. Mentre le dita si intrecciavano ai suoi capelli castani, massaggiandogli la testa come solo lei sapeva fare. La lingua sull’orecchio sinistro, lo mordicchiò. Amami. Amami ora, tutta.
La spogliò per stringere al suo corpo il suo profumo, per respirare i suoi capelli, la sua bocca, il suo sesso. Erano baci caldi e senza freni, erano due, erano mille mani che si intrecciavano, graffiavano. Che sapevano toccare, accarezzare, fermarsi per poi tornare ancora. Erano due corpi capaci di aderire, di fondersi l’uno dentro l’altro, insieme. Nello stesso istante. E fu amore. Totale. Amore vero. Desiderio. Passione. Voglia. E ancora amore. Non si erano forse mai donati così pienamente. Non si erano mai fatti godere e sarebbero rimasti fusi per sempre, per l’eternità. Avvinghiati l’uno all’altra, perdendo coscienza delle rispettive gambe e mani. Ogni parte di lui apparteneva a lei, che aveva chiuso gli occhi fra le braccia di quell’uomo che mai come in quel momento sentiva essere suo. Era il suo prolungamento, la continuazione di sé.
Voglio rifarlo con te, così, ogni giorno, per tutta la vita, disse lui affondando il viso nei lunghi suoi capelli castani.
Non gli diede il tempo. Si liberò del suo corpo, anche se sentiva addosso tutto il suo profumo. Si rivestì. E senza pronunciare alcuna parola uscì dall’ufficio. La segretaria era tornata. Era seduta al computer. Aveva sentito? Non aveva importanza.
Uscì, di nuovo, senza far rumore. E mentre la porta si richiudeva alle sue spalle, scriveva la parola fine sul capitolo più importante della sua vita.
Gli aveva lasciato la sua rabbia e il suo dolore, il suo profumo e una sete di lei che mai avrebbe potuto soddisfare.
Avrebbe voluto e forse dovuto capirlo, quando lui andando via aveva portato con sé le lenzuola impregnate del sesso fatto con un’altra donna.
Non lo avrebbe aspettato più. E mentre con passo lento faceva ritorno a casa, con il volto rigato dalle lacrime, respirava e sentiva, ne era certa, che sarebbe stata pronta a esplorarsi, ad amarsi attraverso le mani di un altro uomo.
Illustrazione originale di Valeria Puzzovio
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Myrta Lunari è il nom de plume dell’autrice del racconto.