«Inizi con una panoramica della critica.»
Non riesco a concentrarmi. Io, che sono sempre andata bene agli esami, non ho idea di cosa abbia detto l’immagine bidimensionale del professore nel mio pc. È la modalità a distanza, deve essere quella che mi scombina la testa. No. È la foto. Sta lì, sul tavolino basso, in un ambiente caldo in legno e velluto, più adatto a una camera che a uno studio. Sta lì, fra le altre istantanee di viaggi e di famiglia. E in quella foto ci sono io.
«Signorina, ha letto il romanzo di cui abbiamo parlato al corso monografico, vero?»
Il Professore è spazientito. Forse dovrei chiederglielo: mi scusi, perché ha una foto mia nel suo studio? E non è una foto in cui compaio per caso, è una ripresa a mezzo busto, un ritratto. Forse non sono io… il mio ragazzo mi rinfaccia certe manie di protagonismo.
«Sì, Professore. Memorie di una vita d’uomo… opera unica di Pierfrancesco Ichino, scrittore dalla vita abbastanza oscura. Il romanzo è stato ritrovato sul tavolo dello studiolo dal figlio, che si è poi occupato della pubblicazione. Il Gherli nutre dei dubbi sulla paternità… del romanzo, non del figlio, scusi la precisazione.»
Ride, si rilassa. «Vada avanti…»
Sono di nuovo in carreggiata, sono di nuovo io. Intelligente, brillante, direi, però, non voglio essere quella con le manie di protagonismo. E quindi via, sciorino le teorie dei maggiori studiosi su questo dandy italiano, forse solo un personaggio costruito su l’ego smisurato di una buona penna. Questo non lo posso dire però. Continuo, passo sulle prime opere di critica in maniera sbrigativa: è la mia tattica per arrivare a illustrare anche i saggi minori, quelli da rivista, testi che sono andata a chiedere in prestito a mezza provincia.
Vedo il tuo volto annoiato: lo so che dopo i primi minuti non ascolti davvero, l’ho notato in tutte le interrogazioni che ho spiato; ma ci sono questi nomi insoliti che risvegliano la tua attenzione, che ti fanno sorridere compiaciuto. La mia lingua si muove da sola adesso, mi piace questa sensazione di abbandono, come se io fossi solo corpo, mentre la mente si srotola e vaga, senza sforzo. Mi sento sbocciare di fronte a te, posso interessarmi ad altro mentre le labbra continuano a formare nomi e date. Guardo la piega che ha preso la tua giacca nell’incavo del gomito, la distanza con i segni incisi dalla posizione intorpidita che hai tenuto per ore di dissertazioni ripetitive. E intanto parlo, e parlo. Osservo tutto della tua stanza, i libri, cerco di indovinare quali ho già letto anch’io, il tuo gusto un po’ kitch per i ninnoli di paesi stranieri, la polvere sottile sui ripiani, i paesaggi e i volti sugli scaffali.
Il mio. Un’altra foto di me, in costume da bagno stavolta. La lingua incespica sulle tesi del Corsi. Non posso essere io. Eppure quelle sono le spiagge di Salerno, vicino al porto, quella poca sabbia battuta su troppo cemento, coi gabbiani come avvoltoi. Quella sono io.
«Va bene,» sospiri «se non ricorda il Corsi non importa. Solo, se non è ben preparata su un argomento non lo citi, no?» Sospiri di nuovo. «Mi racconti la trama. Mi fido che l’abbia letto, ma così per essere sicuro…»
La trama? È una domanda da un 26, non una domanda da me. Se la vuoi sentire te la racconto, anche se ti annoierà, ci annoierà.
«Il protagonista è un uomo sulla cinquantina…» comincio. Devo riconquistarmi la lode. Quasi non fosse una L sul libretto, ma la marca del tuo apprezzamento personale, un attestato che ricerco spasmodicamente, come da bambina le carezze di papà sui capelli. Fa male, mi intorpidisce le gambe con il suo imperativo. La trama. Devo tornare alla trama.
«Il protagonista non è più nel fiore degli anni, è un uomo di cultura, ma ha ancora, diciamo, una certa prestanza fisica. Il libro ripercorre le sue memorie attraverso le controfigure femminili. Controfigure può sembrare eccessivo, ma se posso dirlo trovo sia una definizione corretta per personaggi che appaiono piatti… più felliniane rappresentazioni degli stadi di crescita del protagonista, transfert per le sue esperienze…»
Non sorridi, non sei affascinato. Eppure mi ero preparata il paragone come asso vincente, per indurti a chiedermi di più, di non fermarmi. Persino la piega della tua giacca ha ripreso il profilo del disinteresse.
«Anima Spirelli, il protagonista, nome peculiare, forse…» proseguo «No, dicevo, Anima insegna in una sperduta scuola di provincia, perché è annoiato della città, forse Trieste, perché tratti della vita dell’Ichino ci portano… insomma forse si è trasferito solo per fuggire a un marito geloso…»
Mi perdo di nuovo in uno stato di ripetitiva incoscienza estatica. Vago sulle tue rughe che si distendono, sui colori della stanza. Di colpo non riesco a non vedere le mie foto, lo sguardo ammiccante sul tavolino, la posa sexy in libreria. Non ero così quando le ho scattate. Ero felice, rilassata. Ma è così che sembrano nel tuo studio.
Tu corrughi la fronte.
«Professore… mi scusi… ma quella foto che ha alla sua sinistra…»
Sembri preso in contropiede: «La foto?»
Innocente, di sicuro. Ruoti il busto, impacciato per questa inversione nel senso di marcia della nostra conversazione, prendi una cornice in legno dalla libreria e la sposti fuori dal campo visivo della telecamera. «Ah, questa dice? Beh, è la mia famiglia a Sharm el-Sheikh. Bella, un bel ricordo. Ma… insomma, non vedo cosa c’entri adesso…»
E non appena mi guardi sei di nuovo il professore, contrariato, spazientito: «Stavamo dicendo… la trama? Sicura di non voler tornare la prossima volta?»
Getti lì la domanda, il tuo scudo contro la mia richiesta. Non mi rispondi, mi ricordi che qui quella che deve dimostrare qualcosa sono io, non tu. Anche se lo chiedessi di nuovo, se fosse in carta bollata, mi scontrerei solo con la piega di disinteresse della tua giacca. E allora, prenditi questa dannatissima trama: Anima ha varie relazioni, poi trova Benedetta. Si innamorano, ma lei è sposata. Anche se è ammogliata con un invalido e il matrimonio non è mai stato consumato, lei si rifiuta di concedersi ad Anima, per onestà. Il solito stereotipo della fanciulla da salvare, vergine e pura per giunta. La solita stronzata. Benedetta quasi impazzisce per la passione che non conosceva e che solo Anima, manco a dirlo, le fa provare. Lei ha vent’anni, è bella come “un fiore di primavera” – parole di quel depravato, non mie – ma comunque si tormenta, poco ci manca che si faccia suora, ovviamente. E Anima nel frattempo cade nell’alcol; così, quando una notte irrompe nel villino dello storpio e la violenta non è colpa sua, poverino. È colpa dell’alcol. È colpa della passione. Benedetta si suicida in una specie di richiamo smaccato all’Otello, neppure un’opera minore, porca puttana, ma un libro che penso conosca anche mio cugino che fa le scuole per l’avviamento professionale. Anima deve convivere con il dolore di aver perso l’amata, o meglio, di aver perso questa seconda giovinezza – perché, specifichiamo, lui della vita, della personalità di Benedetta non ci racconta proprio un cazzo: la verità è che questa storia della donna specchio che ci tiriamo dietro da 700 anni è una bella paraculata facile per fregarcene dei personaggi femminili – e pare quasi che si voglia suicidare. Che poi, dico io, sarebbe proprio una gran perdita? Un personaggio scritto coi piedi, un donnaiolo che senza alcuna qualità dovrebbe piacere, così, per diritto naturale, a tutti e tutte… ma nemmeno si suicida, l’inutile, perché arriva Greta, che a differenza di Benedetta ha – peccato mortale – persino trent’anni, e quel vecchio bavoso quasi si sente un santo a farle la grazia di portarsela a letto. Vive con lei in un cazzo di rapporto malato da madre a figlio, sfuggendo ai doveri coniugali grazie a un impiego in marina perché, anche se non era mai stato detto, Anima è pure un gran navigatore. E questa merda di capolavoro si conclude con un finale aperto – tanto per non dire vigliacco -, in cui Anima incontra Perla e forse fugge con lei, perché beh, lei ha diciassette anni quindi non si è macchiata della perversione che è il trascorrere degli anni…
La voce resta ingabbiata nella testa, non dico niente di tutto questo. Sento le guance infiammate e un macigno in gola che vuole arrivare agli occhi. Non piangerò. Io non piangerò. Sento le guance bagnarsi.
«Quella è una mia foto al mare?»
Le tue rughe sembrano crollare. Stupito, paonazzo. Per un attimo ci guardiamo soltanto, io che sto per piangere, tu che stai per urlare.
«Ma come le viene in mente?» Boccheggi, il petto che si alza con un ritmo accelerato, il mio respiro che lo segue.
«Quello che dice… Pensa che io…» La tua voce altisonante è mangiata dall’indignazione, o dalla paura forse. Dalla colpa? Sto solo immaginando: non ti ho mai sentito così. Non vorrei vederti così, di colpo vecchio e sperduto, vorrei arrotolare le mie parole e cancellarle.
Poi sospiri, tossisci, sistemi la camicia. La tua smorfia si piega in un sorriso, il primo vero sorriso dall’inizio dell’esame: «Certo, non dico che sarebbe brutto vederla in costume, ma la sua è un’accusa assurda.» È uno scherzo complice, una battuta che non riesco a seguire, e io mi sento piccola, e nuda. «Forse lo dice perché non è abbastanza preparata. Non è vero? Facciamo così, le faccio una domanda semplice semplice…»
Ingoio. Ascolto la domanda. Rispondo.
Illustrazione di Fabiola Lo Faro
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C. Freschi è una persona, e già questo è molto impegnativo. Ha studiato Filologia medievale e insegna italiano e storia. Afferma di essere agender, femminista intersezionale, vegetariana e cinefila, ma non le piacciono le definizioni. Se vi va, la trovate anche su Specularia, Malgrado le mosche, _Spore, _Bomarscé, Clean, Il mondo o niente, _Papermoon, _Risme, nel volume Condividere il futuro a cura de «L’Eco del Nulla» per il concorso Petrarca.fiv… o al pub davanti a una pale ale.