L'armatura copertina racconto Marco Simeoni

L’armatura

«Cos’è la vecchiaia?» Vincenzo quella mattina pensava ai nonni.
«La vecchiaia è un’armatura.» Michele calava la scala dalla soffitta appoggiandosi di peso «Ti protegge dalle fregature e ti fa andare lento.»
Vincenzo se ne restava imbambolato a osservare gambe e scarpe del fratello oscillare in aria. Esitò: «Tipo la saggezza?»
«Eh no! La saggezza te l’ho spiegata l’altro ieri. Non bisogna essere vecchi per essere saggi, ma è facile essere saggio se sei vecchio.»
«Miché mi confondi!»
«È facile. Rompi sempre. Ti sembro saggio?»
Vincenzo annuì di slancio, poi la faccetta assunse un’espressione pensierosa: «Sei pure vecchio però.»
Michele rise «Rispetto a te, soldo di cacio, rispetto a te. Ma sempre, comunque, rompi! Mi riempi di domande.»
«Bugia! A Beatrice chiedo dei cuscini e delle girelle più morbide dei cuscini e a Carlo chiedo delle facce da guerra.»
«Perché sei un paraculo! E sai da chi andare a frignare. Dai, sgorbio, tirami per le gambe che ti faccio arrivare al sole oggi.»
La scala retrattile cedette al peso e allungò gli scalini verso i fratelli.

*

All’accettazione ci sono Michele e il padre. Hanno tentato la carta del compleanno della moglie&madre per riunirsi, ma sia Carlo che Beatrice hanno accampato le stesse deboli scuse e non ci sono. Troppo alto il rischio di incontrare Michele, anche rispettando rigidi turni di visita. Il padre, incerto e con la pelle olivastra sciupata dagli anni, riconosce il gesto timido della caposala e si alza tenendo il giornale al contrario. In tre passi la raggiunge e richiede sottovoce il permesso di visita. È un uomo imponente e deve piegarsi per arrivare all’orecchio dell’infermiera, ma questo posto – tra neon e flebo, crocicchi della lunga degenza e aria satura di disinfettanti – lo accorcia. Chissà se Carlo troverebbe il coraggio di sfidare questo padre a braccio di ferro, o se Beatrice sfoggerebbe con lui il solito sorriso di circostanza.
Dall’accettazione i neon si susseguono uguali lungo tutti i corridoi, macchiando di luce chi proviene dal mondo dove i giorni hanno un senso. Perfino il sole, filtrato da finestre e lucernari della clinica, perde luminosità ed è allettato nel cielo. Padre e figlio spingono maniglie antipanico, ripassando mentalmente il copione che andrà in scena al cospetto della moglie&madre.
La stanza della moglie&madre, in origine la 38, regina delle stanze, ricca di comfort: 16 mq di spazio personale, piante vere, doccia privata, pay-per-view. Al terzo piano. Ma dalla mattina dell’incidente, lei ha bandito scale, altezze, foglie che cadono, rumore di cose che cadono… La scelta di spostarla in una modesta al piano terra, senza piante, è stata più efficace dei farmaci.
Il padre, alzando lo sguardo lungo le scale, ricorda la 38 in fondo al corridoio e borbotta il suo rammarico. Le visite alla moglie iniziano con il mento rialzato come nelle foto del matrimonio. Per Michele, invece, le visite alla madre sono diapositive scompaginate dell’infanzia che terminano con Vincenzo in sospensione.

Michele lo sentì cadere, ma fu la madre a vederlo. Curava le ortensie dalla cocciniglia e registrò l’evento in un montaggio sincopato: l’urlo strozzato del figlio, il tonfo, il corpo che si spezza e diventa inerte sul prato lasciato crescere.
Michele rifiutò di sporgersi. Fissava le tegole convinto che se non avesse guardato al di là della grondaia – eppure arrivavano le grida strazianti della madre – se non si fosse sporto, la caduta si sarebbe arrestata. Da dentro a una bolla, avrebbe ripercorso in equilibrio la distanza che lo separava dalla soffitta, ridisceso le scale, attraversato il mezzanino, il corridoio e l’ampio salone vuoto. Lo sguardo inchiodato a terra fino al traguardo della cucina, dove tutta la famiglia, compreso Vincenzino, lo stava aspettando.
Restò invece a controllare le tegole. Una era sbeccata e porosa, inadatta a combattere la pioggia. Da sotto dovettero mandare Carlo a prenderlo. In cucina un capannello di teste sconosciute parlottava a bassa voce. L’ambulanza, nella sua fuga, si era lasciata dietro un silenzio da omelia. Michele, stretto tra braccia, guance, petti, lacrime, odori, singhiozzi e mani che accarezzavano, tiravano e scansavano altre mani, divenne adulto di colpo, vedendo l’erba schiacciata del giardino.
Lo scorrere del tempo per la madre si fermò alla mattinata delle ortensie e della cocciniglia. Dopo il funerale, continuò ad apparecchiare per sei. Il padre, ammutolito e smunto, implorava con lo sguardo Carlo, Michele e Beatrice di partecipare al teatrino attorno alla tavola evitando di fissare la seggiola vuota.
Quando fu chiaro che per la madre la recita si sarebbe sostituita alla realtà, la famiglia andò in pezzi. I primi ad avere la forza di staccarsi furono Carlo e Beatrice. Presero la decisione dando la colpa dello strappo alla presenza di Michele che, con la sua disattenzione, aveva sconvolto le loro vite. Aspettarono il ricovero della madre prima di chiudere le valigie e comprare i biglietti.
Michele non li condannò. Non loro, almeno.

Il padre alza la persiana e arieggia la stanza. La madre con la camicia da notte lavata di fresco, suda ed è rigida, con la pelle pronta a strapparsi. Michele trattiene il fiato. Le rimbocca le lenzuola. «Mamma…»
«Oh Signore! E cos’è questa novità?» l’indice storto punta la montatura degli occhiali.
«Mamma ho solo cambiato modello…» la stretta del padre gli stritola la spalla. Michele imbastisce un sorriso e ritratta «Volevo farti uno scherzo! Te ne sei accorta subito.»
«Che sciocco. Levali. Ti rovini la vista.»
Il mondo si sfoca mentre posa gli occhiali sul comodino accanto alla gelatina di frutta.
In presenza della madre Michele recita Vincenzo. Il senso di colpa ha un nome e lui interpreta quel nome. Vincenzo che le diede una seconda giovinezza con un parto allo scoccare delle sue 46 primavere. Vincenzo che cadendo l’ha appassita. Vincenzo che prometteva di essere il più intelligente e coraggioso tra loro quattro.
Ma Michele non è Vincenzo, Michele non è neanche più Michele dal giorno dell’incidente. Può fingere di esserlo perché condivideva con il fratellino capelli color fieno e carnagione delicata. E le visite non durano mai più di un’ora.
Su questo palco, il padre gli dà il cambio e lui rilassa il collo, vaga con lo sguardo su uno scorcio di piastrelle e battiscopa, su piedi che passano svelti tra lo spiraglio della porta socchiusa. Sono piedi dentro suole spesse che visitano piedi esili in ciabatte.
Arriva una domanda sfuggita a Michele. Fine dell’intervallo.
Torna a inquadrare con la sua miopia il contorno sfocato della madre e la completa: rosea, felice, dedita al giardinaggio dopo essersi presa cura di loro.
Michele e il padre avrebbero dovuto condurla giù dal palco, ma non ci sono riusciti.
E allora recitano: entrambe le sedie strusciate in direzione del letto fin quasi a toccarlo, battute imparate a memoria e la commedia della “famigliola felice” va in scena. Le raccontano della sua dimissione a breve, della casa in perfetto stato, di un matrimonio quasi in arrivo, dei vicini che domandano spesso di lei, delle soddisfazioni al lavoro.
Le raccontano che sono eterni.

*

Vincenzo si lagnava così tanto che Michele lo lasciò uscire per primo ad affrontare il cielo e il tetto scosceso.
«Uau! Siamo altissimi.»
«Siamo tanti, ci serviva una casa bella grande.»
Vincenzo sbuffò: «E dai smettila di spiegare, non sei papà! Va bene così? Vado?»
Michele fece segno di no con il dito «Ti faccio vedere.»
«Lo so già!» Vincenzo spiegò le braccia al vento e la maglietta si tese come un aquilone «Così no? Dai, vado.»
Michele rifletteva. Il viso combattuto.
Vincenzo attendeva speranzoso.
«Va bene. Vai prima tu. Ma… ehi oh! Se ti dico fermati, ti fermi, capito?»
Vincenzo gli dava già le spalle, con un sorriso che sfidava il cielo.
«Hai capito? Fai un passo alla volta e vai piano.»
Vincenzo, voltandosi, mostrò la lingua al fratello. Sembrava il re del mondo «E perché? Non sono vecchio, non mi serve l’armatura.»
La madre, in giardino, notò le foglie dell’ortensia infestate dai parassiti. Si inginocchiò accanto alla pianta.

 

Copertina originale di Chiara Tescione

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