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La villa bianca

“La villa è lì davanti a me
In quest’alba d’estate
Prigioniera dentro la sua rete.

Ma quella rete scavalcherò
E se nessuno mi sente
Vorrei ancora parlarle
Perché un segreto ho da dirle,

da dirle”.

(Ivan Graziani, Signora bionda dei ciliegi)

 

È stupito di ritrovarsi lì davanti. Ha camminato senza meta, solo per svuotarsi la testa. O almeno lo credeva, adesso non è più così convinto. 

La Villa Bianca.

Da quanti anni non passava da quelle parti? Troppi per contarli. La siepe era malandata, l’ultima volta, all’abbandono. Gli aveva fatto male vederla così.

Adesso è densa e ben curata, sicuramente l’opera di un giardiniere. Anche il cancello sembra risorto, la vernice rinnovata brilla orgogliosa nella luce d’agosto. Il segno che la villa ha di nuovo un proprietario? E se fosse… Saverio scuote la testa. Che assurdità, mettersi a fantasticare come un ragazzino, come il quindicenne che sbirciava tra quelle foglie.

Erano più rade di quanto siano adesso e lasciavano comodi spiragli da cui Ettore e lui potevano lanciare occhiate eccitate e colpevoli alla signora, distesa sul lettino al centro del prato all’inglese. 

Che fosse all’inglese lo seppe dopo, glielo spiegò lei insieme a tutto il resto. Incollato al fogliame, spiava quella donna seminuda che gli sembrava bella come una stella del cinema. Lo pensava con tutto il corpo: il gonfiore all’inguine era lo stesso di quando sfogliava le riviste con le foto delle dive mezze spogliate. Arrossì, quando l’amico gli diede un colpetto con il gomito. 

«Vuoi che ti dica che le farei, a quella?»

Non lo seppe mai, perché quella s’era messa a sedere e sorrideva nella loro direzione.

«Ciao, ragazzi. Volete entrare? Ho della limonata fresca e starete sicuramente più comodi che infilati nella siepe».

Le gambe tremanti, Saverio dovette aggrapparsi alla recinzione dalla paura di cadere. Il turgore al basso ventre dissolto come una goccia d’acqua al sole. Cercò il sostegno di Ettore con gli occhi, ma a lui le gambe dovevano reggere perché era già scappato di corsa. Saverio si sentiva malato d’imbarazzo, eppure l’attrazione per quel sorriso era più forte. 

Ricorda ogni istante di quel primo pomeriggio. 

La conversazione, il gusto acido e dolce della limonata ghiacciata, la musica. Le risate. Risero molto. Lui, soprattutto. Si trovava scemo, piccolo e inadeguato a ridere per un nonnulla, ma la Signora lo rassicurava.

«Mi piace sentirti ridere, sei così giovane, la tua risata è vita».

Rimase lì tutto il pomeriggio, seduto a guardarla e sorridere. E a lasciarsi guardare. Gli faceva un effetto strano sentirsi osservato e ammirato, una miscela di fastidio e lusinga. Nessuno gli aveva mai prestato tanta attenzione, prima.

«Sei bello, diventerai un uomo magnifico. Infrangerai cuori, è inevitabile. Ma devi promettermi di non essere troppo crudele con le tue vittime».

Non poteva smettere di fissarla, gli sembrava incredibile che una donna adulta e così sofisticata dedicasse proprio a lui sorrisi e attenzione. Lo faceva sentire importante.

Fu difficile sottrarsi all’incanto della situazione, ci si rassegnò solo quando non poteva fare altrimenti. Se ne scusò: «Devo andare, mia madre detesta quando arrivo tardi per cena».

La Signora sorrise. «Bello e beneducato, un ragazzo perfetto».

Le tese la mano, sforzandosi di farla apparire salda. Lei la prese tra le sue e gli posò un bacio leggero sulla guancia. Il suo profumo…  Il naso di Saverio non aveva mai respirato nulla di più delizioso.

«Torna quando vuoi, anche domani. Sono sempre sola».

Tornò. L’indomani e i pomeriggi seguenti.

Si sente di nuovo piccolo e scemo, lì in piedi a fissare una recinzione. Se qualcuno lo vedesse, cosa mai potrebbe pensare? Si guarda intorno, ha le guance roventi, ma non c’è nessuno. Esattamente come nessuno mai sorprese le sue visite clandestine alla Villa e alla sua proprietaria. Prova una fitta di nostalgia per l’innocente eccitazione di quelle prime volte, il profumo della Signora, la dolcezza delle sue mani.

«Mi chiamo Agathe» gli disse il primo pomeriggio, con il suo accento leggero, quasi impalpabile, invitandolo a sedersi accanto a lei e darle del tu. Ma non ci riuscì mai. Per lui rimase per sempre la Signora. Anche dopo aver esplorato e conosciuto ogni anfratto del suo corpo e averle concesso ogni centimetro del proprio. 

È passata una vita da allora, ma basta che chiuda gli occhi per rivivere i brividi della prima volta in cui la mano di lei si posò sulla sua coscia.

«Hai già fatto l’amore, Saverio?»

Rimase immobile a fissarla, incapace di formulare la risposta già evidente, paralizzato dalla paura e dalla voglia che quelle mani continuassero a toccarlo. Continuarono. E gli mostrarono come muovere le sue. Fu un incontro di desideri, divertito e un po’ colpevole quello di lei, spaventato ma incontenibile il suo. Gli invadeva il corpo sbriciolando timori e reticenze. La scoperta proibita e irresistibile di ciò che fino ad allora aveva solamente intuito dai giornalini sconci o dagli aneddoti millantati dagli amici. 

Fu un piacere consumato troppo in fretta. Appena il tempo di entrare in lei. Come dimenticare il suo gemito di delusione? Tentò goffamente di scusarsi, sforzandosi di trattenere le lacrime. Non fare il bambino! Avrebbe voluto schiaffeggiarsi, ma lei lo consolò con un tono dolce, comprensivo. Da madre. Ancora oggi, Saverio trova quasi blasfemo ammetterlo, ma era così che lo consolò la Signora, con i suoi trent’anni di vita in più.

Ma non fu da madre che continuò.

«Non importa, sono cose che capitano anche a chi è più esperto. E apprezzo l’entusiasmo. Se ne hai voglia, posso aiutarti a riprovare». Le sue dita gli sfiorarono il sesso molle e appiccicoso, lo strinsero, plasmarono, poi fu la bocca. Il turgore risorse, insieme alla voglia. 

Impiegò giorni per imparare a trattenersi, far durare il desiderio, ritardare l’orgasmo. 

Settimane, poi mesi, a esercitarsi, esplorare, scoprire in quanti e quali modi provare, offrire, spartire il piacere. Passava le notti a immaginare le cose che avrebbe voluto provare con lei e i pomeriggi a metterle in pratica. La Signora non gli rifiutava nessuna fantasia, mai. Ne aveva sempre una in più. 

Quell’avventura segreta fu così stordente e totale da fargli perdere interesse per ogni altra cosa. Quando i risultati a scuola crollarono e sua madre minacciò punizioni, furono le parole della sua amante a smuoverlo.

«Non mi toccherai più fino a che i tuoi voti non saranno risaliti a livelli eccellenti».

Studiò notte e giorno. Sua madre ritrovò il sorriso e lui il letto della Signora. E ben oltre: ogni angolo della casa li vide possedersi, avvinghiarsi, accarezzarsi. Una smania d’amplessi che durò più di un anno. 

Non ricorda come la cosa si spense. Un pomeriggio preferì raggiungere gli amici al cinema piuttosto che la villa. Seguirono altri pomeriggi, altri impegni di sedicenne. E l’incontro con Cristina. Non fu facile, per lui, andarci piano, all’inizio, giocare all’adolescente inesperto. Le fece paura un paio di volte, prima di imparare come comportarsi. Cristina, il suo primo amore.

Ce ne sono stati tanti altri, dopo. Forse per nessuna è stato un buon compagno, ma tutte hanno apprezzato i suoi talenti di amante. Deve ringraziare Agathe per entrambe le cose. Ora riesce a pronunciarne il nome. Agathe. 

Di rado gli capitava ancora di pensare a lei, anni dopo la fine della loro… può chiamarla storia? Non trova altre parole per descriverla, in ogni caso. Una volta, di ritorno dall’università per le vacanze estive, senza averlo davvero deciso, corse alla villa, ma la trovò chiusa. Setacciò il paese in cerca di informazioni, fingendo distacco, come fosse una pigra curiosità da villeggiatura. Fu dal barbiere che la sua ricerca trovò soluzione. Pareva fosse tornata in patria, in Germania. «Dicono che sia malata, o senza un soldo, che tanto per quella gente è uguale. E si è ricordata di avere dei figli, ora che ne ha bisogno». 

Davanti a quei pettegolezzi acidi si rese conto di non sapere nulla di lei. Di non averle mai chiesto nulla oltre il piacere. Una volta sola le aveva sfiorato curioso, in punta di dita, la sottile cicatrice rossa appena visibile tra la peluria bionda che le ornava il sesso. 

Agathe aveva accennato un sorriso storto: «Mio figlio ha fatto le bizze anche per venire al mondo». Poi gli aveva stretto la testa tra le cosce e non avevano più parlato.

Dopo quella volta non la cercò più. L’università da terminare, poi la specializzazione, il lavoro a Milano, gli amici, la casa, le donne. La vita. Tornava di rado in paese dai genitori e ancor più di rado passava nel settore della Villa. Non che l’evitasse di proposito, o forse sì.

Le poche volte in cui capitava, la trovò sempre sprangata, l’edera incolta, la cancellata dalla vernice scrostata. Fino a oggi. Dopo tanto tempo, si direbbe proprio che sia di nuovo abitata. 

Se fosse lei? Se fosse tornata?

Tenta di immaginarne il volto, le mani, il corpo. Quanti anni avrebbe, oggi? Non riesce a pensarla frastagliata di rughe. Non vuole.

Sobbalza, sorpreso dal suono di un motore. Un veicolo si avvicina dalla strada. Saverio indietreggia, non vuole rischiare d’essere visto. Protetto dall’ombra della siepe osserva il cancello aprirsi, la berlina nera che entra. Resta lì, nascosto, a fissare i battenti richiudersi. Si sente sciocco ma non resiste. Con la mano ispeziona il fogliame in cerca di uno spiraglio. 

 

Foto di copertina di Henry Perks per Unsplash.

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