La mimosa

La mimosa

Il vecchio guardava verso la veranda con il lungo tavolo apparecchiato per il pranzo della comunione delle gemelle. Stava sotto la mimosa fiorita ai margini del giardino, era stato posteggiato lì già da un po’, con la scusa dell’ombra. I grappoli di capolini formavano batuffoli morbidi e tondi inframezzati da quelle foglioline allungate dall’aria antica e inefficiente. Un tappeto giallo sfumava nel verde dell’erba all’aumentare della distanza dall’alberello carico di fiori; le ruote della carrozzella vi avevano lasciato due solchi bruschi come dita contromano sul velluto.
Regnava una pace operosa in quella domenica di primavera. Ada e Ida attendevano le famiglie di ritorno dal lago dove le gemelle erano volute andare per scatenarsi dopo la messa e quel bagno di bontà imposto dalle circostanze. Il pranzo era quasi servito e lui inclinò la testa per vedere meglio ciò che si agitava in veranda. Nello sforzo di coordinare i movimenti e di mettere a fuoco con l’unico occhio utile, inaspettata si aprì leggermente la bocca facendo colare un filo di bava di lato alla lingua. Le sue figlie stavano portando caraffe ghiacciate con bibite variopinte e acqua, secchielli con il vino bianco in fresco e poi qualche bottiglia di rosso, già aperta a prendere aria. Gli venne sete a guardare il fermento di quel via vai attorno al tavolo, alzò leggermente il braccio puntando la mano bluastra a indicare le caraffe, ma nessuna delle due lo notò. Le maledisse sommessamente con un gorgoglio indistinto. 

Una folata gentile di brezza, quella che dal lago si incanala verso la valle per poi risalire i pendii della collina, scosse l’alberello e alcuni capolini gli caddero addosso impigliandosi tra gli sparuti capelli e nella lana del suo maglione, come le briciole che sfuggivano dalla sua bocca a ogni pasto. Sobbalzò spaventato e affannato, temendo di essere attaccato da qualche misterioso insetto avverso e nemico che gli frusciava addosso per approfittare della sua immobilità. Riuscì con fatica a intrappolare un capolino con le dita strappandolo al maglione; rimase a guardarlo con l’occhio per un istante, prima di schiacciarlo e lasciarlo cadere – ormai inservibile allo scopo per cui la natura lo aveva disegnato – di fianco alla carrozzella.
Dalla veranda, senza parere, lo sorvegliavano. Andava tutto bene, il vecchio era preso dall’esplorazione dei fiori gialli che ogni tanto lasciavano l’albero in planata ad arricchire quel meraviglioso tappeto vivace e allegro come la primavera. Ada e Ida ridevano tra di loro nell’attesa delle bambine vestite di bianco che da oggi sarebbero state ammesse al tavolo dei grandi a mangiare tutti insieme. Le gemelle attendevano quel momento con una nuova, pretesa, felicità da adulte.

Cominciava ad agitarsi un po’. Alzò un braccio e oscillò la testa, poi con un mugolio insistente che non sembrava voler oltrepassare il labile confine del tappeto giallo, finalmente si fece notare. Le due donne si scambiarono un’occhiata e Ada, la più grassoccia, coi capelli che avevano ormai virato al grigio, si diresse verso di lui.
– Ti sei sbavato di nuovo papà?
Il vecchio si agitò ancora di più.
– Ascoltami bene: se solo ti azzardi a mandarci di traverso questa giornata giuro che te la faccio pagare fino alla fine dei tuoi giorni, mi hai capita bene? – Avvicinò la sua faccia a quella del vecchio guardandolo nell’unico occhio rimasto. Così dicendo sorrise e gli pulì la bava. Il vecchio la guardò di rimando odiandola come ogni giorno. La faccia di lei era controluce, il sole ormai alto dietro la casa, e improvvisamente l’occhio orbo iniziò a lacrimare perché non gli avevano messo gli occhiali da sole, ma lui non se ne accorse. Le gemelle ridevano sempre quando il nonno aveva gli occhiali scuri che gli conferivano un’aria da gangster.  

Era seduto a capotavola, opposto a Gianfilippo, il figlio maschio, padre delle gemelle. Ai fianchi del vecchio stavano Ada e Ida. In mezzo, almeno venti tra amici, parenti, nipoti, amici delle nipoti con i loro genitori a festeggiare la comunione delle bambine con un pranzo abbondante e campagnolo. Lui mangiava la sua pappina di verdure passate e omogenizzato di pollo, imboccato con noncuranza ora da destra ora da sinistra, in base a quale delle due figlie fosse momentaneamente libera dalle incombenze verso gli ospiti.
Le gemelle e i loro amichetti più che altro aspettavano di poter aprire i regali a fine pranzo e poi continuare a giocare sul prato fresco. Una delle due si avvicinò alla zia Ida e si sedette sulle sue gambe. La zia le carezzava i lunghi capelli rosso tiziano sistemandole la coroncina di fiori bianchi. Al tocco delicato la bambina sorrise alla zia Ada seduta dirimpetto, che le rivolse uno sguardo morbido con la testa piegata di lato. Il nonno allungò la mano a sfiorare la bambina. Quindi, in perfetta sincronia, la zia Ida ruotò sulla sedia, diresse la nipote verso l’altro capo del tavolo e, baciandole i capelli, la fece scendere dalle sue ginocchia mentre la zia Ada le diceva: – Torna dai tuoi amici che si fredda la carne.
Al vecchio ricadde la mano sulla tovaglia come un ramo secco sulla neve.

Dopo la grigliata mista con i contorni, nell’attesa della torta, il vecchio moriva con un singhiozzo lieve, estraneo a ciò che lo aveva circondato in quella giornata di sole. La tavolata era allegra e il sussulto passò inosservato a tutti a eccezione di Ada e Ida. Le sorelle si scambiarono un’occhiata e Ada annunciò che il nonno aveva bisogno del riposino pomeridiano. Si avviò in casa guidando la carrozzella con abilità, seguita da Ida. Le gemelle con educazione lo salutarono senza aspettarsi alcuna risposta, continuando a tirare molliche di pane agli amici. Appena varcata la soglia di casa Ida si affrettò nella camera del padre, prese una traversa da letto di quelle grandi e la distese a terra. Ada vi parcheggiò sopra la carrozzella con il vecchio accasciato rivolto verso il muro. Le ruote avevano lasciato una traccia nera sulla traversa ancora immacolata. Le due sorelle stavano sedute sul bordo del letto a fissare la nuca e le spalle rattrappite del morto.
Ida disse sottovoce – Ho pensato che fosse meglio così, almeno poi non dovremo pulire anche il materasso
– Tanto butteremo anche quello
– Hai ragione. Hai visto prima?
– Si. Ormai non toccherà più nessuna.
Rimasero per un po’ così, nella stanza in perenne penombra, a riprendersi i respiri. Poi tornarono in veranda senza davvero vedere la tavolata, il fratello, la cognata, i parenti, le nipoti e i loro amici. Gianfilippo esclamò – Non vi abbiamo aspettate per la torta, ci avete messo un secolo! – Tenendosi per mano attraversarono il giardino, si liberarono delle scarpe nel tragitto e si distesero l’una al fianco dell’altra in mezzo ai fiori gialli, guardando il blu oltre la mimosa.

Illustrazione di Gabriele Merlino

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Monica Pace è nata a Firenze e vive a Roma dove fa la ricercatrice. Due suoi racconti sono inclusi in Vie di fuga e equiVoci, ebook a cura di «Cattedrale» e della Scuola del libro. A novembre 2022 il racconto Un incolpevole rifugio è uscito su Retabloid.

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