Era una giacca bellissima, la mia preferita. Il mantello di Superman, la coperta di Linus: avvolto nel suo blu navy, con la cerniera tirata su e il cappuccio alzato mi sentivo bene, mi sentivo io.
Mi sentivo.
Erano dieci anni che non ci pensavo alla mia giacca preferita: non ho mai voluto ricomprarla anche se la fanno ancora e persino in colori mi piacciono di più. Ma mi sembrerebbe soltanto di pagare la stessa cosa due volte, spendere per un doppione che non calzerebbe per niente come l’originale. Nemmeno vederla in vetrina, riproposta ancora nel suo taglio che si ostina a non passare di moda mi ha mai fatto effetto, troppo impersonale addosso a un manichino, troppo finta come la riproposizione del passato, patetica come tutte le recite.
Era la mia giacca preferita e basta. Era, e non lo sarà più.
Ma ora la mia giacca preferita sta seduta proprio di fronte a me, nel vagone della metro che corre verso casa. È salita all’ultima fermata e io non posso smettere di guardarla.
L’ho riconosciuta subito, anche se non la vedevo da dieci anni; dieci inverni con giacche diverse, sciarpe, cappellini, lettori cd, lettori mp3, iPod, Iphone. Bicicletta, motorino, macchina, metro, tram, metro, bicicletta, motorino, ospedale, e infine di nuovo metro.
Mi sono distratto un attimo il mese scorso e nemmeno stavo pensando alla mia giacca preferita, ma vaglielo a spiegare al tipo della macchina che ho tamponato. Lui aveva la Kasko, io pure avevo il casco, ma questo non mi ha impedito di rompermi tre dita del piede destro. Peccato aver dovuto abbandonare il motorino alla prima officina, avevo appena fatto il pieno, e poi accidenti quanto costa l’abbonamento della metro.
Da casa al lavoro, tre minuti di cammino e una corsa diritta sotto terra lunga otto fermate; se uno dovesse immaginarsi la città soltanto dai nomi delle stazioni chissà che mondo ideale sarebbe; forse qualcuno ci ha provato, ma io non ho più così tanta fantasia, e la fantasia non è un talento che puoi allenare e affinare, ma una risorsa limitata, un filone aureo destinato a esaurirsi se non si sta attenti a centellinarlo; tutti abbiamo una fervida immaginazione da bambini, ma quando ci servirebbe di più, ecco che scompare e allora richiede molto più sforzo accampare una scusa al capo per una scadenza mancata, o agli amici per una buca a calcetto. Figuriamoci quello che ci vorrebbe per immaginare una città più bella di questa, o anche solo un giovedì sera migliore. Otto fermate, io nemmeno in ottanta.
Giornataccia il giovedì: il primo appiglio verso il weekend, perché c’è sempre un cinemino, una cenetta, una partitella o una qualsiasi attività ricreativa inconsciamente identificata con un diminutivo, come se servisse a declassarla a qualcosa di leggero, senza impegno e rilassante.
Ma poi il film dura due ore e mezzo e il tuo amico che ti ci ha portato dopo dieci minuti ha già perso interesse ed entusiasmo; la partitella si risolve sempre in un agonismo da scontro diretto per non andare in serie B e la cenetta, beh, chi ce la fa oggi ad andare a mangiare fuori con qualcuno? Oggi sono tutti vegani o allergici ad alimenti a cui io non riesco a dare nemmeno una immagine formata nelle mia mente (ed ecco di nuovo la fantasia latitante).
La batteria dell’Iphone mi ha abbandonato nel mezzo di una tristissima playlist appena messo piede sulla banchina della stazione. C’era uno accanto a me con gli occhi ne Il Sole 24 ore che assomigliava a Tommy Lee Jones; sembrava davvero lui, anche se poi mi sono chiesto perché mai Tommy Lee Jones avrebbe dovuto leggere il Sole 24 ore in metropolitana.
Stavo per cedere, alla faccia dell’evidenza, e scattargli una foto da postare su Instagram per scatenare il panico e un mare di like, ma poi mi sono ricordato di non avere batteria, e la mia eccitazione da wannabe influencer si è subito dissolta in un rapidissimo orgasmo da masturbazione mentale, di quelle che rimandano subito ai sensi di colpa, e ai quintali di insulti e male parole che uno con milioni di followers sui social si porta dietro.
Fanculo Tommy Lee Jones, che poi nemmeno sei tu.
Otto fermate, l’Iphone scarico e zero fantasia: il concetto di infinito non mi pareva più così astratto.
In una sola fermata ho avuto l’impressione di avere accumulato dieci anni: di colpo ne ho quasi cinquanta, ho perso tutti i capelli e ho gli occhiali con qualche diottria in più.
Ma alla fermata successiva ecco che è salita lei, la mia giacca preferita; è salita ed è andata a sedersi proprio di fronte a me.
Non me la ricordavo così bella.
Ha i capelli biondi, lunghi, lisci. Il viso tondo, da bambola robotizzata degli anni novanta, gli occhi azzurri, le mani piccole e le dita che tengono il segno in una rivista di moda.
Non c’è dubbio: è proprio lei, la riconosco. Ha la scritta della marca, cucita in rilievo con del filo bianco, leggermente rovinata, manca un pezzetto della prima A.
La mia giacca preferita si accorge che la sto guardando e gira lo sguardo verso di me e il mio piumino. Io improvviso uno sbadiglio e alzo gli occhi verso la piantina della metro appesa sopra di lei, come se stessi decidendo a che fermata scendere.
Ma non voglio scendere, non ora che ho ritrovato la mia giacca preferita.
Mi chiedo dove è stata in tutti questi anni: penso, mi spremo, scavo con le unghie per raschiare le ultime briciole dal filone della mia fantasia e immaginare quello che ha fatto, i posti che ha visto, se rimpiange di non essere più con me. Penso alla sera in cui l’ho persa, da stupido, nell’unica discoteca di una località di villeggiatura montana di secondo piano.
Ci avevano avvertito all’ingresso che il guardaroba non era custodito, un lurido stanzino con tante grucce, un paio di sedie e decine di giacche una sopra l’altra, l’equivalente in piuma d’oca e Gore-Tex, del mucchio di carne e ossa accalcati pochi metri più in là fra il bancone e la pista.
Per essere più sicuro avevo nascosto la mia giacca preferita sotto a quella di un amico, più costosa e di una marca maggiormente appetibile per un eventuale ladro. Poi avevo bevuto: caraffe di Coca Cola e bottiglia di Jack Daniels.
Alla fine ci vedevo doppio ma la cosa strana era che anziché vederne due copie della mia giacca preferita non ne ho vista più neanche una. Sparita, liquefatta, evaporata, dissolta sotto gli occhi doloranti per le luci al neon.
Qualcuno era andato a prenderla apposta, l’aveva cercata, aveva sollevato quella che gli stava sopra e se l’era presa.
Qualcuno se l’era messa addosso, forse per sbaglio, pensando che fosse la sua, privandomi del mio costume da supereroe, e soprattutto, lasciandomi in felpa con zero gradi fuori.
Sei stata tu? Con quel sorriso che non concedi spesso, chiuso dietro a smorfie di attenzione sulla prossima collezione autunno inverno? Con quei fili degli auricolari che ti si infilano nei capelli fra l’invidia generale? Sei stata tu? Che ancora hai alzato lo sguardo fino a scoprirmi di nuovo a fissarti.
Ah, un sorriso, ma come?
Non sono mai stato capace di dare un’età alle persone ma tu sei certamente giovane, e ormai in troppi sono più giovani di me, tanto che ho perso il conto degli anni, perché se uno è nato negli ottanta non è più un ragazzo da un pezzo, e uno dei novanta non è più un bambino. Fatico a credere che ci siano neonati venuti al mondo dopo il duemila, ma tu sei decisamente più giovane, anzi più piccola di me.
Che ci fai con la mia giacca? Ehi, dico a te. Dov’eri dieci anni fa, bellezza?
Uhm, non lo so. Se anche tu fossi stata in settimana bianca low cost, di sicuro eri con mamma e papà, che al massimo ti avrebbero concesso un giro all’apres sky. Forse hai una sorella più grande. Che sia lei la ladra? E cosa ha fatto quando si è accorta che la giacca presa dal guardaroba non era la sua, ma al massimo si poteva dire che le assomigliava soltanto?
L’ha regalata alla sorellina che magari se la sognava una giacca così. E io quella notte ho avuto freddo: avevo pure sudato, e se mi fosse venuta una polmonite? E se fossi morto? Stronza insensibile tua sorella, mi hai capito?
Se non fosse che il treno si è fermato alla mia stazione, mi alzerei per andare incontro alla mia giacca preferita e schiaffeggiarla.
Ma le porte si aprono e quelli che come me devono scendere raccolgono le loro cose e si alzano; anche io mi alzo; anche lei si alza.
Ho dato fondo a tutte le mie riserve per riempire otto fermate di immagini non troppo chiare, come quelle che scappano via dai finestrini, intorno a un pensiero che è troppe volte stupida giustificazione a ciò che non va. Per quanto riguarda la realtà, l’ho esaurita da tempo, ritagliandomi un ruolo sullo sfondo per quella degli altri. Sono solo una comparsa nella realtà della mia giacca preferita e forse sono io a essere sparito e non lei.
La voce impostata annuncia dove siamo: la gente scende, anche lei scende e mentre fa un passo verso la porta scorrevole le cade una matita dalla tasca. Sono traditrici le tasche della mia giacca preferita, sai quanti accendini ho perso così?
La raccolgo e scendo pensando di tenermela, perché una matita fa sempre comodo e in fondo si tratta pure di un risarcimento per il furto di dieci anni fa. Ma poi ci ripenso, allungo il passo e appoggio una mano sulla spalla della mia giacca preferita.
A quel punto mi sono reso conto di non avere proprio più fantasia da spendere, solo realtà da due soldi. E poi a cosa sarebbe servito avere tutta la fantasia del mondo in quel momento?
Le restituisco la matita, dicendole che le è caduta sul treno.
Lei mi sorride e la prende toccandomi le dita. Mi dice che ci tiene tantissimo a quella matita, che ha un valore particolare per lei.
Restiamo a guardarci per qualche secondo, ah se avessi più fantasia. Ma non ne ho, come non ho i denti per questo pane.
Quando la realtà supererebbe la fantasia: sarebbe perfetto, sarebbe bellissimo.
Sarebbe il miglior giovedì sera di tutti i tempi: peccato che guardandola meglio mi accorgo che non si tratta della mia giacca preferita.
Copertina originale di Doctor Tale and Mister Shot
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Matteo Giordano è nato in provincia nel 1981. Dopo anni passati a minacciare di farlo, finalmente si trasferisce a Londra in tempo per godersi gli Hipsters, il Royal Wedding, le Olimpiadi e la Brexit. Ama correre, nonostante il parere contrario delle sue ginocchia, e suonare dischi tech house principalmente nel salotto di casa sua.
Nel 2016 ha pubblicato il romanzo “novantaquattro” per la Nativi Digitali Edizioni.
Nel 2017 è uscito un suo racconto sulla rivista Verde.
Quest’anno è tornato a vivere in Italia e un suo racconto è stato incluso nella raccolta Chiamami per nome edita da Le Mezzelane.
A breve uscirà il suo secondo romanzo.