Sembravano persino più giovani, mio padre dalle guance morbide rasate di fresco e mia madre che sorrideva piegando la testa, come se avesse escogitato uno scherzo ben riuscito. Ero così felice che mi avessero accompagnato, da insistere a offrir loro il caffè al bar. La colazione all’aeroporto mi ricordò il cappuccino schiumoso e la brioche che assaporavo da bambino come risarcimento per la paura e il dolore subiti durante le analisi del sangue, dopo l’alzata mattutina e l’attesa nella sala stipata di gente, per un motivo sanitario al di là della miope conoscenza infantile. Stavo partendo per un corso di un mese a Londra. “Dobbiamo salutarci come si deve” aveva detto mio padre. E seppure mi fossi congedato la sera prima con la promessa che non dovevano preoccuparsi, che mi sarei arrangiato ad arrivare in aeroporto, erano venuti lo stesso. Una decisione che avevo sperato di ottenere senza un’esplicita richiesta.
Avevo già imbarcato il bagaglio e mi stavo attardando per prolungare il calore della loro compagnia, ma anche per l’inquietudine verso le luminose novità – il corso, un mese da vivere in indipendenza, le attrattive della prima grande città che visitavo – che avrebbero comportato l’oscurità dell’adattamento a un ambiente ignoto.
“Mi sa che devo andare” dissi. Mio padre chiese se avessi imbarcato lo zainetto assieme al trolley, per avere meno ingombri. Avrebbe dovuto essere accanto a me, ma non c’era. Mia madre mi guardò preoccupata. Dove l’avevo dimenticato? Cercai intorno, aiutato da mio padre. Mancava poco al termine dell’imbarco, avevo preparato tutto scrupolosamente facendo il check-in per tempo, comperando una rivista da leggere in aereo, ed ero in ritardo. Convinsi i miei genitori ad aspettarmi davanti al controllo di sicurezza, sarebbe stato difficile ritrovarsi altrimenti, e mi allontanai per verificare sotto i sedili della sala d’attesa e in bagno, nel caso avessi dimenticato lì lo zainetto. Venne annunciato l’ultimo imbarco per il volo. Entrai nell’edicola e domandai alla commessa se avesse trovato uno zainetto grigio e nero. Nulla. Corsi a controllare vicino ai telefoni pubblici, senza più tentare di ricostruire i miei spostamenti, ma ispezionando ogni angolo dove potesse essersi ficcato lo stupido zaino. Non riuscendo a trovarlo, mi fermai sperando in un’intuizione. Mentre veniva ripetuto l’annuncio dell’imbarco, guardai l’orologio. Rischiavo di perdere il volo.
“È tuo, vero?” Un ragazzo mi porgeva sorridente il mio zainetto grigio e nero. “Un tizio con una giacca a strisce gialle fosforescenti te l’aveva preso. Da come ti guardava pensavo fosse un amico che volesse farti uno scherzo. Ma quando ho visto lo zainetto in bagno l’ho raccolto e ti ho cercato. Per fortuna! Se la sicurezza trova un bagaglio incustodito può bloccare l’aeroporto.” Gli sorrisi. “C’è tutto?” Feci uno sbrigativo inventario del contenuto, anche se non conteneva alcunché di valore. “Devo correre a prendere l’aereo” disse, informandomi che partiva per Londra.
“Anch’io!” dissi. Ritrovai i miei genitori davanti al controllo di sicurezza. Mia madre mi sfiorò la guancia con un bacio leggero, mentre mio padre mi strinse la mano. Io e il ragazzo passammo il controllo e ci precipitammo al gate. Essendo gli ultimi passeggeri, ci invitarono ad affrettarci. Corremmo nel tunnel bianco fino alla pista, poi su per la scaletta d’alluminio, ed entrammo concitati nel ventre dell’aereo dove i passeggeri si erano già sistemati. Le hostess ci indicarono due posti distanti, feci appena in tempo a chiudere lo sportello della cappelliera e a sedermi, stringendo la cintura, che l’aereo accese i motori. Le istruzioni sulle procedure d’emergenza in un inglese incomprensibile, ma dimostrate con rassicuranti gesti standard, mi tranquillizzarono, riportandomi allo spirito del viaggio. Stavo davvero partendo per Londra.
Nelle due ore di volo ripensai all’accaduto. Come mai mi ero distratto fino a perdere di vista lo zaino? Sono scrupoloso, quasi pedante. I miei genitori, ecco la risposta, avevano assorbito tutta la mia attenzione. Mi accorsi di sorridere. Che fortuna l’aiuto del ragazzo, mi dispiaceva non averlo ringraziato come si deve, ma l’avrei fatto all’arrivo, anche se, per l’urgenza della situazione, non riuscivo più a visualizzarne il viso. E il ladro con la giacca a strisce gialle? Per quale motivo mi aveva quasi fatto perdere l’aereo, il corso, la mia avventura? Mi misi a leggere per isolarmi, come stavano già facendo i miei vicini. Quando arrivammo, alla riconsegna dei bagagli, sbirciai il ragazzo che mi aveva aiutato, ma era tornato a essere un estraneo e mi imbarazzava parlargli. Lo salutai da lontano, e così fece lui, forse già indifferente al nostro incontro a confronto con le attrazioni londinesi.
Dall’aeroporto di Stansted presi il pullman per Victoria Station, quando vidi che dopo di me saliva un giovane alto che portava tra le maniglie del borsone una giacca a strisce gialle fosforescenti. Mi guardai attorno per cercare il ragazzo che mi aveva aiutato, ma non c’era, forse era salito su un pullman differente oppure aveva preso il treno. Eccolo lì il ladro, ma ero impotente. Non potevo svergognarlo – avrebbe fatto finta di nulla -, né incolparlo di furto – lo zaino mi era stato restituito. Mi limitai a fissargli la nuca come se riuscissi a trasmettergli un’accusa telepatica. Che assurdità, mi rimproverai, così guardai fuori del finestrino per distrarmi. Non eravamo ancora giunti a Londra, ma sentii di nuovo l’entusiasmo per l’avventura che mi aspettavo di vivere lontano da casa. Riconoscevo gli autobus rossi a due piani e i taxi neri per averli già visti in televisione o nei film, ma ora avrei potuto descriverli, raccontando che non tutti gli autobus sono rossi e i taxi neri, seppure siano riconoscibili per la forma.
Scendendo dal pullman, sentii di nuovo l’urgenza di scuse e spiegazioni da parte del giovane con la giacca a strisce. Mi ritrovai a seguirlo in metropolitana fino a Notting Hill dove lo vidi entrare in una bella casa vittoriana. Per il modo di vestire e i lineamenti, ero convinto che il mio ladro fosse italiano, anche se potevo benissimo essermi sbagliato. Andai a controllare i campanelli, ma vi comparivano soltanto numeri senza alcun nome. Stavo perdendo tempo, perciò ripresi la metropolitana per Bloomsbury dove alloggiavo in hotel, preferendolo al meno costoso dormitorio del college, perché volevo assicurarmi una stanza singola per concentrarmi nello studio. Ero comunque nelle vicinanze del college. Telefonai ai miei genitori per rassicurarli che avevo fatto un buon viaggio e che l’albergo era accogliente, ripetendo che non dovevano preoccuparsi perché me la sarei cavata senza problemi. Il giorno successivo mi sarei alzato presto per raggiungere il college, concludere le pratiche dell’iscrizione e iniziare il corso. L’attesa era svuotata d’interesse, senza possibilità di essere riempita da attività significative, così feci una breve passeggiata nei dintorni lasciando i bagagli da disfare, poi ritornai in albergo e mi addormentai.
Durante la prima settimana, seguire le lezioni e interagire con gli insegnanti assorbì la mia attenzione al mattino. Dovevo imparare a muovermi con disinvoltura, affrontando la lingua che conoscevo, ma non con la familiarità sperata. Rivedere gli argomenti spiegati, studiare e leggere libri interamente in inglese mi impegnava il pomeriggio. Volevo sfruttare al meglio l’opportunità del corso, anche perché mi era stata offerta dai miei genitori a costo di sacrifici. Forse sembro troppo serio per la mia età, ma sentivo questa responsabilità. La mia dedizione era gradita agli insegnanti, meno agli altri studenti, con cui non legavo, e che erano a Londra per visitare la città e divertirsi piuttosto che per imparare. Fu così che nel fine settimana andai da solo a visitare l’affollato mercatino di Portobello. Da lì mi recai di nuovo alla casa del giovane con la giacca a strisce gialle. Non so perché ci ritornai, ma era vicino e forse volevo ottenere la soddisfazione di smascherare il ladro. Suonai un campanello a caso e poiché non rispondeva nessuno, un altro. Al terzo tentativo rispose la voce di una donna anziana. Facevo difficoltà a comprendere quello che diceva, per il suo accento e per le parole di cui non conoscevo il significato, ma anche per il gracchiare del vecchio citofono. In un inglese limitato, inventai che stavo cercando uno studente, amico di un compagno, di cui sapevo solo che abitava lì. Cercai di descriverlo: altezza, colore dei capelli, non ricordavo se portava occhiali. Italiano, con una giacca a strisce gialle fosforescenti. Non so se riuscii a farmi capire, forse la giacca insolita oppure il particolare della nazionalità italiana ripetuto più volte, fece scattare la comprensione della signora. Disse che le sembrava che ci fosse un italiano da qualche mese, ma lei non conosceva gli altri inquilini, che cambiavano spesso perché, a parte il suo, gli altri appartamenti erano affittati a turisti americani, francesi, tedeschi e russi. Le chiesi quale appartamento occupava. Quello al secondo piano a destra, doveva essere il 5B, riuscii a capire, la proprietaria era un’insegnante gallese che era tornata a casa. Ringraziai calorosamente la signora come fossi un emigrante nostalgico del proprio paese, grato per essere stato messo in contatto con altri connazionali. Suonai il campanello, ma non rispose nessuno. Ci sarei ritornato, pensai, sorpreso della mia determinazione. È un gioco, siamo nella città di Sherlock Holmes, potrei scoprire qualche indizio. Forse il giovane alto era una spia che aveva scambiato il mio zaino con un altro identico al mio contenente importanti segreti industriali. Avevo visto troppe serie TV. Mi allontanai, ma gettando un ultimo sguardo alla palazzina, lo vidi davanti al portone che litigava con uomo di mezza età. Da tipico italiano, dimenava le mani in faccia all’uomo che rimaneva educatamente al suo posto. Che prepotente, pensai, rivivendo l’ansia per la sparizione dello zaino.
Le lezioni divennero più faticose. Dovevo scrivere un saggio di sette cartelle sul tema della libertà, ma non mi sentivo preparato. Un professore californiano, che insegnava nel college per un semestre e mi aveva preso a benvolere, mi sembrava ora inspiegabilmente distaccato e poco propenso ad aiutarmi. Ero inquieto, eppure mi trovavo a Londra, avrei dovuto divertirmi, visitare musei, frequentare i pub, ma mi ritrovavo soltanto a studiare e a preoccuparmi. Avevo già trascorso parecchie ore nella libreria Waterstones, e aggirarmi nelle stanze ricolme di libri, sistemati con cura in scaffali di legno scuro, mi infondeva sicurezza e benessere. Mi sentivo a casa, tra vecchi amici, quelli che non ero ancora riuscito a farmi. Lo ritrovai lì. Non desideravo vederlo, anzi mi infastidì molto sentirlo litigare con la commessa per un libro che non era ancora arrivato. Dopo la sfuriata, sorrisi alla commessa per dimostrarle la mia comprensione, lei si strinse nelle spalle, paziente verso quel genere di clienti. Non ci incontrammo per un’altra settimana, poi lo vidi tre volte di seguito, il caso funziona in questo modo. Ogni volta mi risultava sempre più odioso, un presuntuoso italiano, insopportabile perché disposto a sopraffare gli altri. Una malattia nazionale, sentenziai tra di me. Al piano inferiore della libreria c’era una caffetteria. Mi passò accanto per andare al bagno, credo, urtandomi senza scusarsi. Aveva lasciato sul tavolino la tazzina dell’espresso e il piatto con il sandwich sbocconcellato. Sotto la sedia, c’era la sua borsa verde che avevo riconosciuto per averla vista altre volte. Probabilmente si fidava del posto, se la lasciava incustodita.
Il mio cuore scalciò. Potevo contraccambiare rubandogli la borsa. Per un po’ almeno, poi gliel’avrei restituita, conoscendo dove abitava. Nei primi anni di liceo, sviato da cattive compagnie, avevo compiuto dei piccoli furti al supermercato, ma non ero un ladro smaliziato, credo che bastasse guardarmi in faccia per sospettare di me. Avevo smesso quando una mattina presto, in vacanza al mare con i miei genitori, rubai una confezione di latte dalla cassetta che il furgone lasciava davanti agli alimentari e ai panifici ancora chiusi. Un passante mi sorprese e urlò che ero un ladro e mi avrebbe denunciato. Forse è per questa esperienza che mi disturbava così tanto il furto subito ed ero in ansia per il furto che stavo per compiere. Afferrata la borsa, scappai, nascondendola in un sacchetto di carta raccolto dal bidone della spazzatura e, dopo una lunga deviazione, tornai in albergo. La libreria era provvista di telecamere? Qualcuno mi aveva notato? Quando mi ero allontanato da Waterstones avevo riso per la facilità con cui ero riuscito nell’impresa – non un furto, ma un dispetto – perché ero intenzionato a rendere la borsa, in cambio della piccola sofferenza, simile a quella che avevo provato all’aeroporto. In albergo, misi la borsa dentro il trolley che chiusi con il lucchetto, non volendo che la signora che riordinava la vedesse.
Pur essendo ugualmente impegnative, le lezioni risultarono più facili da seguire. Ripresi fiducia e feci amicizia con uno studente di Seul iscritto al corso. Non mi ero accorto di quanto fosse simpatico e generoso, e sotto la sua guida, una sera, assaggiai per la prima volta la cucina coreana. Sono gli ultimi giorni di una vacanza che creano nostalgia. Anche se si è insoddisfatti, verso la fine, il sentimento si trasforma addolcendo l’intera esperienza e facendo dimenticare il disagio. Era l’ultima settimana di permanenza a Londra. La mattina mi alzai e mangiai di gusto, senza appesantirmi con la colazione inglese, scegliendo invece burro e marmellata spalmati sopra fette di pane integrale tostato. All’entrata della metropolitana pensai che tra poco sarei tornato a casa, ritrovando i miei genitori. Di sfuggita vidi un titolo di giornale, “Promettente ricercatore italiano suicida”, e accanto la foto del giovane con la giacca a strisce gialle. Mi sentii come un pesce nell’acquario, attorniato dallo sciabordio dei rumori lontani della metropolitana affollata, con la gente che guizzava da ogni parte e l’acqua fredda premuta contro la faccia. L’articolo riportava i fatti essenziali, ma la mia conoscenza dell’inglese non mi permise di capirlo con precisione. Il giovane era un ricercatore universitario in contrasto con la facoltà per alcune tesi a cui aveva lavorato da anni. I colleghi sostenevano che fosse depresso e così irritabile da aver addirittura incolpato uno di loro di avergli sottratto una borsa contenente il portatile con l’intera ricerca. Ma non aveva fatto neppure un backup? Venivo colpito dai viaggiatori frettolosi che entravano nella metropolitana, ma ero insensibile al loro contatto.
Non ricordo con certezza, ma mi ritrovai in una caffetteria vicina alla fermata, seduto su una poltrona con in mano un caffè per riscaldarmi. Fissavo una goccia di cappuccino sul tavolino, turgida e lucida fuori, all’interno opaca come acqua fangosa. Nello stomaco si ingrossava un gomitolo di vermi bianchi che agitando i corpi filiformi arrancavano nel tunnel dell’esofago, gonfiandomi il petto e annodandosi in uno stretto groppo alla gola. Strinsi forte i denti per fermare il flusso verminoso che voleva riempirmi la bocca. Sentii i conati di vomito, ma non vomitai, avrei voluto piangere, ma non piansi. Non riuscivo a ragionare, i pensieri cercavano di risalire alla coscienza per scivolare subito nella cavità dell’incoscienza. Una commessa mi chiese se stavo male: invocai una banale spiegazione, di quelle che si usano con gli estranei. Questo però mi spinse a uscire dalla caffetteria per andarmi a sedere su un’anonima panchina in strada. Non ero responsabile di quello che era successo. Allestii nella mente un tribunale con imputato, testimoni, giudice, avvocati della difesa e dell’accusa. Non sapevo che il giovane fosse depresso, che stesse vivendo un periodo difficile. Aveva deciso volontariamente di suicidarsi, io non c’entravo. Eppure l’avevo indotto a farlo, cioè la mia azione era stata la spinta finale e quindi una causa del suo gesto, come un lieve sfioramento che fa cadere un vaso in bilico. Quanto colpevole potevo essere? Il ragazzo che mi aveva aiutato a trovare lo zainetto mi aveva indirizzato verso una persona con una giacca a strisce gialle. Come avevo potuto credere che qualcuno con quel tipo di giacca salisse proprio sul mio aereo? Una coincidenza inverosimile. Com’era possibile che in un aeroporto ci fosse una sola persona con una giacca simile? E giacca a strisce gialle era una descrizione talmente generica da poter indicare abiti differenti.
Dormii a tratti durante la notte e la mattina le tempie sembravano spingere contro il cervello per schiaccialo. Se non fossi venuto a Londra, non sarebbe successo nulla. Quando vidi il trolley chiuso con il lucchetto e immaginai la borsa al suo interno, non sopportai di dover decidere cosa farne in quel momento. Mi vestii in fretta. A colazione masticai senza assaporare il cibo, riempiendo lo stomaco per tenermi occupato con un’attività semplice come mangiare. Avevo bisogno di aria e distrazione, così presi un giorno di vacanza dal college per visitare la National Gallery. Tornando in albergo però la visione del trolley mi testimoniò che non avevo risolto nulla. Non riuscivo a dormire con la borsa così vicina. Telefonai ai miei genitori per trovare conforto nella voce di mia madre, ma la sua gioia nel sentirmi mi sembrò falsa ed eccessiva e, deluso, mi barricai dietro l’asciutta ripetizione che andava tutto bene, non dovevano preoccuparsi, sarei tornato a giorni. Provai a leggere, a guardare la televisione, a mangiare, finché mi addormentai sfinito alle cinque del mattino. Avevo mal di testa e la bocca impastata, ma una doccia sembrò darmi nuovo vigore.
Le lezioni tornarono a essere pesanti, ero distratto e l’amico coreano lo notò, ma è sempre possibile inventare che si è stanchi oppure preoccupati per un falso motivo – il ritorno a casa ad esempio – piuttosto che confidarsi. Mancavano pochi giorni alla partenza, senza che avessi ancora deciso cosa fare della borsa. Era chiusa nell’armadio dentro il trolley e non l’avevo più toccata dal giorno del furto. Non ero neppure passato davanti alla casa del ricercatore per paura che qualcuno mi riconoscesse, ma avevo continuato a leggere il giornale per ottenere informazioni più precise, anche se la notizia non sembrava rilevante e non erano stati pubblicati ulteriori articoli. Due giorni prima di partire non sapevo ancora come comportarmi. Buttare la borsa nella spazzatura mi sembrava irrispettoso, come sputare su una tomba, ma consegnarla alla polizia era rischioso, un’ammissione di colpa maggiore di quella che desideravo accollarmi. Avevo sbagliato, ma sarebbero riusciti a quantificare correttamente la mia parte di responsabilità? Ne dubitavo. Le gesta degli eroi delle serie TV non mi erano d’aiuto. Mi ero appropriato della borsa senza essere notato, sarebbe stata ancora solo fortuna riuscire a restituirla senza farmi scoprire. Misi la borsa nel mio zainetto che avrei abbandonato da qualche parte, la perdita mi sembrava un equo contrappasso, anche se forse volevo solo disfarmi di ciò che mi ricordava la brutta esperienza. Lo lasciai su una panchina, non sembrava dovesse piovere, così il contenuto non si sarebbe rovinato. Non desideravo più giocare all’investigatore, perciò mi convinsi che nessuno mi aveva visto, nessuno era interessato a me, nessuno avrebbe sospettato che lo zaino potesse contenere dell’esplosivo per un attacco terroristico.
Ero finalmente all’aeroporto di Stansted ad attendere l’aereo che mi avrebbe riportato a casa dai miei genitori, quando mi sentii toccare la spalla.
“Non riesco a crederci!” Sorrisi al volto sorridente del ragazzo che mi stava di fronte. È una risposta condizionata che un sorriso mi predisponga a una risposta di uguale simpatia, ma quando riconobbi il ragazzo che alla partenza mi aveva aiutato a trovare lo zaino, sentii come una mano fredda sullo stomaco. “Ti ho cercato a Londra” disse. “Volevo dirti che ero stato io a prenderti lo zainetto. Non chiedermi perché, ci ho riflettuto ma non sono riuscito a capirlo. Un momento di pazzia. Per fortuna mi sono ripreso in tempo. Alla fine, è stata un’avventura finita bene, ti ho restituito lo zaino e ci siamo imbarcati. Però dovevo raccontarti com’era andata, non ce la facevo più. Che coincidenza ritornare a casa assieme, è sorprendente!”
Vedendo che non rispondevo, mi disse che gli dispiaceva ancora, ma che per fortuna si era risolto tutto nel migliore dei modi, vero? Sentii i vermi che con cieca determinazione risalivano fino alla bocca. Si scusò di nuovo e poi, di fronte al mio mutismo, accampò una scusa e se ne andò.
Seduto in aereo, stretto dalla cintura di sicurezza, guardai l’adesivo con le procedure di emergenza incollato sulla schienale della poltrona di fronte. Prima di chiudere gli occhi, osservando le illustrazioni, mi chiesi se in caso di reale pericolo sarei riuscito a seguire quelle norme così ragionevoli.
Copertina di Kenneth Vellinga da unsplash (ridimensionata)