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La geometria della neve

Una linea. La traccia con l’anulare. Le venature storte dell’abete grezzo non lo disturbano. È orizzontale, diritta. Si ferma all’estremità del tavolo. Gli occhi neri e sottili di Paolo Friodaz si stringono; non può proseguire. Sarebbe una retta, se fosse infinita.
«Se il punto – continua a spiegare – è privo di dimensioni, la retta non ha che quella della lunghezza». Tobia siede alla sua sinistra. Sono nella baita di tronchi larghi e nodosi, la casa piccola di abete rosso: nella valle alle pendici del Monte Bianco, una piccola macchia scura che affonda nella neve, come un’impronta di lupo.
Ogni mattina, Paolo Friodaz sveglia Tobia all’alba. Il rifugio dove vivono è a cinque chilometri. Veronica, nel rifugio, accoglie i turisti. Al risveglio, la donna passa una mano fredda tra i capelli del figlio, le dita sottili raccolgono il volto, le labbra rimangono in un bacio sulla fronte per alcuni secondi. Tobia accenna un sorriso, negli occhi una luce fievole; annuisce.
Mentre il figlio si veste, Paolo Friodaz prepara la colazione. Versa lo yogurt nella tazza grigia, lo mescola col cucchiaino. Ascolta. Al secondo stridio ferroso, aggiunge la frutta secca in un piattino, il succo di mirtillo in un bicchiere. Si ferma. Con due dita, massaggia il punto preciso sul petto che duole da tempo, sotto il cuore. Lo sente tra i polmoni come una stella alpina irta di spine, i petali bianchi e irsuti che si allungano e affondano dentro al costato, come radici.
Tobia lo aspetta nella cella sul retro, lontano dai turisti. Fanno colazione in silenzio.

«La retta è una sequenza senza inizio né fine di punti. Il punto ha dimensioni infinitesimali, piccole come lo zero».
Paolo Friodaz scandisce le sillabe lentamente, controllando la dizione; da adulto non ha mai parlato dialetto, è la lingua di quando era bambino e per lui è morta da tempo. Tobia lo ascolta guardandolo fisso, i piccoli pugni stretti. Annuisce e strizza le labbra. Fa così quando finge di concentrarsi, pensa Paolo Friodaz. Secondo il programma scolastico delle scuole primarie, la conoscenza della geometria euclidea non passa per concetti astratti. Paolo Friodaz è di un altro avviso, come lo era suo padre. La conoscenza è quella delle grandi altitudini: il seme resinoso sa da sempre cosa è un abete bianco.
Abbassa di poco il capo e vede il bambino irrigidirsi e farsi ancora più piccolo, come un rametto di aghi di pino che si contorce e rimpicciolisce nel caminetto, bruciando veloce. Distoglie lo sguardo. Sbatte le palpebre. Avanti a sé vede minuscoli cristalli puntuti. Li immagina roteare nell’aria, annidarsi sotto la tuta del figlio; correre inferociti in lunghe gocce sottili e incendiargli la pelle. Deglutisce. Tobia ha freddo ma deve abituarsi: che conti fino a 100 fino a quando il gelo va via.

Durante il tragitto per arrivare alla baita, quella mattina, tirava vento, il cielo bianco schiacciava la neve, la temperatura era sotto lo zero. Le falcate stanche di Tobia arrivavano sorde e ovattate. All’improvviso niente, si erano fermate. Paolo Friodaz si era voltato. Dalla fessura del passamontagna aveva visto la sagoma lontana del bambino, un filo nero e sottile che barcollava sulla neve. Era venuto giù, come una fune verticale che si spezza e cade. Lo aveva guardato tossire, provare a rialzarsi sui polsi piccoli dentro i guantoni. Sollevare il capo, muovere la bocca in parole mute imbottite di vento bianco. La stella alpina piena di spine si era mossa dentro al costato. «Avanti», aveva detto a voce bassa. Procedendo spedito, non lo aveva guardato più.

«La retta ha lunghezza infinita», riprende.
«Infinita», sussurra Tobia.
«Lunghezza infinita e spessore nullo».
«Spessore…»
«Spessore nullo, sì».
«Nullo».
«Nullo, esatto. Nel senso che non ha larghezza».
Tobia spinge un dito sul tavolo e traccia una linea orizzontale. Lo fa con forza, l’indice gracchia e lui lo stacca, spaventato. Se lo punta contro, fissandolo.
«Devi immaginarla», lo incalza Paolo Friodaz.
Tobia si guarda attorno.

 «Non la puoi cercare in giro, la retta»,  indica il libro di testo, «la rappresentazione è quella che vedi qui, ma non è reale, è solo l’unica possibile».
Una linea sbilenca si allunga sul foglio in due trattini a destra e sinistra.
«È difficile, lo so. Accetta l’idea, non cercarla in quello che vedi».
Tobia alza lo sguardo sul padre e allarga gli occhi azzurri in una raggiera di pagliuzze gialle. La stella alpina si apre e una fessura si riempie di spine, sotto il cuore. Paolo Friodaz si ferma su una macchia gialla più grande, nell’occhio destro, come una goccia. Sono uguali agli occhi di Luca, il fratello di Paolo, non ai suoi. Lui ha gli occhi scuri, scurissimi. Ha saltato un punto, la retta di Paolo Friodaz, e i suoi occhi neri sono arrivati a quelli del figlio tornando a quelli del fratello, a quando erano bambini.

«E il punto com’è, esattamente?»
«Anche quello non lo puoi vedere».
La temperatura nella baita è scesa e Paolo alza il capo verso l’alto e poi a destra, a sinistra, di nuovo a destra, e poi in basso, nell’angolo, sulle travi che scendono spioventi. Il punto di fuga deve trovarsi lì, nascosto, il freddo, tra le muffe dei tronchi e la neve che entra, la polvere.
È certo che sia quello l’angolo dove lui e Luca bambini, durante i lavori alla baita, si fermavano a guardare il cantiere quando erano stanchi. Il padre urlava loro di muoversi e trattava i muratori a male parole, chiamandoli “uccellacci”. Paolo, in silenzio, annuiva. Luca, che aveva sei anni ed era alto come un biancospino da giardino appena piantato, che per il padre non era nemmeno un albero, afferrava la mano del fratello, stringendola forte. «Pa’, gli uccellacci», gli sussurrava. Immaginava i rapaci che falcavano il cielo bianco e scendevano a valle per la caccia, gli artigli gialli che arpionavano le volpi, le volpi nel sangue e i rapaci sopra.

«Cosa stai facendo?»
Paolo Friodaz si è distratto due, cinque, forse dieci minuti. Gli succede sempre più spesso. La stella alpina comincia a dolere e lui si assenta. È sempre più forte, negli ultimi tempi: ne può addirittura contare i petali, uno ad uno, che si muovono come vermicelli che affondano nella terra dei tessuti molli. Si è fermato a guardare la fessura contro cui si asserragliava il vento e Tobia si è lasciato andare a minuscoli disegni intorno ai punti del libro di testo. Anche Luca si distraeva così: nei pochi momenti in cui il padre si allontanava dalla baita durante i lavori, lui usciva dal cantiere e, con le mani nella terra, creava impronte di animali inesistenti, dalle forme più bizzarre.
Ora, con una linea sottilissima di matita, Tobia ha tracciato sulla pagina del libro, in corrispondenza del primo punto, un braccio filiforme con tre dita, teso verso il secondo, a cui ha messo due peli in testa. Al terzo ha aggiunto un becco minuto – un triangolo rovesciato di grandezze microscopiche – e del quarto ha fatto un sole di appena cinque raggi, della larghezza di qualche millimetro.
«Nulla», risponde Tobia stringendo le mani sotto il tavolo e nascondendo la matita tra le cosce. «Ora disegno un punto. Lo giuro».

«Il punto, come la retta, non lo puoi disegnare, Tobia».
La stella alpina si è allargata come una piovra vegetale, i petali gonfi in una testa fibrosa, le radici sullo stomaco come tentacoli. Ogni tanto si stringe per nutrirsi. La sente succhiare.
«Come faccio, se non si disegnano?»
Il bambino risponde a voce bassa, ma il tono è sempre più deciso.
«Devi capire cosa sono».
«Cosa sono, allora».

«La retta è una sequenza infinita di punti».
Una sera, Paolo e Luca, mano nella mano, avevano trovato Mamma accartocciata sulla sedia di fronte alla cena pronta, un braccio disteso sul tavolo a proteggere la famiglia che si sarebbe presto seduta e una mano serrata sulla bocca ad ammutolire i singhiozzi. Si erano avvicinati a piccoli passi. «Mamma?» aveva osato Paolo, la saliva di Luca che deglutiva nervoso aveva grattato il silenzio sino a quando la madre lo aveva rotto, motivando il perché del suo pianto.
Paolo, da quel giorno, aveva iniziato a raccontare di quando il cugino della mamma si era arrampicato su un ippocastano di Milano e gli uccelli l’avevano beccato scorticandogli tutto il viso, sino a lasciargli solo gli occhi; di come a Milano si costruiva tutto con il cemento, non con gli alberi, e siccome il cugino non voleva lavorare, lo avevano seppellito vivo nel calcestruzzo liquido; di come la strada, col cugino dentro, si era sollevata da terra e riavvolta, sotterrando tutti i bambini che vi camminavano. Luca lo ascoltava scorticando i pini. Infilzando le dita nel tronco, cercava di concentrarsi sul dolore dei piccoli tagli che si provocava così da non sentire i racconti del fratello, i dettagli che Paolo inventava su una Milano che non aveva mai visto e sull’agonia straziante di un parente che non aveva mai conosciuto, il cugino della madre falciato dal rullo di una fabbrica tessile.

«E il punto non ha dimensioni».

Quando Paolo lo terrorizzava con le storie del cugino e lui scorticava i tronchi di pino, Luca poi raccoglieva le croste dell’albero e le portava a casa, al rifugio. Le nascondeva in un posto segreto che Paolo non aveva mai trovato e la sera, prima di andare a dormire, si sedeva vicino al fuoco per avere un po’ di luce. Al tepore del camino, assemblava le croste in figurine di legno che costruiva con la colla, appiccicandosi tutte le dita.

«Il punto non è che una posizione nello spazio».

Poi Luca entrava nella camera buia, quando Paolo era già disteso, e si infilava nel letto a una piazza dove dormivano entrambi. Era abituato ad addormentarsi abbracciando il fratello. Cercando di non svegliare Paolo, che il più delle volte già dormiva, allungava le braccia minute sul suo torso, posava la testa sulla sua clavicola, si arrampicava su di lui come un tralcio di vite. Le piante rampicanti hanno i fusti esili, troppo lunghi perché si mantengano erette da sole. Non esistono a grandi altitudini. 

«Il punto è una posizione nello spazio e la retta ne prosegue la direzione, all’infinito».

A letto, abbracciandolo stretto, Luca sussurrava parole incomprensibili. «Dai, dormi», gli diceva sempre Paolo quando i bisbigli del fratello lo svegliavano. «Ora mi addormento, Pa’», gli rispondeva lui. «Mi sto raccontando una storia».

Paolo Friodaz lascia che il suo sguardo pesi su Tobia sempre di più. Lo osserva in silenzio. La macchia gialla nell’occhio di Tobia è sempre la stessa, un unico punto di una retta che è continuata da quando Paolo e Luca erano bambini. Paolo Friodaz ripercorre la retta all’inverso; sa che di tutte le direzioni che poteva prendere, ne ha seguita solo una. Rivede la nascita di Tobia, quel bambino così simile a Luca, che ora ha paura di lui. Paolo Friodaz lo sa, Tobia non capisce perché lui non lo abbracci, perché non sia capace di parlargli una lingua che gli sia comprensibile. Rivede il tempo in cui era Luca a guardarlo, la stessa macchia nell’occhio destro, la stessa paura e le stesse storie fantastiche, che Paolo non capiva. Il tempo in cui lui e Luca partivano per i sentieri nel bosco, con la bella stagione e con la neve, Paolo che gridava «chi arriva primo vince» e Luca che proseguiva lento, parlando da solo, raccontandosi le sue fantasie. Lo rivede togliersi i guantoni, poggiare il palmo sul tronco degli alberi, chiamarli per nome e rivolgersi a ciascuno in modo diverso, perché un pino, un larice, un abete non possono avere tutti lo stesso carattere. Risente il suo abbraccio, la notte, la sua testa nell’incavo tra il collo e la spalla, le parole delle sue storie sempre più lontane, mentre si addormentava. La retta torna indietro. È il giorno in cui Paolo Friodaz ha conosciuto Veronica, «non mi interessa se non parli mai», il giorno in cui gli ha annunciato di essere incinta di Tobia. Sul tavolo della colazione, gli aveva fatto trovare una stella alpina, che brillava sotto la luce acerba e splendente delle primissime ore del mattino. La stella alpina è un fiore piccolo e resistente, nasce e cresce su terreni rocciosi e ostili, ha foglie pelose e vellutate. È priva di aculei: non ne ha bisogno per proteggersi. La stella alpina di Paolo Friodaz no, è diversa. Torna al giorno in cui le sono cresciute le spine e lei si è piantata, tenace, nel suo costato.

«Ti prego non lasciarmi solo, Paolo, ti prego, non te ne andare», Luca lo stringe, gli bagna il collo piangendo, «Luca torno, te lo prometto», la gamba è ferma in una posizione innaturale, «vado a chiamare aiuto e torno», il ginocchio è un angolo storto, «chiamo aiuto e torno, te lo giuro». Non dovevano partire, Paolo lo sa, sta arrivando la tormenta e non conosce il sentiero, stacca le braccia del fratello dal collo e lo bacia, «Luca ti voglio bene, sono qui anche se non mi vedi, chiamo aiuto e torno». Il cielo bianco ruggisce, nuvole di neve rabbiose, Paolo corre e cade, rotola, si rialza, la neve si fa polvere, il cielo si abbassa, il bosco diventa fitto. Fugge.

Anche nelle discese più impervie, la geometria della neve continua piana. Dopo la tormenta, le rette tornano distese, dalla montagna al cielo. Da qualche parte, sotto la neve, un camoscio si decompone dopo l’attacco dei lupi. Da qualche altra, le ossa di un bambino. Nessuna retta che consoli lo sguardo. 

Illustrazione di Diana Daniela Gallese

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Enrica Fei è nata a Firenze, ha vissuto e lavorato nel Medio Oriente, a Londra, e ora è a Berlino. È traduttrice dall’arabo e dal francese, lavora come ricercatrice e sta concludendo un dottorato su Iraq, Iran e identità sciita. Suoi traduzioni, racconti, articoli e recensioni sono apparsi su varie riviste, tra cui ArabpopL’InquietoAltri AnimaliQuarta CordaMarvin, Minima & MoraliaIn Fuga dalla Bocciofila. Ha curato la revisione dall’arabo e dal francese delle raccolte di poesie e racconti Allunaggi (Giaconi Editore, 2022) e Ammaraggi (Giaconi Editore, luglio 2023). È curatrice della rubrica “9 righe. Consigli di lettura illustrati” per la rivista Yanez.

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