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La donna cavallo

 

Dove Elio è un uomo dai capelli precocemente imbiancati, perenne assistente universitario; taluni – generalmente donne – lo ricordano per un romanzetto di quando era poco più di uno studente, scritto in un periodo di alto consumo di hascisc e vita disordinata. A quel tempo dormiva sul pavimento di Donatella, a Testaccio; quando aveva cinquemila lire scendevano dallo Scopettaro per una pasta cacio e pepe. Donatella, oggi, fa un lavoro piuttosto vago nel campo editoriale e non ha mai portato tacchi né reggiseno, ama la carne cruda e il pervinca accostato al rosa. La sera guarda la televisione su una poltrona Frau. Elio e Donatella si sono conosciuti nell’anno del golpe Borghese.

Stanza buia con qualche raggio di sole che entra dalla scheggiatura delle tapparelle, odore di moquette e posacenere. Fogli appallottolati in ordine sparso. Squilla il telefono.

«Pronto».

«Dici pronto come uno che ha bevuto fino a tardi».

«Ero solo, ieri sera. Sono le bevute peggiori, sai? Se non hai l’obbligo della conversazione -».

«Hai quella cosa per me?».

«Eh? Mi sembra di avertelo già detto che è ancora senza virgole, la cosa».

«Mandamela così com’è. Cerco di girargliela in serata».

«Girarla?».

«Te lo ricordi sì o no che hai firmato un contratto?».

«Non ti inalberare. Se strilli -».

«Mi sono dovuta genuflettere per fartelo ottenere. Mi sono venduta. Adesso capisco cosa si prova a fare la puttana».

«Sei andata a letto con l’editore per me? Naaa. Alla soglia dei sessanta, con le vene varicose -».

«Sei un maledetto maleducato».

«Lui! lui con le vene varicose, l’editore. L’ho visto l’anno scorso a Ostia. Ha pure la pancia, quella da vecchio, tesa come -».

«Come la tua».

«Esatto. Non dovresti perdere tempo con dei vecchi come noi».

«Magari se non lo fossi anche io».

«Per me sei sempre la ragazza scalza con la coroncina di perline sulla fronte».

«E il pancione sotto lo scamiciato a fiori. Comunque: esiste una bozza senza maiuscole e punteggiatura, per lo meno? Un’idea anche se vaga? La donna cavallo è invecchiata; ha allevato un branco di ragazzine cavallo, che sono creature primitive? Evolute? la sua versione due punto zero? Diamine, almeno un accenno a voce devo farglielo».

«Un giorno attraversavo una pineta sul lungo mare di Ostia, coi jeans a zampa di elefante, una collana di osso e una bottiglia di Borgogna in mano ed ecco, a un tratto, una maestosa creatura metà donna metà cavallo».

«Sì, questo lo sappiamo tutti, sono passati trent’anni da quella passeggiata nella pineta».

«Trentadue, prego. L’età di Sabina».

«Sì, sì, scrivevi a macchina con lei in braccio. Non so come le tue fantasie erotiche non fossero disturbate dal suo odore di sesamo e pannolini».

«Dì pure merda».

«Me lo vuoi rinfacciare? Vivevi a casa mia, ti rendevi utile».

«Cucinavo anche; la mia cacio e pepe ti faceva piangere, ricordi? Se non ho mai avuto il piacere di far venire una donna fino alle lacrime, almeno so farlo ai fornelli. Ma tu di cacio ne compravi sempre poco».

«Costava troppo, il cacio, ma su Sabina non ho niente da dire. Sei stato un buon amico».

«Non potresti dire buon padre, per una volta?».

«No, perché non sei suo padre».

«Non puoi esserne sicura».

«Vuoi litigare?».

«Ma no, è solo che mentre io ero nella pineta a incontrare la donna cavallo che mi ha reso celebre, tu eri nella villa degli Ortese».

«Non solo io».

«Per l’appunto. Un attimo prima che uscissi eravate più o meno in venti sul tappeto, uno sopra l’altro, alcuni nudi. Due penso che stessero proprio scopando lì, in mezzo a tutti. Deve essere stata la loro animalità a ispirarmi la storia della pineta. Mezzo busto, con tette e trecce, ma sotto cavallo. Te l’ho detto che aveva il pene?».

«Vuoi dirmi che saresti stato -».

«Sodomizzato, certo. Ma la cosa non è trapelata perché nella versione definitiva la parola fallo è stata omessa, e questa si è dimostrata un’idea piuttosto buona. La storia non avrebbe suscitato lo stesso entusiasmo perché le donne non ci avrebbero visto una proclamazione del diritto all’orgasmo femminile. In realtà, era tutto il contrario: una perversa affermazione della superiorità del maschio. Il ritorno a un idillio pre-biblico e a una società adamitica, dove ci si accoppia al solo fine del piacere in sé. Maschile, se bisogno proprio specificarlo».

«Sai che novità. Spero non sia questa l’idea per il sequel perché non è solo antifemminista, è vecchia. Trita. Muffosa».

«E puzza di mutande sporche».

«Di’, hai già bevuto stamattina?».

«Sono solo, stamattina. Sono le bevute -».

«Ti saluto».

«No, no, prima dimmi di Sabina. Sono un vecchio fricchettone che un giorno di trentadue anni fa, a passeggio in un bosco, si è immaginato di prendersela in quel posto da una creatura mitologica, ma non sono cattivo. Tu stavi dagli Ortese, sbaciucchiando più o meno tutti tranne me. Ero innamorato di te, a quei tempi, ci ho sofferto».

«…»

«Pensarti sul tappeto con uno di quelli mi dava la nausea. Avevo bisogno di rimuovere il genere femminile. Quando si è giovani si fa presto a inventarsi le tragedie ma non avevo il coraggio di fare qualcosa di drastico, tipo buttarmi in un pozzo artesiano. Allora, dopo aver passeggiato su e giù per la pineta, sono tornato a casa, casa tua per inciso, e mi sono messo a battere sui tasti in modo furioso. Battere, non scrivere, era scrittura mercenaria, una cosa da zoccole. Io sì che lo so cosa provano le puttane. Quando perdi la vergogna – pudore è una parola troppo diciannovesimo secolo – scendi al livello della prostituta. O ti innalzi, non voglio dire. Poi arrivano le femministe coi rami d’ulivo, mi stendono i mantelli, io come a cavalcioni dell’asino. Ma ci sei?».

«…»

«Oh, non far parlare da solo un povero vecchio, potrei morire di dolore. Dimmi di Sabina, per favore. Sta ancora con quel rumeno? Non ho niente contro la Romania ma i rumeni li odio. I maschi».

«Vivono a Brasov. Già da qualche mese».

«E non mi ha detto niente? Due parole, un bacio al suo vecchio padre».

«Smettila con questa storia del padre».

«Smettila tu. Avevi fumato talmente tanto che se fossi stata anche con me quel giorno non te lo ricorderesti».

«Non sono rimasta incinta quel giorno».

«Invece sì, me l’hai detto appena uscita dal bagno con lo stick in mano e due occhi così. “E di chi è?” Mi hai chiesto, perché c’erano proprio tutti quelli che conoscevamo dagli Ortese. Non ti dico la rabbia, tutti tranne io che ero nella pineta».

«Mentivo, non avevi capito? Come hai mentito tu inventandoti un satiro. Migliaia di copie del tuo libro, migliaia di bugie».

«Solo che nel mio caso lo sapevate tutti che era una storia di invenzione (un satiro, vedi tu) mentre tu non avevi nessuno bisogno di far credere a me qualcosa che non fosse reale».

«E invece sì».

«E perché mai?».

«Perché. Perché».

«Per metterci un pizzico di epica anche tu, io con una donna cavallo tu con dieci uomini? Dieci meno uno, ricordatelo».

«…»

«E pensare che quando eri incinta mi lasciavi dormire con te. Con le mani sulla tua pancia, a giubbotto dicevi. Da cosa doveva difendersi una donna come te, proprio non so».

«Dagli altri, da quello».

«Quello chi?».

«…»

«Eh?»

«Uno».

«Chi in particolare?»

«…»

«Perché non parli più?»

«Non me lo hai più chiesto, dopo lo stick. Se quando dormivi nel mio letto a giubbotto antiproiettile lo avessi fatto, forse te lo avrei raccontato. Oggi è troppo tardi. Oggi amo troppo Sabina».

«Anche io la amo».

«Ma non è tua».

«Cosa non la rende mia? Lo sai che quando il rumeno le ha regalato l’anello mi ha telefonato? Io le ho detto di non metterselo in casa, non era il caso di mandarti su di giri. Non so perché sei stata così rigida con lei».

«Perché il mondo è pieno di fiere».

«Le pinete anche, ma, come hai visto, non tutte nuociono».

«…».

«Devi dirmi qualcosa?».

«Come pensi di continuare la storia a trent’anni di distanza? Non sei più la stessa persona».

«Certo che lo sono, l’ingenuo che si domanda sempre cosa ti passa per la testa. E tu sei sempre la ragazzina scalza con la tendenza alla stupida euforia».

«E la collana di perline».

«Sulla fronte. Allora, che hai? Magari mi aiuti a trovare l’idea».

«Voglio troppo bene a Sabina. Non potrei mai».

«Tutto può essere demistificato, il mio romanzo è la prova. Allora, comincia: io sono fuori, disperato, fatto solo un pochino ma deciso a evitare i pozzi artesiani, e tu? Tappeto?»

«No, fuori anche io. Sul patio».

«Villa Ortese non aveva nessun patio. Dove stai? Sii precisa».

«Sul terrazzamento. Ricordi? Era fatto tutto in rovere con i gazebi di garza, le chaise-longue e una scalinata che scendeva alla spiaggia, ogni scalino un lume a olio. Il sole sembrava sciogliersi nel mare».

«Bello. L’amore ti aveva resa languida».

«Non c’era amore, non c’era un solo goccio di amore in quella casa».

«Era anche la mia sensazione. Solo promiscuità di adolescenti attempati che si erano stufati di stare seduti ai banchi della chiesa. Ho sempre pensato che l’andamento demografico di una popolazione sia direttamente proporzionale alle ore di catechismo».

«Quello che c’era nella villa non c’entrava niente neanche con la religione».

«Come no, il desiderio è proporzionale al tabù».

«Non era desiderio. Era-»

«Cos’era? Non parlare al posto della ragazzina con la collanina di perle, per favore».

«Potere. Solo una manifestazione di potere».

«Gli Ortese erano ricchi, come buona parte dei loro ospiti. Il lusso non mancava, quello ignorante dico. Quando vuoi far capire che le mani ti puzzano di dollari; ma noi due non eravamo così».

«Non lo so se fosse una cosa legata ai soldi o all’ignoranza. Penso che comunque fosse un qualcosa di universale. Propria di tutti, intendo».

«Era un potere violento?»

«No, solo il bisogno di dimostrare a se stessi di poter usare qualcuno. Il sesso, alla fine, è quello. Io vengo, ti faccio venire. La donna cavallo che libera l’orgasmo delle donne ostentandolo come uno scettro. L’uomo sodomizzato che l’ha perso nella pineta».

«Sembra triste, ma è una visione retrospettiva».

«Cosa significa?»

«È quello che pensi oggi che sei madre: “e se Sabina facesse le cose che ho fatto io? Oddio. Io ero in grado, lei no. Io potevo stare con l’uno e con l’altro senza perdermi, lei no.” Sabina l’hai condannata a stare con un rumeno ortodosso e sorbirsi messe di tre ore ciascuna e mille segni della croce, uova dipinte, e mosaici -».

«Non l’ho confinata io nel recinto dell’idolatria. Io le ho sempre insegnato un modo di pensare pulito, rigoroso».

«Ma Sabina ha bisogno del rito, della magia, del fulgore dell’oro. Non hai mai capito niente di tua figlia-».

«Può essere. D’altra parte l’hai allattata tu, io non tolleravo l’idea di essere ostaggio del suo bisogno».

«La mia donna cavallo».

«Non me lo perdonerò mai».

«Cosa?».

«Il biberon».

«Smettila di dire scemenze, non aiuta la mia storia. Sei stata una madre paterna, questo sì. Non eri coccolosa ecco, era come se Sabina ti fosse nata dalla testa, mater cerebralis, ma c’ero io. Le leccavo le dita sporche di Nutella e la sera leggevo la storia fino a che non ha imparato a leggersela da sola. Così dovrebbe essere l’educazione, secondo me, ma non sono un pedagogo. Sono solo lo scrittore di un unico libro che tra l’altro è stato travisato. Ogni tanto mi sembra una vita futile, la mia. Comunque: sei sul terrazzamento al tramonto, veli e lumini. Dimmi chi è che stai aspettando».

«Nessuno. È un momento con me stessa per regalarmi la bellezza del tramonto. Mi sono estratta a forza dal vuoto di senso che c’è nella casa. Ti sembrerà strano ma è stato il momento in cui mi sono sentita più forte in tutta la mia vita. Un senso di potenza, ecco. Potenza».

«Anche tu, quindi, dentro la logica del potere».

«No, io fuori. La mia potenza non era una manipolazione o una vittoria. Era pura energia. Era essere. Io ero: di fronte al mare».

«Io sono: dillo come si deve».

«No, non più. Da vecchia non penso più a queste cose».

«Cosa fai, sul terrazzamento, donna sola e potente? Donna cavallo. Donna senza briglia e senza morso».

«Vengo a cercarti nella pineta. Ti ho visto allontanarti con la bottiglia in mano. Voglio dirti una cosa».

«Ti sei travestita per me, ti sei denudata il petto e indossato le zampe. Lo scopro dopo trent’anni: la donna mitologica era la donna della porta accanto, anzi della stessa porta, perché abitavo già sul suo divano e passavo le notti a chiedermi perché non ricambiasse il mio amore».

«Perché eri troppo umano».

«Tu animale, io umano. Hmm, non so se regge».

«La tua umanità era troppo trasparente. Arrossivi sempre come un falò prima di prendere la parola e sudavi, anche le mani che lasciavano l’impronta sul tavolo. Ti ingoiavi tutto quello che dicevi. In giro per casa eri goffo, coi piedi sproporzionati e gli alluci troppo lunghi. In bagno facevi un sacco di rumore. Non mi fraintendere, ti ho sempre trovato bello».

«Ne dubito».

«I tuoi capelli, per esempio, mi son sempre piaciuti quando li legavi e la barba, se non te la facevi per qualche giorno ti cresceva a chiazze e mi faceva tenerezza. Un’unica striscia di peli sul petto: eri una crisalide imperfetta».

«Era questo che volevi dirmi quel giorno, quanto fossi sfigato?».

«Forse volevo solo mostrarti il sole prima che sparisse nell’acqua».

«Quindi sei la donna travestita da cavallo e me lo confidi alla soglia della vecchiaia quando devo sfornare un libro per racimolare i quattro soldi che mi servono per aggiustare la caldaia. Tiene, secondo te? Forse sì, il sesso intimistico piace al giorno d’oggi, e le mie lettrici sono invecchiate anche loro. Ma come spiego che, a suo tempo, non ti ho riconosciuta?».

«Col fatto che non ti ho mai raggiunto. Non ti ho parlato del fatto che lontana dalla promiscuità del tappeto mi sentissi potente ma sola; mi sono sempre sentita sola, fin da piccola. Non ti ho chiesto di portarmi a casa e mettere su l’acqua per gli spaghetti».

«Entri in pineta, mi cerchi con lo sguardo, mi trovi e -».

«E c’è qualcun altro».

«Un altro? Vero? O te lo stai inventando adesso?».

«Vero».

«Uomo?».

«Sì».

«Lo conoscevi?».

«…».

«Lo conoscevo?».

«Non mi hai sentita».

«Cosa?».

«Ho gridato. Come potevi non sentirmi? I tuoi sandali sugli aghi di pino e il rumore dei tuoi jeans, io li sentivo. Ho gridato proprio il tuo nome. Elio».

«Donatella. Cosa stai cercando di dirmi?».

«Ho gridato fino che lui non mi ha coperto la bocca con la sua. Penso che tu facessi finta di niente per pudore. L’hai detto prima, dieci su un tappeto. E forse era giusto, era elegante far finta di ignorare quella che ero. Ma cos’ero? Tutta la potenza di prima schiacciata sotto il peso di un uomo».

«Donatella».

«Non sono stata ­– quell’uomo non mi ha – » .

«Ti ha fatto male? Io non ho sentito. Te lo giuro. Se sentivo, Doni. Se ti sentivo se ti sentivo – se ti sentivo. Se solo avessi sentito»

«Non riesco a calmarmi. Scusa se straparlo ma saperlo dopo trent’anni. Ma perché non l’hai detto, Donatella?»

«E cosa avresti fatto?».

«Avresti dovuto urlarlo al mondo, Donatella! Alla polizia. A tutte quelle donne che inneggiavano alla natura selvaggia senza sapere quanto fossero vulnerabili. E Sabina?».

«…».

«Sabina. È figlia dell’uomo che ti ha violentata? Eri stata con qualcun altro? Dimmi la verità per una volta, se è vero che davanti al tramonto hai pensato che potevamo essere amici».

«Amo troppo Sabina».

«Ma non c’entra col tuo amore per lei-».

«C’entra perché l’ho odiata. Così tanto che a volte mi prendeva una cosa allo stomaco e mi piegavo sul water per vomitarla sperando di veder annegare nello sciacquone anche lei. Che strana fantasia, come se i bambini potessero uscire dalla bocca. L’amore e l’odio sono la stessa cosa, o quasi. Adesso la odio per essere andata a vivere a Brasov. Forse già pensa in una lingua diversa dalla mia. Da quella che tu gli parlavi quando era nella mia pancia».

«…».

«Quell’uomo non mi ha violentata. Non ha strappato niente. Non c’è stato sangue. Lividi. Solo io che dicevo Elio. Forse l’ho anche detto piano».

«Ma allora?».

«Mi sono specchiata un attimo nei suoi occhi, come tu hai scritto di aver fatto in quelli della donna cavallo, ma, a differenza di te, non sono stata sedotta. Quell’uomo non mi vedeva bella, o brutta, o scalza, niente, non vedeva la mia forma umana. Non mi riconosceva, capito? Ero immobile, cosa morta. Cosa. Ma –».

«Ma?»

«In un certo senso che non so spiegare, quel nulla era calamitante».

«Ti sei arresa. Hai abbassato la testa».

«Forse sì».

«Ho assistito al ladro che ha fatto rapina di te, gli hai consegnato le chiavi di casa. Perché?»

«Non lo so».

«Te lo dico io. Perché sotto sotto pensavi di avere bisogno di lui, della sua attenzione, di affascinarlo. Tutte le donne, anche le femministe hanno bisogno di amore. Barattate tutto con l’amore. Eri stata sola sul terrazzamento, avevi rinnegato l’indiscriminata promiscuità e cercavi l’amore».

«…».

«Non parlerò a nessuno di questa storia, mi ammazzassero se mi lascio sfuggire mezza parola con Sabina».

«Sabina –».

«È a Brasov, lontana dai tuoi ricordi, è un bene. Ha barattato l’amore con l’idolatria ma va bene. Ha sempre le fossette nelle foto. È una ragazza stupenda. Sarà la donna nuova».

«Cosa vuol dire?».

«Non lo so. Sarà la donna del terzo millennio, scalza e senza scettro ma con la pistola in mano. Smetti di piangere, per favore. Sono vecchio».

«E allora non dire stupidaggini. Ne abbiamo già scritte tante. Sono preoccupata per Sabina, che sia o non sia come me».

«È che non sopporto sentire le mie vecchie amiche che piangono nel telefono. Ci sono altri modi per costringermi a buttare giù la bozza. Adesso mi metto e in quattro e quattr’otto quel farabutto dell’editore avrà la spazzatura che vuole».

«Va bene».

«Tu aspettami. Per cena intendo, che vengo a farti la cacio e pepe. Il cacio passo a prenderlo io. Ho una nuova ricetta che ti farà ridere».

«Non rido più da qualche anno».

«Mentre faccio saltare gli spaghetti ti spiego com’è che ho capito, mentre parlavamo, che Sabina è mia figlia. Calma, calma, non riattaccare. Ascolta, hai mai notato i suoi alluci che sono dritti come i miei? E lo spazio fra le cosce, e i segnetti della fluorosi? Un sacco di particolari miei si sono trasferiti su di lei, a forza di starmi in braccio, o dormire nel mio letto, o arrampicarsi sulla lavatrice quando mi facevo la barba. La sua mano è diventata un po’ a forma della mia e io sulla pancia ho tutta la gamma di tacchette che mi facevo per segnare la sua altezza. È vero, eh? La sua crescita ci ha reso i vecchi che siamo».

«Quindi alla fine siamo noi i figli di Sabina?».

«Già, noi siamo nati da lei. Niente è nato da quell’uomo».

«Niente».

«La donna cavallo, dopo aver fatto di me quello che voleva come con un pupazzo, ha corso per la pineta gloriosa, con la bandiera della libertà perché tutte le donne non erano più ostaggio dell’amore e ha travolto l’uomo che ti ha violentata. L’ha orribilmente calpestato. Gli ha rotto il cranio e passeggiato con gli zoccoli sulla sua materia grigia».

«Non mi va più di parlarne».

«Ma la storia tiene? Per noi tiene, no?».

«Chiudo. Ti aspetto per cena».

«Perdonami, Donatella».

«Le virgole».

«La cosa avrà tutte le sue virgole. Tutte quelle che vuoi».

 

 

Foto originale di Sara Gambolati

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