Se ti incontrassi per strada, non ti riconoscerei.
Forse sarei incuriosita dal tuo fissarmi col sorriso, che ricambierei, o forse nemmeno tu mi riconosceresti e tireresti dritto con la sensazione di aver già incrociato i miei occhi da qualche parte.
Che ne sai del mio odore, del mio aspetto da adulta? Tu hai in mente una bambina, io un giovane uomo: come potremmo mai rivederci in una donna e in un vecchio?
Mi illudo che se tu mi parlassi riuscirei a distinguere il timbro delle tue corde vocali, ma poi ricordo che anche la tua voce è scivolata in fondo al mio cervello, dove galleggiano brandelli di te.
Eppure eri il mio mondo, la sola persona ad avere un significato. Eri tu, erano le tue mani, il tuo profumo a governare il mio universo. Eri tu anche quando hai iniziato a essere debole, incapace di tirare su il tuo grande corpo dal letto. A me andavi bene anche così: non mi importava di vederti in pigiama, imbronciato e in preda al terrore, mi bastava vederti e mettermi vicino a guardare la tv. Tu, però, non potevi accettare di trasformarti in un fantoccio scarnificato. Ti amavo così tanto da essere del tutto indifferente ai tuoi sentimenti: ti volevo con me e basta, non potevo sapere che per te non era lo stesso. Eri fatto così, d’altronde: o a modo tuo, o niente.
Forse sapevi che ti stava fottendo il tuo stesso sangue e hai deciso di non fare sconti a nessuno: hai riempito una valigia e te ne sei andato quasi senza salutare. La porta che ti sei chiuso alle spalle non ha fatto il solito clac di sempre, ma un rumore sordo, dimesso. L’ho sentito, ho capito, ma sono stata zitta.
Non hai sbattuto la porta, eppure la casa intorno è crollata. A te non importava, evidentemente, visto che non hai mai fatto nemmeno una chiamata – bastava il generale, tua moglie, a diramare il bollettino di guerra ai cittadini rimasti a difendere il suolo natìo. Eri a conoscenza del tono che usava all’esterno? L’imperativo era mentirci dicendo che venivi bombardato da confettini colorati, pensando che in trincea fossimo tutti dei coglioni.
Gli altri magari se la bevevano, ma io ero certa che fossi straziato da qualche parte, incapace di emettere un fiato – se no l’avresti usato per me e per nessun altro, quel pezzettino di aria. Chi ti aveva strappato la voce? Cosa ti inchiodava in un posto proibito ai bambini? Nascosta dietro una porta, sentivo paroloni sputati sulla cornetta telefonica senza criterio. Avevo capito che la gente faceva la coda per regalarti il suo sangue ma un tale signor Waldenström te lo divorava e tu ogni giorno gli lasciavi un pezzettino, ma non osavo chiedere spiegazioni a nessuno. Chi, d’altro canto, mi avrebbe risposto? Avrebbero detto che non avevo capito niente e avrebbero posto molta più attenzione nelle loro conversazioni in codice, tagliandomi definitivamente fuori.
La mia richiesta era solo una: vederti, accarezzare la tua mano e rimanere un attimo vicino a te, il tempo di ricomporre i miei confini e prendere fiato; la risposta era una litania di non si può, non ti fanno entrare, va tutto bene, torna presto. Forse non mi hai perdonato di aver abbassato la testa e obbedito a ogni repressione. Se solo avessi avuto le idee più chiare ti assicuro che avrei gridato così forte che perfino tu mi avresti sentito dall’altro lato della città.
Dopo settimane di silenzio ho giocato la mia ultima carta: avevano portato in casa una Madonna che faceva il giro dei condomini durante il mese di maggio e le avevo fatto un’offerta pazzesca – una bambina in cambio del suo papà, la mia vita per la tua. La scena era già scritta: tu rientravi, annunciato dal tintinnio delle chiavi e mi chiamavi. Bambina mia cara, bambina mia cara. Io ti saltavo in braccio e zac, la Madonna si prendeva la mia vita e voi andavate avanti tranquillamente.
Come ti eri ridotto? Qualcuno ti faceva la barba? Avevano lasciato in casa il rasoio elettrico e il dopobarba, come ti stavano tenendo al mondo? Chi si premurava di darti le medicine? Pensavi mai a me?
Domande senza uno straccio di risposta. Per me solo uno stuolo di mocciosi di merda che pensavano a giocare mentre io non smettevo di arrovellarmi il cervello e di immaginare per me la stessa sorte di tutti quegli orfani che riempivano le pagine dei libri ricevuti in regalo proprio da te, inconsapevole di avermi messo tra le mani una profezia tremenda. E ogni volta che mi immaginavo in un abito nero, a seguire le carrozze caricate di una bara bianca, con i genitori del morticino che gettavano a terra confetti bianchi da accaparrarsi per un istante di dolcezza, mi ripetevo che non mi avresti mai fatto una cosa del genere.
Quando sono venuti a dirmelo, li ho anticipati. È morto, ho detto. Non ho lasciato a nessuno il lusso della verità, gliel’ho strappato dalle mani con tutta la forza che avevo.
La mamma era una lastra di ghiaccio, stanchezza e terrore. Ha solo fatto sì con la testa. Non ho versato una lacrima nemmeno io, ai bambini si diceva di non piangere.
Voglio vederlo. La testa si è mossa in senso contrario. No. Mi hanno detto che non era necessario, che sarebbe stato sufficiente ricordarti com’eri. E com’eri? In cosa ti eri trasformato? Avevi ancora i tuoi capelli neri con l’ondina sulla fronte? Per favore, vi prego, fatemelo vedere. Sei troppo piccola, dicevano, e non sapevano che ti stavo immaginando come un mostro. Di certo avevi perso i tuoi denti bianchi, le tue labbra identiche alle mie e quel naso troppo lungo che ti aveva privato di un sacco di belle avventure.
Fino a che non hanno sigillato la tua cassa sono rimasta sola, sotto un sole che bruciava i miei indumenti neri, costretta in un paio di scarpe troppo strette. Mi hanno dimenticata fuori dalla chiesa, come un oggetto senza valore. Tutti dentro tranne me, che vedevo la gente passare e lasciarmi addosso uno sguardo obliquo e appiccicoso che ancora oggi mi gratto dalla pelle con rabbia.
Li vedevo sfilare e pensavo solo che stavano sigillando in una cassa di legno un mostro che avrebbe tirato in fondo al mare anche me se solo l’avessi visto, senza nemmeno immaginare che mi avevi già trascinato giù con te.
La sola cosa che sapevo con certezza era che ti avevano fatto indossare una cravatta che avevo scelto io e che avrei preferito stringere intorno al mio collo fino a tirarmi fuori l’ultimo fiato. Le tue radici erano state strappate dalla terra e avrei voluto mozzare anche le mie per dormire di nuovo accanto a te, come in quelle mattine d’estate in cui la spiaggia era enorme e tu eri acqua e sole. I tuoi occhi erano stati mangiati dal buio e solo in quel momento avevo compreso di essermi affidata a un simulacro sordo.
Mentre attendevo l’apertura di quel portone di legno ho sentito due persone parlare: erano stufi di coltivare uva e volevano piantare kiwi, che richiedevano meno cure e rendevano molto di più. Avevano il privilegio di sfiorare le tue mani un’ultima volta e pensavano a cosa piantare nelle loro terre schifose. Ho odiato il tuo paese, i vecchi, i kiwi e ogni attimo della vita che avrei scontato in tua assenza, ma mai, nemmeno per un istante, ho odiato te e l’amore che mi avevi regalato e strappato quando stavo iniziando ad assaporarne ogni sfumatura di dolcezza.
Fuori dal portone di legno sentivo trapani in azione: ti stavano inchiodando alla croce e avrebbero portato il tuo corpo, scavato e mostruoso, in processione ogni tredici settembre, non quella statua di legno che un po’ piange e un po’ ride e viene custodita come un perfetto miracolo. Quando hanno deciso di avermi punito abbastanza, mi hanno ammessa in uno spazio microscopico pieno di gente che tirava su col naso, fiori, sudore e incenso puzzolente.
Vieni, non avere paura. Non ho mai avuto paura, io, volevo solo guardare in faccia te e la verità, non la pietà del mondo che detesto come quel legno lucido che vedo ancora oggi al posto della tua faccia bella e profumata. Sono restata immobile con la mano sulla bara, immaginando che avresti sentito il solletico ai piedi e ti saresti rialzato, vestito di tutto punto e pronto a portarmi finalmente al mare – ma tu dormivi troppo profondamente e non ho potuto far niente per svegliarti.
Ti ho seguito in mezzo ai fiori, avviluppata da persone che piangevano un’idea di te che non era reale, come non lo era nulla intorno a me tranne la sola certezza a cui potessi aggrapparmi: tu non saresti mai diventato vecchio e io non sarei più stata una bambina.
Ho alzato la sguardo, ho fissato il sole filtrato dalla vetrata della chiesa e ti ho sentito entrare nella mia testa e sistemarti tra i pensieri e i sogni che avrei fatto ogni giorno.
Ti ho stretto nelle meningi e ho iniziato a ridere a crepapelle, per farti capire che ero più forte io.
Illustrazione di Linda Leuzzi
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Bianca Favale, barese di quarantadue anni, bancaria, innamorata persa della mia compagna e delle parole. Leggo e scrivo per dare un senso alla quotidianità e vivere pensieri e desideri senza finire in galera. Ho pubblicato un racconto, Esodo, sulla rivista Risme nel 2019 e un romanzo, Il Posto dei Santi (ed. Scatole parlanti), nel 2020. Per il 2022/2023 sono Autrice Aggiunta di Spazinclusi, su cui ho già pubblicato due racconti, Glukupikron e Genesi. Ho scritto questo racconto ascoltando la Sinfonia n. 3 in Fa maggiore, Op. 90 – terzo movimento (poco allegretto) di Brahms. Giudicate di me teneramente.
Un racconto bellissimo pieno di cuore e così intenso da appannarmi gli occhi e farmi faticare ad arrivare alla fine..mi sono sentita trasportata li, vicino a quella bambina mai più stata bambina, che avrei voluto abbracciare e a cui avrei voluto sussurrare piano: si, quando sarà, vi riconoscerete
Bianca ha la capacità di farti stare lì, esattamente nel centro dell’emozione che racconta.