Italia Uruguay

Italia Uruguay

Racconto di Marina Mongiovì

Luigi stava seduto su una panchina che odorava di ruggine verde. Fermo, come la parietaria sui muri. Guardava giocare gli altri ragazzini, che vociavano e annerivano lo slargo sul viale. Eppure, aveva un buon destro e tirava forte, quando faceva rimbalzare la palla sul muretto del cortile di casa. Una volta, il salumiere gli aveva detto che era veloce, piccolo e veloce, come i grandi campioni. Come Totò Schillaci, con il quale condivideva la bassa statura, le umili origini e la città dov’era nato e cresciuto, e che aveva lasciato l’anno prima. Luigi aveva buoni polpacci e un buon fiato ma non bastavano, era stato marchiato dal primo giorno che aveva messo piede in paese; marchio che, a dir il vero, si portava fin dalla nascita. All’istituto De Gasperi nessuno gli rivolgeva la parola. Solo occhiate, appuntite e fuggevoli, spesso accompagnate da esclamazioni e risolini. Per tutti era Luigi figghi i pulla.

Marisa Cannavò era bottana per necessità, ma tanti storcevano il naso, erano certi che lo fosse anche per vizio e virtù. Buttanazza, pulla, tappìnara, prostituta, meretrici, jarrusa e troia. Quasi nessuno la chiamava Marisa. Bella non era mai stata, forse rotonda nei punti giusti. Era rimasta incinta e la famiglia la vergogna non se l’era voluta tenere dentro casa. Aveva cominciato a Palermo, nei pressi dello storico vicolo Marotta, poi i prezzi degli affitti, un figlio da far diventare uomo e l’arrivo delle donne dell’est l’avevano convinta a spostarsi in un paese dell’entroterra; dove la concorrenza era meno feroce, la domanda cospicua e il costo della vita più accessibile.

Pinuccio Currò era in classe con Luigi e di puttane non ne aveva viste mai. Credeva fossero come le signorine di Colpo grosso che guardava con suo padre, arrossendo davanti al televisore. Sua madre passando in soggiorno, e vedendo i culi e le minne trasmesse in seconda serata su Italia7, sentenziava sempre che quelle erano tutte pulle.
Nell’ora di italiano o di matematica, Pinuccio sbirciava il profilo di Luigi e non riusciva a non pensare alla sua mamma, con grandi tette e costumi di paillettes, capelli rossi e vaporosi. La curiosità ardeva dentro i pantaloni e saliva su per le guance. Allontanava quei pensieri e tornava alle pagine del libro, ma solo per poco.

Il mercoledì pomeriggio padre Carmelo apriva l’oratorio. Nella corte interna della parrocchia del Santissimo Salvatore, c’erano due porte arrugginite e senza rete, a terra delle linee grigie che, con molta fantasia, potevano fare somigliare quella distesa di cemento a un vero campo di calcio. I ragazzi si riunivano dopo le quattro e formavano le squadre. Calzoncini corti e calze di spugna scalpitavano sotto un sole primaverile, don Carmelo calmava gli animi e faceva da allenatore e da arbitro. Luigi stava a bordo campo, nella speranza che qualcuno lo chiamasse a giocare. Si sarebbe accontentato anche di un paio di calci al pallone ma era Luigi figghi i pulla e nemmeno ci provava a farsi avanti. Pure don Carmelo sembrava guardarlo male e bastava quella faccia da parrino a relegarlo per sempre al ruolo di riserva.
Un mercoledì mancò Matteo Passanisi, che giocava come terzino ed era rimasto a casa, in punizione, perché la settimana prima era rientrato con un occhio nero. I ragazzi sbraitavano e si surriscaldavano, nessuno voleva stare nella squadra con un calciatore in meno. Don Carmelo batteva le mani e alzava la voce per calmare i giovanotti. Fu in quel momento che Pinuccio si prese di coraggio: ‹‹Don Carmelo perché non facciamo giocare a Luigi?››
‹‹Luigi chi?››
‹‹Luigi figghi i pulla!›› rispose Salvatore, facendo scoppiare un coro di risate.
‹‹Chi sunu sti parole?››, don Carmelo aggrottò la fronte e diede uno scappellotto a Salvatore.
‹‹Si chiama Luigi Cannavò. È giusto che gioca pure lui››, tutti ora puntavano Pinuccio che s’era fatto forza dopo la reazione del don.
‹‹Certo, certo››, biascicò don Carmelo, che lasciava trasparire una certa esitazione; si scrollò pure le spalle, come a volersi togliere di dosso gli occhi di tutti quei ragazzini. Fece un breve cenno con la mano pallida e Luigi, correndo velocissimo, li raggiunse a centrocampo.
I novantacinque minuti di quella prima partita di calcio in paese per Luigi furono più emozionanti di Italia Uruguay, vista alla televisione con in cuore in gola. Quando tirò in porta e segnò, capì cosa aveva provato Totò Schillaci, quella sera di luglio di due anni prima. Gli abbracci, le pacche sulle spalle. Erano bastati la frase di Pinuccio, la mano di don Carmelo e un vecchio pallone di cuoio a farlo sentire un campione.
‹‹Grazie Pinuccio››.
Luigi sorrideva e Pinuccio sapeva di avere fatto la cosa giusta; gli altri si salutavano e sciamavano per i vicoli del paese; qualcuno si intratteneva, seduto sul muretto davanti alla chiesa, a contrattare figurine.
‹‹È vero che stai nel quartiere Terrarsa?››
Luigi abbassò lo sguardo e fece sì con la testa.
‹‹Mi ci porti? Non ci sono andato mai››.

Era la prima volta che Luigi ritornava a casa con un amico. Né in città, né tanto meno in paese, era riuscito a farsi degli amici. Alla madre aveva elencato i nomi e i cognomi, descritto ogni tratto somatico, imitato persino le voci dei suoi compagni di scuola, ma nessuno aveva varcato la soglia dell’immaginazione.
Il quartiere Terrarsa si chiamava così perché era bruciato quasi tutto, sotto i bombardamenti degli Alleati, nell’estate del ’43. Erano rimaste in piedi poche case sgarrupate, occupate da povera gente. Dopo la guerra si sparse la voce che c’erano le pulle. Vedove di militari, donne sole, che sceglievano di fare le prostitute. Donne povere che andavano a lavare le scale nelle case dei ricchi, per poche lire, ma erano lo stesso bottane, perché si infilavano nelle case degli altri. Per decenni fu il quartiere proibito ai mariti, e preferito dai ragazzi.
Pinuccio non era più un bambino, ma non era ancora un ragazzo. Lui e Luigi vivevano quella stagione in cui non sapevano bene cosa fossero, ma sapevano benissimo cosa sarebbero diventati. Inoltrandosi per i vicoli del quartiere Terrarsa, Pinuccio si sentì grande. Non l’avrebbe raccontato a mamma, ma forse a papà sì. Gli tremavano un poco le mani e si accorse che sudava freddo.
La casa di Luigi era come se l’era immaginata, una facciata di tufo e una porticina di legno al pianterreno. Marisa Cannavò, madre di Luigi figghi i pulla, non era come Pinuccio se l’era immaginata. Niente paillettes e niente gonfi capelli rosso lacca. Marisa era mingherlina sopra e larga sotto. I capelli neri raccolti e gli occhi piccoli. Quando aprì la porta fece un sorriso ampio, coi denti un poco ingialliti, e gli occhi scuri si fecero due fessure. Camminava leggera, era contenta che suo figlio avesse un amico. Ascoltava il suo bambino raccontare della partita di calcio e ogni tanto si voltava verso Pinuccio, con un viso carico di gratitudine. Tagliò due fette di pane e ci spalmò sopra una crema alle nocciole, poi prese dal frigo una bottiglia di vetro con acqua e frizzantina.
Pinuccio non si perdeva un attimo di Marisa, se la guardava tutta, coi suoi occhi grandi dietro alle lenti. Dentro quel vestito scuro sembrava una vedova di guerra, non aveva un filo di trucco e i seni, su cui aveva fantasticato, erano due protuberanze timide e cadenti. Aveva però due caviglie sottili, ancora giovani.
Come la mamma di Luigi potesse essere una puttana, Pinuccio se lo chiese per molti anni e non dimenticò mai l’espressione di quella donna, quando accompagnandolo alla porta, insieme a suo figlio e a un super santos, disse: ‹‹Andate a giocare fuori che adesso devo lavorare››.

Copertina originale di Marina Mongiovì

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Marina Mongiovì (1982) di origine etnea, da tempo vive a Palermo.
Ha pubblicato diversi racconti su riviste letterarie come Pastrengo, Blam, Morel voci dall’isola e Spazinclusi.
Nel febbraio 2023 pubblica per l’editore Kalòs, un libro di racconti dal titolo “Sciara”. Finalista alla IX edizione del premio letterario città di Lugnano in Teverina; al premio internazionale Etnabook e al premio letterario città di Erice.
Accanto alla scrittura, coltiva la passione per la fotografia. Nel 2021 Letizia Battaglia sceglie un suo scatto per una mostra collettiva al Wegil di Roma. Successivamente altre fotografie verranno esposte in mostre collettive sempre a Roma e nel Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, all’epoca diretto proprio da Letizia Battaglia.
Nel 2022 ha pubblicato un racconto fotografico dell’opera di Giovanni Verga, “Storie del Castello di Trezza”, edito da Rossomalpelo Edizioni, da cui è nata una mostra personale alla rocca normanna di Aci Castello.

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