Il salvadanaio

Il salvadanaio

Racconto di Francesca Santi.

Non è il classico salvadanaio a forma di porcellino. Sì, è un maiale ed è pure di ceramica, però non è rosa e non sta a quattro zampe. In piedi, nella sua salopette a righe bianche e celesti, si erge baldanzoso tra due pile di fumetti sull’unica mensola nella camera di Betta, stringendo tra gli zoccoli l’arma di un futuro delitto… il suo: il martelletto che non l’ha ancora ridotto in frantumi. Non è solo uno spartiacque tra la serie completa di Damon Slayer e gli ultimi cinquanta numeri di One Piece, è molto di più: lui, uno dei pochi ninnoli che non è finito in uno scatolone in cantina per assecondare il delirio compulsivo di sua madre e sua zia, è anche una speranza a cui aggrapparsi, l’unico modo che ha per comprarsi la libertà. Perché coi soldi puoi comprarti tutto! L’ha detto la Riccardi alla Simi, nella pausa tra matematica e latino. In verità, ha sussurrato ma Betta è esperta a captare i bisbigli: con una sorella come Delia, intercettare le intenzioni altrui è questione di sopravvivenza. La ricorda parola per parola quella conversazione…
– Fede dice che Dado è tornato, l’ex di Sandra, sai?
– Lo spacciatore?
– Non fa solo quello! Diventa un genio della lampada per la giusta cifra; però se la richiesta è strana si affida al destino – parole di Fede – non mi chiedere cosa vuol dire… Ogni lunedì, fino all’intervallo, lo trovi sotto la pensilina dell’ex fermata del 2 Rosso.
– Quella che dovevano demolire nel 2010?
– Sì, in linea d’aria è a dieci metri dal bagno dei maschi al piano terra.
– Forte! Pensi che ci scarrozzerebbe al concerto di Sfera?
Finché gli occhi non cominciano a bruciare, Betta fissa il lampadario sferico che dondola come un impiccato in perfetta sincronia con l’amaca su cui giace, il suo letto. Sospesa sopra un tappeto di manga e Funko Pop, conta i minuti che la separano dal suono della prima campanella e si rammarica che la scuola sia a due passi perché non ha scuse per trattenersi fuori da quel manicomio che da parecchio tempo non chiama più casa.
Cerca il cellulare nella tasca della salopette per ascoltare il primo vocale inviato a se stessa, registrato quando l’idea che l’assilla ha preso forma nella sua mente. Abbassa il volume al minimo e lo accosta all’orecchio.
Il tono è calmo, rassicurante, quello dell’amica che ha sempre desiderato e non ha mai avuto.
Promemoria uno: ho cinque anni. Delia ha rubato lo Zippo di papà e l’ha provato sui capelli della mia Barbie preferita, la sirena. Una scintilla ha incendiato la tenda e da lì il fuoco si è preso la mia cesta di giochi. Lei è scappata urlando, ma prima ha lasciato scivolare l’accendino nella mia tasca: ero così spaventata che non me ne sono accorta. Dopo aver spento le fiamme papà mi ha sculacciato e ha promesso che non avrei ricevuto nulla per il compleanno: le manteneva sempre le promesse, lui.
Un bussare deciso la spinge a tapparsi la bocca e a calarsi dall’amaca con perizia.
Guarda di sbieco il porcello prima di cacciarselo in borsa. «Non deludermi, ti prego.»
Lui non può far altro che starsene zitto dov’è, fissandola coi grandi occhi sgranati e un sorriso istupidito che sfiora i pomelli aranciati sulle guance cadaveriche finché la cerniera dello zaino non lo nasconde.
Ma esistono i maiali bianchi? – si chiede sovrappensiero, come se fosse quella la sua caratteristica più strana.
Betta si prodiga in un lento slalom, attenta a non sfiorare le scatole che proteggono i pupazzetti dalla testa abnorme che invadono la moquette.
Non fa in tempo a uscire che la madre e la zia la circondano. Betta si sente come un guscio nella morsa di uno schiaccianoci, ma non protesta, lo sa che sarebbe inutile. Ormai neanche distingue più l’una dall’altra: nessuna delle due ha smesso le gramaglie, entrambe le loro chiome sono annodate in severe crocchie e ogni traccia di trucco è sparita dai loro volti cavallini, così come i loro sorrisi. Mamma e madrina di due sorelle, un tempo accomunate dall’unico scopo di far brillare la sola promettente, ora sono unite da due missioni: sorvegliare quella irrecuperabile e comprare.
L’accompagnano alla porta in un complicato dribbling tra volumetti e bambole, strattonandola ogni volta che urta qualcosa.
«Non lo sai che se si rovinano le scatole, il contenuto non ha più valore?» le chiede sua madre, o forse zia Nicla: con quella sua nuova voce che ha perso ogni intonazione e assomiglia al sibilo di un palloncino che si sgonfia. Le stringono gli avambracci all’unisono quando esce sul vialetto e il corriere che incrocia le lancia uno sguardo compassionevole. Sul suo carrello ci sono altri tre scatoloni.
«Li lasci lì, torniamo subito», gli dice zia Nicla – o forse sua madre – indicando il tappetino su cui la scritta di benvenuto è ormai sbiadita. La voce è indistinguibile da quella della gemella.
Non le lasciano fare un passo in autonomia e attraversano sulle strisce pedonali assieme a lei, ignorando lo sguardo perplesso del vigile. L’accompagnerebbero fin dentro la classe e siederebbero al suo stesso banco, se fosse concesso. Molti dei suoi compagni si soffermano a osservare quello spettacolo che non li stanca mai: alcuni ridacchiano, qualcuno commenta a mezza voce, altri la fissano con sguardi che trasudano pena… sono loro quelli che Betta vorrebbe vedere sommersi da una valanga di manga e Funko Pop vomitati dalla sua stessa dimora, la morte più orribile che riesce a immaginare.
È la Valeri a porre fine alla sua umiliazione. «Signore, potete andare. Betta entra in aula con me.»
Riluttanti, le due sciolgono la stretta e arretrano come la marea prima dello tsunami. Betta sa che travolgeranno la giovane prof di insulti nel buio del salotto, illuminate soltanto dallo schermo del PC, intente a riempire carrelli virtuali fino all’ora di andare a riprenderla.
Adottami!, vorrebbe urlare alla Valeri, invece, la segue in silenzio, la testa china e le dita allacciate alle bretelle dello zaino.
«Ogni persona affronta il dolore a suo modo», le dice la donna, «Dà loro tempo.»
Betta inchioda sulla soglia della 2B. «Tre anni», risponde, mostrandole tre dita, come se le parole non fossero sufficienti.
La Valeri non la guarda più negli occhi: ha notato le unghie mangiucchiate che affondano nel rosa acceso della carne viva. «Per certe cose non basta una vita», conclude.
Il suono dell’ultima campanella la spinge a prendere posto dietro la cattedra senza aggiungere altro. Betta, invece, si concede ancora un attimo per ascoltare al volume minimo un altro vocale.
Promemoria due: ho otto anni. Papà ha mandato Delia a ordinare una torta per i quarant’anni della mamma. Lei lo sa che sono allergica alle fragole ma dice al pasticciere di coprirle con la panna per fare una sorpresa alla piccola di casa. Basta un morso: mi ritrovo con la faccia a pois e una lumaca annegata al posto della lingua. Resto in apnea finché l’antistaminico non mi restituisce il respiro. Ci mettono un’eternità a trovarlo e lo so che è stata mia sorella a nasconderlo.
La Valeri aspetta che entri prima di cominciare ma Betta non sente una parola di ciò che dice, non le importa un granché di Giulio Cesare che attraversa il Rubicone né delle sue frasi a effetto. È troppo impegnata a fissare la prigione in cui vive, incorniciata dalla finestra del secondo carcere, quello che la ospita per sei ore al giorno, eppure, quando la prof dice: «Il dado è tratto», alza di scatto la mano.
Gli occhi della Valeri s’illuminano. Finalmente una domanda! – sembrano esclamare, ma quando lei le chiede di andare in bagno, il bell’azzurro del suo sguardo si scurisce di una tonalità.
Le accorda il permesso con un cenno del capo e Betta ha una tale premura di lasciare la stanza che urta con lo zaino l’ultimo banco che la separa dal corridoio.
«Perché te lo porti dietro?»
Pietrificata, Betta si scorda persino il suo nome. Si preme una mano sul ventre per frenare un conato che le risale lungo l’esofago.
«Oh, vai pure», la sollecita la Valeri, mal interpretando il suo rossore, poi le sussurra «Non vergognarti, sono cose naturali.»
Betta scende al piano terra, indugia davanti al bagno delle femmine, controlla la posizione della bidella e assicuratasi che è troppo presa dalle sue parole crociate per badare a lei, sgattaiola in quello dei maschi. Ha bisogno di un’altra iniezione di coraggio prima di procedere, così ricorre al suo telefono ancora una volta.
Promemoria tre: ho 12 anni. Delia mi regala un salvadanaio a forma di porcellino e la cosa mi puzza. Lei non mi ha mai regalato niente. La mamma è in sollucchero. Chi ha una figlia bella e buona come la mia? – sembra dire. Solo quando restiamo sole, mia sorella mi pizzica il braccio talmente forte che il livido resterà per giorni. Guai a te se lo rompi! – mi dice – Con questi ci vado a Ibiza per il diploma.
Apre la finestra, si scherma gli occhi con la mano tesa e li socchiude. In effetti, alla fermata dismessa qualcuno c’è e prima che le manchi il coraggio scavalca il davanzale.
I primi passi quasi in punta di piedi, guardandosi le spalle, l’ultimo metro di corsa.
«Dado?»
Lui neanche alza la testa e Betta si sente una sciocca. Dado è solo una leggenda metropolitana, la Riccardi e la Simi l’hanno presa in giro, è una certezza. Si è già voltata quando lui la trattiene per un polso. Resta immobile come se quella mano fosse una tagliola anche quando il ragazzo lascia la presa e non emette un fiato mentre lui rolla a tempo di record uno spinello e l’accende sfregando un fiammifero sulla panchina. Inspira, trattiene a lungo ed espira. La zaffata di fumo la stordisce e un accesso di tosse le fa lacrimare gli occhi. Il giovane dalla barba incolta, con una fascia da tennista a mo’ di cerchietto sulla chioma indomita e un cellulare dalla base foderata di scotch che spunta da una tasca laterale dei pantaloni da hip-hop, la fissa con gli occhi a mezz’asta, come se si fosse appena svegliato.
Betta non sa dargli un’età: non ha una ruga, però la barba è filata di bianco, è alto e dinoccolato, ma la pancia sporgente gli tira la canotta slabbrata che lascia scoperto un tatuaggio a forma di dado da gioco sullo sterno peloso. Sulla faccia c’è un due.
Betta estrae il salvadanaio dallo zaino e, tenendolo tra i palmi allunga le braccia per mostrarglielo, come fa un padrone orgoglioso con il suo cucciolo. «Quanto per comprarmi la libertà?»
Lui tira una boccata. «Ehi! Io vengo qui per vendere fumo, non ho altro da offrire e poi ho un’etica: i miei clienti fanno tutti la quarta e la quinta.»
Lei resta con le braccia in tensione e scrolla il salvadanaio che emette un tintinnio troppo squillante. Annichiliti, i due tacciono finché il silenzio totale non torna padrone della strada.
«Smamma!» dice Dado, accompagnando l’esortazione con un elegante gesto della mano.
«Sono tanti. Ne sono certa… Non ho tempo per spiegarti tutto, quindi te lo faccio sentire.»
Betta alza di un paio di tacche il volume del cellulare prima di avviare il vocale, ma lui deve comunque sporgersi dalla sua postazione.
Promemoria… Non ricordo il numero. Delia vive nel nuovo negozio di fumetti. Ha preso di mira il ragazzo che lo gestisce. Si finge patita di manga e Funko Pop, lo illude di avere una cotta per lui e quello ci crede.
Dado raddrizza la schiena. «Oh! Sei tu quella che viene a scuola scortata tipo Pinocchio coi carabinieri! Sei famosa, sai? Una bella sfiga… la conoscevo Delia: una pazza!»
«Non è finito! Ascoltalo!» ringhia lei, inducendolo ad alzare le mani.
La verità è che lo fa fesso. Lo rimbecillisce con le sue moine e non appena si distrae lo deruba. Sarebbe andata avanti per un’eternità se si fosse accontentata di regali e piccoli furti ma Delia gli ha sfilato il portafogli e lui è uno di quelli che tiene il pin assieme alla carta… quanto si è vantata di avergli svuotato il conto!
Dado estrae dalla tasca un paio di piccoli dadi bianchi che si rigira tra le dita come se fossero un anti-stress. «Ah! È così che è andata… non che mi sorprenda. Eravamo in pochi a conoscerla davvero.»
Schiaccia lo spinello sotto il piede prima di proseguire. «Sui giornali hanno scritto che quel ragazzo era ossessionato da tua sorella, che non accettava di essere stato respinto, per questo l’ha inseguita con la sua Panda. L’ha solo sfiorata, però lei era senza casco su un motorino scassato e l’impatto…»
Il resto rimane sospeso tra loro come l’ultima nuvola di fumo che si sta ancora diradando.
«Chi poteva credergli? L’hai mai visto?»
Una foto in bianco e nero tra due colonne di parole fitte si fa largo tra i ricordi: nella sua memoria il giovane è identico al fumettaro dei Simpsons, ma non è certa della sua attendibilità.
Betta divora l’aria a grandi boccate, quasi dovesse prepararsi a un’immersione. «All’ospedale il dottore ha detto che il suo cervello è rimasto per più di sei minuti senza ossigeno. Non si sveglierà – l’ha ripetuto più volte – e se lo farà resterà un vegetale per sempre… ma vallo a dire a mia madre e a mia zia! Mi stanno seppellendo in un santuario di giocattoli e giornaletti in attesa che torni, anche se è già morta.»
La sparata lo lascia impassibile. «Tu sei quella che ha provato a staccare la spina, per questo ti controllano a vista», dice con voce incolore.
«Già… e dato che io non posso farlo è per questo che voglio pagarti. Delia era una stronza, ma nessuno merita una non vita, né lei né io.»
Betta gli sbatte il salvadanaio in faccia e lui lo guarda come se non capisse cos’è. «Brutta storia! Brutta storia davvero! E tuo padre che dice?»
«Nulla. Lui se l’è portato via un aneurisma anni fa.»
Le braccia cominciano a farle male, ma lei non desiste. «Prendilo, per favore!»
In lontananza, i rintocchi della chiesa li avvertono che sono già le nove.
«Mio zio chiama a casa sempre alle tre. Per trenta minuti circa mia sorella resta incustodita. Nessuno entra in quella stanza a quell’ora, le infermiere hanno già cambiato la flebo.»
Betta si avvicina ancora, tanto che il naso del porcellino sfiora quello adunco di Dado. «È un atto di pietà.»
Il ragazzo fa un sorriso strano, scoprendo i denti da coniglio, rigati di giallo. «Sa più di vendetta.»
«Lo è. Mi hai sgamata. Hai presente quando muore un dittatore? Il mondo è migliore, no? E lei era la tiranna del mio di mondo: morta lei, sarò libera e… felice.»
Lo dice tutto d’un fiato, attenta a non perdere il contatto visivo con lui. Neppure un tremito nella voce e la nuova ruga che si disegna sulla fronte di Dado la inorgoglisce. Sono una dura, ora lo sa – pensa finché lui non gli preme l’indice sulla guancia umida.
«Allora perché piangi?»
Lei indietreggia di un passo e si stropiccia gli occhi a pugni chiusi. «Sono allergica a…»
«Non c’è un filo d’erba che non sia seccato qua attorno!» esclama lui, allargando le braccia «E tu sei troppo piccola per portare il peso di una scelta così enorme: lascia tutto com’è, spesso i problemi si risolvono da soli.»
«Il suo non si risolverà.»
Lo sussurra appena, tanto che Dado è costretto a sporgersi di nuovo verso di lei. «Come?»
Betta accarezza la testa del porcellino. «Papà è stato qualche giorno in coma prima di andarsene e quella è stata la nostra settimana di tregua. Andavamo da lui ogni giorno, gli stavamo accanto in silenzio per ore e qualche volta mi addormentavo. Nel dormiveglia la sentivo pregare.»
«Niente di strano.»
«Pregava che non si svegliasse perché lo sapeva che non sarebbe più stato lo stesso, dunque cosa pensi che vorrebbe per…» La domanda le si strozza in gola e si attorciglia in un accesso di tosse.
Il ragazzo non replica e lei spinge il salvadanaio contro il suo petto. «Per favore!»
La punta fredda del martelletto gli graffia la pelle, spillando una goccia di sangue dal suo dado tatuato. Lui la respinge con troppa forza, Betta vacilla e il porcellino le scivola dalle mani.
A entrambi i rumori sembrano amplificati. La ceramica che s’infrange; passi pesanti nel vicolo adiacente, inesorabili… E se fosse un poliziotto? Non è da escludersi, eppure, gli occhi di entrambi non riescono a staccarsi dal fascio di banconote coronato di schegge.
Una donnina gobba spunta da dietro l’angolo, fugge il loro sguardo e si stringe nel suo enorme scialle lilla prima di passare oltre.
Dado torna a concentrarsi sul denaro ed emette un fischio eloquente, come se si trovasse al cospetto di una bella donna. «Chi se ne aspettava così tanti… Dimmi un numero! Svelta.»
«Quattro!» spara lei, disorientata.
«Ok, l’accordo è questo: la parola alla sorte… Accetto il lavoro solo se esce un numero più basso del quattro, altrimenti addio e a mai più rivederci ed è sottinteso che i soldi me li prendo lo stesso, visto che mi hai bruciato la mattinata.»
«Ma…»
«Tranquilla! Io non baro mai.» dichiara, scagliando i dadi contro il vetro già scheggiato della pensilina.
Betta li guarda sbattere contro il sorriso a trentadue denti di una falsa vecchia che pubblicizza una colla da dentiera. Qualcuno ne ha intaccato la perfezione con una carie disegnata a pennarello. I dadi rimbalzano e rotolano sotto la seduta. Rapido, il ragazzo si accuccia e Betta sta per chiedergli il risultato quando la campanella che annuncia la fine dell’ora la fa scattare. Si volta verso la scuola e quando si gira di nuovo Dado non c’è più: è sparito col malloppo. Per un attimo lo sgomento la paralizza. I dadi sono ancora lì? Avanza, le schegge del porcellino crepitano sotto i suoi piedi, si china e un tocco inaspettato sulla schiena le strappa un grido.
La Valeri la fissa con uno sguardo che mescola disapprovazione e sollievo.
«Dio mio, Betta, cosa ci fai qui fuori? Ho mandato una tua compagna a cercarti in tutti i bagni della scuola: l’unico motivo per cui non ho allertato il Preside…»
Allunga lo sguardo verso la casa della ragazza: non c’è bisogno di aggiungere altro.
«Mi scusi… mi mancava l’aria: avevo bisogno di uscire.» mormora.
Lei le sfiora i capelli con una carezza. «Lo capisco, ma non farlo mai più.»

Betta ripensa al dolce rimprovero della Valeri mentre si dondola nella sua amaca.
Il solito chiacchiericcio in sottofondo è la colonna sonora del suo pomeriggio. Sua madre dice sempre le stesse cose al telefono – o forse è la zia Nicla? – il suo è un copione che non cambia mai, potrebbe ripeterne ogni parola ma un inatteso «Che succede?», seguito da un silenzio tombale, le fa drizzare le orecchie.
Betta raggiunge la porta e si affaccia con cautela. Impietrite le due donne fissano la cornetta del vecchio telefono a rotella che penzola nel vuoto. Ne vede solo le schiene, ma ne immagina i volti cristallizzati in urlo muto. Il cavo si avvolge su se stesso e dall’immobilità le due passano a una frenetica concitazione. Calpestano le scatole, decapitandone il contenuto; urtano le torri di manga, provocandone il crollo. Si precipitano all’esterno con tale foga che la porta resta aperta, mentre Betta attraversa il salone al rallentatore. Calpestare i rimasugli degli odiati pupazzetti le procura un sottile piacere, così come ritrovarsi da sola all’aria aperta per la prima volta in tre anni.
Con un’andatura da sonnambula raggiunge la fermata dismessa ed esita a lungo prima di accucciarsi di fronte alla seduta: i dadi sono ancora lì sotto.
Due sei.
«Dopotutto non è vero che non bari mai», bisbiglia prima di prorompere in un pianto incontenibile.

Copertina di Francesca Santi

***

Francesca Santi nasce a Livorno nel 1978, città dove tuttora vive e lavora.
Dopo essersi diplomata in sceneggiatura alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze, si laurea in Letteratura Francese all’Università di Pisa.
Dal 2008 al 2014 si dedica quasi esclusivamente alla sceneggiatura: vince Lanciano nel Fumetto con la storia breve “Senza parole”; pubblica in Francia la miniserie “Loumyx”; in Belgio, il primo volume della saga “Alo du Vent” e – in Italia – la graphic novel “Nelle lande dei giganti”, vincitrice del Lucca Project Contest nel 2010.
In seguito, pubblica i suoi lavori su varie antologie e riviste letterarie.
Nel 2020, vince il Premio Scerbanenco con il racconto “Fugu” e nel 2022 pubblica la sua prima raccolta di racconti con Watson Edizioni.

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