disegno racconto drammatico mongolia

Il bestiario di Ordos

In Italia, le festività le ricordo con sprazzi di suoni e colori che vorticavano sopra la mia testa da “poppante” come un sogno psichedelico. Qui, a Ordos, sono il periodo più deprimente dell’anno.
Non sto esagerando.
Le festività a Ordos ti costringono a evadere da te stesso, a immedesimarti in un qualsiasi sconosciuto, in una qualunque altra città industrializzata del globo; perché nessuno, per quanto disperato o autolesionista, nell’arco della propria vita, vorrebbe trovarsi qui, a carrucole ferme.
L’orgoglio è stata la rovina di questa immensa nazione; si preferisce osannare una scelta sbagliata piuttosto che ammettere un errore.
Chuluun, uno tra le centinaia di muratori addetti alla costruzione del mio quartiere, nonché unica persona fuori dalla mia cerchia familiare con cui ho legato durante l’infanzia, una volta mi ha confidato che nove cittadini di Ordos su dieci, dietro il riparo di un focolare domestico, affermerebbero di detestare questa città, e il decimo starebbe mentendo.
La vastità della solitudine è misurata dal tempo impiegato a percorrerla. Da bambino facevo affidamento solo sulle gambe e i grattacieli vuoti, che accerchiavano la nostra dependance, potevo contarli sulle punte delle dita. Ero alla costante ricerca di coetanei con cui giocare. Simile richiama simile; ovviamente di ragazzini ce n’erano. Ma a cosa serviva memorizzare i loro nomi se fuori dall’aula non voleva frequentarmi nessuno? Mi accorsi presto che la “colpa” risiedeva nella mia cattiva pronuncia mongola e nei miei occhi occidentali. Sfogai il bisogno di comunicare con pastelli e pennelli, e l’abilità artistica è cresciuta assieme alla mia ossatura.
Con i primi gessetti colorati mi presi a modello e ricalcai il contorno del mio corpo sul muro dietro la scuola. Usai il gessetto bianco per il capostipite dei miei amichetti immaginari e lo chiamai, senza troppa inventiva, Oiluig. Aveva i contorni frastagliati, né naso né occhi, dita irregolari e tozze, per labbra una linea: era tutto qui, il mio Oiluig. Fluttuava sul muro della scuola, un fantasma sotto un lenzuolo di talco. Era un modo speciale di vedermi allo specchio. I bidelli lo scoprirono dopo una settimana e lo cancellarono con acqua e sapone. Credettero di averlo ucciso; ci si inganna su tante cose…
Un detto cinese recita: “Un figlio saggio è l’orgoglio del padre, un figlio stolto dolore della madre.” Papà poteva scegliere di seguire la fama di Carrara e dei suoi marmi invece scommise sul carbone della Mongolia e sullo stravolgimento delle nostre vite. Dopo i primi mesi da famiglia felice, sposò la miniera e il suo ventre nero. Mamma credette nel progetto di cementificazione del deserto e ci riversò passione e planimetrie. Se non altro erano in buona fede, ma io soffrii lo stesso.
Arrivarono la bicicletta e le ginocchia sbucciate, e con esse la consapevolezza che non sarebbero bastate tutte le dita di mani e piedi per elencare i palazzi sfitti. Pedalavo su strade a otto corsie, rincorso solo dalla mia ombra; urtavo con il manubrio vasi di begonie, spargendo il terriccio al centro delle piazze vuote. Mangiavo beef jerky e buttavo le confezioni a terra. Frantumai vetrate e squarciai gomme di furgoni delle ditte appaltatrici in cerca di urla, rimproveri, tutto purché i lamenti provenissero da un uomo e non dallo stormire del vento o dalla pioggia scrosciante. Mi arresi quando capii che l’unico sguardo di rimprovero sarebbe arrivato dalla statua ieratica di Gengis Khan, immobile sul suo cavallo di bronzo.
Scoprii internet. Il tempo di risposta in una chat era infinitamente breve se paragonato al saluto di un vicino: quello, anzitutto, dovevi trovarlo.
Un altro detto cinese recita: “Avere buoni vicini di casa è come avere una casa più grande.” I nostri vicini, operai, ultimato il quartiere, si spostarono in massa per erigere un altro formicaio. I loro canti mattutini, arricchiti da aneddoti e bestemmie, vennero sostituiti dal ronzio del condizionatore.
Dal WEB attinsi a piene mani e, vista l’esperienza nefasta con la specie umana, scelsi il mondo animale. Il Panthera leo Linnaeus, o Re della Savana, è in grado di pattugliare un’area di 260 km². Secondo le mie misurazioni d’allora, includendo il volume occupato dai grattacieli, presenti e futuri, edificati con la stessa velocità di una partita a Shangai, potevo reputare la mia zona di caccia altrettanto vasta. Le mie prede erano le pareti disabitate. Immacolate e fredde, appena uscite di fabbrica, dovevano essere straziate dai miei artigli spray perché potessimo condividere il dolore. Per marcare il territorio usavo vernici allo zolfo simili all’urina.
A sedici anni per scappare da un vigilante mi ruppi un braccio. Risultato: 2 mesi di gesso e ricerca di una nuova posizione per dormire. Purtroppo nella mia bravata avevo coinvolto proprio la mano con cui disegnavo e mi masturbavo.
Diventai ambidestro.
I ricordi dell’ospedale si fermano alle narici. Gli odori dei disinfettanti misti a medicinali erano una costante, indipendentemente se mi trovassi al reparto di fisioterapia o in bagno. Non ti mollavano, cancellavano il puzzo di sudore. Dimesso dal policlinico tornai all’alveo di grattacieli. Le esalazioni dei cantieri a cielo aperto e plastiche vergini mi colpirono alla bocca dello stomaco e, per la prima volta da quando ci abitavo, realizzai che non avrei mai conosciuto gli odori originali di deserto e tundra che avevano albergato per millenni in questa fetta di mondo. Ero alla stregua delle papere che seguivano Lorenz. Italiano di nascita, orientale d’adozione in un territorio chiamato Mongolia solo sulla carta. Avrei starnazzato dietro una palla demolitrice chiamandola mamma?
Ordos. Progettata per ospitare milioni di persone, si trovò costretta a elemosinare alcune decine di abitanti per chilometro quadrato.
I mongoli, stirpe dedita al nomadismo, avevano sempre vagato nella steppa seguendo precisi itinerari dettati dallo sciogliersi dei ghiacciai e dalle mandrie al pascolo. Ora, grazie al prezzo irrisorio delle case, sono diventati palazzinari con 4-5 abitazioni a testa.
Ottenni la patente e il primo viaggio in macchina lo dedicai a Chuluun. Guidare a Ordos è facile. Persino un ubriaco, se dovesse zigzagare nell’immenso centro amministrativo di Kangabashi, avrebbe più probabilità di finire la benzina che di causare un incidente.
Trovare Chuluun fu semplice: «Segui le gru fino al punto in cui sono assembrate.» Il timbro della sua voce, netto e timoroso di scialacquare parole, era inconfondibile anche al telefono.
Parlavamo spesso dell’Italia, di storia e tradizioni mongole, quasi mai delle nostre vere passioni. Se dici gru a un monaco questi lo assocerà a uno degli stili del Kung Fu. Se lo chiedi a me il pensiero plana sulle Grus japonensis, dall’iridescente piumaggio bianco. Le “gru della Manciuria” erano le padrone degli acquitrini, la chiazza di pelle rossa sulla testa assumeva una colorazione brillante nei periodi dell’accoppiamento; le “gru a torre” erano le vandale di Ordos, il rosso sulla loro struttura era ruggine.
Nel settore residenziale di villette a schiera edificate con lo stampino, non potei fare a meno di continuare quel paragone improbo nella mia testa: animali/macchine, volo/suolo, apertura alare/movimenti fissi, ciclo vitale/stasi. Il motore si stava già raffreddando quando Chuluun bussò sul finestrino, destandomi: «Qui le abitazioni le costruiamo piccole. Niente grattacieli a schiacciare i ricchi come formiche.» Il braccio a proscenio a supporto di quanto detto.
Sorrisi ai suoi slogan politici.
«Giulio, ti arrivo al mento. Ho sbagliato a prenderti in giro da piccolo.» Era contento di vedermi e non lo nascondeva. «Bravo! Ti sei fatto la macchina per fuggire» con quegli occhi da geco mi scavava dentro «Ti sei fatto anche una ragazza? Fatti una ragazza.» Mi infilò un bigliettino nella tasca, sancendo un tacito accordo fra uomini. Lo aiutai a installare sul cellulare applicazioni che non avrebbe mai utilizzato e aspettammo il tramonto bevendo un distillato alcolico di pura ruralità. Tossii parecchie volte e lo sputacchiai senza farmi scorgere.
«Mi hanno costretto a scegliere un cognome.» levigava con i polpastrelli un pezzo d’ardesia «Non sarò più solo Chuluun e questo deserto non sarà mai più solo sabbia.» Provai a tirargli su il morale imbrattando un capitello di una villetta con vernice spray. Si arrabbiò. Teneva al suo lavoro. Quando ci salutammo, era inginocchiato a tinteggiare la colonna: un suddito prono al cospetto del suo Imperatore.
Ritornai a notte fonda e disegnai tre Oiluig tra le ville a schiera. Li feci con le mie fattezze a 8 anni. Spesso mi sono chiesto perché non avessi elevato Oiluig alla complessità delle altre mie opere. Forse lo preferivo innocente e ignaro.
Usai il consiglio di Chuluun e incontrai la prostituta. Viveva in un villaggio sperduto nei dintorni di Inya, dove la conversione cinese era solo una minaccia per spaventare i capitribù. C’era olezzo di feci di galline e incenso. Un’anziana, carica di ceste e scoliosi, si aggirava per stradine tratteggiate in pietrisco, con la nuca, cotta dal sole, simile al cuoio dei miei stivali. Ghignò mostrandomi gengive da neonato. Sapeva bene cosa un giovane straniero desiderava trovare lì. La ragazza mi accolse sull’uscio scostando una pelliccia di Yak. Giovane, minuta, ebano di sguardo e capelli, una bocca a tulipano che si schiudeva in un risolino incerto, e pelle dai petali di loto nonostante gli inverni rigidi degli Altai. Fasciata nel suo tradizionale del da festa, mi cinse in un abbraccio rituale. Le maniche larghe del vestito erano consunte sui polsi, il colore turchese un vago ricordo. Sperai se le rimboccasse fino ai gomiti prima di toccarmi. I gesti del cerimoniale erano quanto di più cortese avessi ricevuto da quando ero in Cina. Con la sua danza, cercava di infondere rispetto a tutto quello che toccava e, ai miei occhi, trasformò la stamberga in un tempio. La mia erezione era sostenuta, oltre che dalle sue labbra, anche dall’ambiente povero e rumoroso. Rischiammo di essere scoperti dietro sottili pareti di fango. Stavo affrontando una battaglia contro gli ormoni. Da un lato l’apprensione di veder sbucare la vecchia, dal pertugio delle finestra e, dall’altro, la scarica di percuotere il mio pene come il becco di un picchio sul tronco, sbattendo la ragazza a terra.
Prevalse l’istinto.
Le chiesi il suo vero nome tra gli ansimi di due amanti, ingannati da un atto effimero. Il sussurro mi giunse accompagnato dal refolo caldo del suo respiro: «Tseren Tseren.» Smisi di preoccuparmi e l’orgasmo proruppe, spinto fuori da un urlo liberatorio. Tseren era nuda sotto di me. Il sudore le decorava il corpo come rugiada, lo sperma le chiazzava la pancia e le riempiva l’ombelico, trasformandolo in un’oasi lattiginosa. Ci intinsi l’indice. Io penna, lei calamaio.
Sarò sempre grato a Tseren; in quel vespro comune a molti altri, mentre ergevo il corpo nudo nella stamberga e, oltre la finestra, il villaggio e l’orizzonte, l’immagine da cartolina delle vette degli Altai bucava il cielo sanguinante; capii che gli unici schizzi capaci di appagarmi sarebbero scaturiti dalla mie creazioni.
Giotto aveva avuto Cimabue, io dovetti accontentarmi di YouTube. Ladro di ritratti, copiavo stili degli artisti di strada più famosi: Bansky; Shepard Fairey; Trashbird; WRDSMTH. Fu un completo insuccesso. Potevo atteggiare le mani a carta carbone ma esprimevo pensieri in cui non credevo. Sullo sfondo non c’erano Londra o Gaza, bensì una città fantasma.
Mia madre mi diede un passepartout per il museo della fantascienza. Era certa impazzissi per altri mondi, quando a me sarebbe bastato conoscere meglio il mio. Il museo sorge sopra una duna ingabbiata dall’uomo. Ha ragione Chuluun. Questo non è più il deserto di sabbia macchiato dal sangue dei nemici del Khan. È un oceano di piastrelle.
Giotto aveva voluto palesare il proprio genio, a me bastava rendere vive le pareti degli edifici. Smisi di paragonarmi a un artista e tornai a considerarmi una voce in cerca di amici. Li scelsi a quattro zampe, con pinne caudali, squame o piumaggio, provvisti di dentature appariscenti e dita palmate.
Nacque un nuovo me.

Il primo anno sfruttai il poco che avevo a disposizione; gettai sul tavolo le riviste del National Geographic, la piantina di Ordos, barattoli di vernice, le chiavi della macchina e del magazzino di insegne stradali, dove prestavo lavoro come guardiano notturno. Iniziai una doppia vita da marito e amante: di giorno fedele alle istituzioni, di notte pittore fedifrago, sguinzagliato per la città. Timbravo il badge, attendevo le ore tarde, sparivo dall’uscita d’emergenza senza telecamere e apponevo le mie firme: fecondavo impalcature con arcobaleno liquido; ricamavo musi ed espressioni sul calcestruzzo; alleggerivo mattoni donandogli ali. Dormivo 4 ore al giorno – se ci riuscivo – stanco della scarsa considerazione nel quartiere, diffusi sui social la sommossa, attraverso i miei murales.
Persi dieci chili; persi la voglia di fingere interesse per le sporadiche occasioni d’incontro offerte dai miei genitori; persi la concezione del tempo e di cosa mi circondava; persi il lavoro da custode perché alcuni coglioni fecero lo scarabocchio di un cazzo – disegnato male e senza le dovute proporzioni – sulla saracinesca del magazzino e io non diedi l’allarme.
Ero felice.
Quando le autorità si accorsero dei mie quadri su strada, mio padre ancora doveva rendersi conto che avevo cambiato l’intero guardaroba, riducendolo di due taglie.

Il secondo anno, il governo mise sulle mie tracce un corpo addestrato della Rénmín jǐngchá.
Homo homini lupus.
Confucio disse: “Se ascolto dimentico, se leggo ricordo, se faccio capisco.” Ciò che i dirigenti di Partito non intuirono è che non puoi mandare lupi nel deserto e pensare che sopravvivano agli stenti; ogni animale ha il suo habitat naturale in cui prolificare e il cane adatto a contrastare il sole cocente e sopperire alla mancanza d’acqua è il Dingo.
E in Dingo evolsi.
Fiutarono piste che portavano al nulla, per ogni animale che sopprimevano a colpi di calce e piccozze altre tre venivano alla luce, partorite da mani scattanti su cui avevo perso il controllo cosciente. La barba rossiccia il mio pelo, le provocazioni il mio ululato alla luna. Oltre i confini di Ordos presero a chiamarmi Noè, infastidendomi.
Era la frenesia ad animarmi. L’urgenza di possedere quartieri alla deriva aveva la meglio sull’ispirazione. Poi arrivò quel giorno caldo tra i molti afosi che si confondono nella mia memoria. Ricordo un sonno inquieto a stretto contatto con un sottopassaggio di un cavalcavia interrotto. Con occhi cisposi protesi le mani e ne saggiai le fattezze. Leccai la consistenza della tela porosa per assaporarne l’essenza e partorii il mio vanto. Unico e ultimo della sua razza, si discostava da quanto avevo creato in precedenza e che mai avrei creato in futuro. Nessuna fiera, solo una donna, Tseren, che culla Oiluig in una stretta amorevole. Alta, altissima, più alta dei grattacieli e dei lampi impressi alle sue spalle, svettava su Ordos con la promessa di distruggerla e, al contempo, svelava un ampio sorriso al bozzetto stretto ai seni. Oiluig sempre lo stesso, sempre a gessetti. C’era la storia dei miei tratti distintivi in quell’abbraccio, passando da goffi e incerti a risoluti e frenetici; era il mio lascito, la mia discendenza. Tseren era anche il nome con cui lo firmai.
Da dissoluto attirai disadattati, annoiati, preclusi e reclusi di altre metropoli. Giunsero followers di internettiani russi, americani ed europei che volevano lasciare un’impronta al di fuori dei loro PC. Gli Skateboarder della Red Bull colsero l’occasione di farsi pubblicità inventandosi la moda del momento: fare drifting sui corrimano e parapetti nella piazza delle statue dei cavalli rampanti. Erano un’attrattiva turistica, erano i miei cani della prateria, sentinelle pronte a guaire alla comparsa di una volante o di un borghese sospetto.
I miei denunciarono la mia scomparsa – al solito, si mossero tardi; sono ormai passati dieci anni da quando mi sono rassegnato alla loro assenza. Sotterrai in un angolo buio del cavalcavia i miei schizzi e bozzetti, sotto lo sguardo custode di Tseren. Malgrado tutto divenni un leader. Elessi edifici abbandonati a dormitori. Mai una notte sotto lo stesso tetto. Convertimmo i giganti vuoti dell’edilizia in rifugi e mense. Sradicammo sanitari, lavandini, scarnificavamo rame e suppellettili per ricavare denaro utile al nostro sostentamento. Fuori dall’atto creativo evitavo gli altri membri del branco, ringhi e grugniti erano le risposte che davo ai facili entusiasmi e moti di fratellanza. Presero a imitarmi facendosi crescere barbe e capelli. Condividemmo orge di colori e orge di carne. L’aria era impregnata del sudore dei corpi. Femmine di varie stirpi identificavano in me il maschio alpha e si lasciavano montare. Katinka, lussuriosa ungherese dalla passera sempre bagnata e formidabile nel sedurmi a ogni luna, si proclamò regina di un regno che non le spettava.
Di nascosto, ogni volta che intravedevo una falla nelle maglie della giustizia o nell’ardore dei miei seguaci, correvo sicuro nel buio di viottoli privati dalle luci dei lampioni facendo visita al dipinto di Tseren. Rimarcavo i contorni sbiaditi di Oiluig provati dai continui acquazzoni monsonici.

Il terzo anno la polizia insabbiò e derubricò in quisquilie i soprusi perpetrati a Ordos. Spenti i riflettori dei media, rispolverò le maniere forti: pestaggi, ricatti, incarcerazioni forzate. Venne fuori un nome, Tseren, ignoto all’anagrafe, un nome di donna che mal combaciava col volto irsuto di un uomo, a capo di un gruppo di anarchici.
Dai Balcani arrivò Artan, uno scimmione di quasi due metri, dal volto tumefatto e il corpo temprato dalle zuffe in carceri sperdute. Per tastare la mia autorità infranse l’unica regola vigente: violò case abitate. Armato di scalpello incideva i muri con volti bendati della dea Fortuna e frasi minacciose.
Scoppiò una lotta intestina. «Non siamo ratti che devono nascondersi nelle fogne, prendiamoci questa fottuta città!» Mi sfidò ostentando supremazia, voleva uno scontro, voleva esiliarmi. Decine di occhi attendevano che mostrassi le zanne, che sbranassi l’usurpatore.
Li spiazzai, divenendo Koala. L’apparato digerente del “Phascolarctos cinereus” è unico al mondo, gli permette di alimentarsi a Eucalipto. Il suo fegato è una centrifuga disintossicante. Liberai la stanchezza di anni, mi feci mansueto, inghiottii fiele e veleno traendone nutrimento. Abbandonai la corona, la veste di condottiero che mi avevano infilato a forza. Piantai Katinka e la mia firma. Costruii imbottiture per ginocchia e gomiti, guanti saldi con cui arrampicarmi nei ruderi, trovarmi un cantuccio e sonnecchiare. Lontano dal suolo assistevo passivo al dilagare della violenza perpetrata da Artan e alle repressioni della polizia. Pencolavo da incosciente nelle mie scalate solitarie, aggrappato e in tensione sfidavo la gravità convinto che il vuoto fosse un paracadute. Con la pastura di sonno ed esercizi riacquistai peso. I muscoli si rinvigorirono, la circonferenza di bicipiti e dorsali era una certezza contro l’ostacolo di turno da superare e conquistare.

Il quarto anno subii altre tre metamorfosi. Il quarto anno cambiò tutto.
«Tseren! Sputo di cagna, così adesso te la fai con le donne sui muri?» Non sentivo Artan dall’esilio, la voce di scherno profanava il mio Shangri-la, spaventava Oiluig. «Holy shit! Dov’è finita la barba da Noè? sei in forma e hai il solito sguardo folle» ridacchiava con le mani sulla cintura di un completo su misura.
Ero impietrito. Come aveva fatto a scovarmi?
«A che stai lavorando?» Fece capolino oltre le mie spalle «Credevo fossi fissato con gli animali. Chi è quella?»
«Non guardarli!» il taglio della voce un sibilo ad arrestare la sua avanzata. «Vattene.»
Artan eccelleva nelle risse ma aveva scordato cosa significasse stare sul chi vive, saggiare il pericolo; faticò a riconoscermi e io potei dire altrettanto: ventre gonfiato dal troppo cibo, unghie corte e curate, pettinatura zigrinata sostenuta da gel. Osò troppo quando minacciò di portarmeli via: «Quindi questa è la famosa Tseren, Katinka si era sempre chiesta da dove derivasse il tuo nome.» Incrociò le braccia al petto e inclinò la testa da critico d’arte navigato: «Le piacerà tantissimo.»
La “Vulpes vulpes” ha nel salto la sua arma di caccia. Ci saranno stati due metri a separarmi da Artan, li cancellai con un balzo e gli piombai addosso. Ripescai dal mio bestiario personale il “Boa constrictor”: specializzato nel soffocare grandi prede. Mi avvinghiai a lui con gambe e braccia, tramutandole in spire. Artan, dopo lo smarrimento, si divincolò e prese a colpirmi con la nuca, ma la stretta era salda e le testate al contrario non sortivano effetto. Mentre urlava frasi sconnesse sentivo le giunture stirarsi, guadagnavo centimetri. L’avambraccio strisciò lungo il plesso solare e gli avvolse la trachea in una morsa d’acciaio. Colto da panico, Artan si slanciò contro i muriccioli, facendomeli impattare col corpo; le costole vibravano sotto le percosse, la spina dorsale grattugiava sulla pietra ma non desistevo. Si piegava, mordeva, scalciava e io stringevo e resistevo. Più si agitava e si indeboliva e più mi fondevo con lui. Immettevo aria nella bocca spalancata sentendo il fischio ovattato del suo respiro. Prese a squittire e giocò l’ultima carta della disperazione: si issò su una montagnola di calcinacci e ci si schiantò di schiena come un esperto wrestler. Venni pugnalato e sfregiato dagli scarti di Ordos; schivai per miracolo un pezzo di cornicione che mi avrebbe sgozzato. Resistetti al dolore fisico, ben sapendo che sarei impazzito alla perdita di Tseren.
Le forze scemavano. Artan emise un rantolo. Boccheggiò bolle di saliva e giacque immobile. Il profumo del gel si mischiava alla polvere delle macerie. Sciolsi la presa dopo un tempo che mi parve infinito. Formicolii mi anestetizzavano le braccia e parte dei polpacci, la pelle scorticata sulla schiena formava macchie degne di un ghepardo; la gola un deserto; la vista persa in un miraggio sfocato. Mi abbeverai in una pozzanghera e un barlume di lucidità rimise in moto l’istinto di sopravvivenza.
Dovevo far sparire Artan, dovevo muovermi. Mi ricordai di uno sbocco fognario non ancora collegato alla rete principale. Tentai di caricarlo sulle spalle, ma 100 chili a peso morto lo privarono dell’ultima dignità che avrei voluto concedergli. Lo trascinai dai piedi. A ogni passo, fitte di spilloni invisibili mi straziavano le ferite costringendomi a mordere la guancia per restare vigile. Un piede davanti all’altro, tacco punta, punta tacco. Temetti potesse scorgermi qualcuno dimenticando dove cazzo fossi vissuto in questi 25 anni, quasi risi.
Gettai il cadavere nella sua tomba circolare e arrancai a ritroso verso la mia Tseren. Le Sterne artiche, durante le migrazioni dalla Gran Bretagna al Polo Sud, percorrono 50000 chilometri. A me bastava compierne uno. Tacco punta, punta strascico, strascico e basta.
Svenni.
In un sano ecosistema la selezione naturale falcidia le forme viventi inadatte. Se fossi stato realmente uno dei tanti animali che professavo di interpretare, il mio cuore avrebbe dovuto collassare. Ma sono un uomo.

L’orgoglio, oltre a essere stato la rovina della Cina concorse a decretare la mia fine. Fu Katinka a farmi arrestare. Venni ritrovato ai piedi della mia musa. Scovarono i bozzetti per ricollegarmi ai murales, ma non il sangue di Artan, disciolto dalla tempesta che aveva preso a inzaccherare il mio corpo inerte, sull’asfalto.
Condanna a 5 anni per teppismo e distruzione di bene pubblico. Nelle settimane del processo fecero scalpore la mia storia: da rampollo di un imprenditore italiano nel campo dell’estrazione del carbone, a teppista di strada. Un avvocato a cinque cifre e gli interessi dell’amministrazione di Ordos, nel mettere mano sul giacimento ai confini con il Ningxia, permisero di trovare un accordo: commutazione da prigione a lavori “socialmente utili” in cambio della rinuncia di mio padre all’appalto sulla miniera.

“Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.” Massima del filosofo Lao Tze diffusa, per gentile concessione, da un compagno minatore ciccione con il caschetto, nella pausa sbobba. Mi sarebbe piaciuto poggiare il piccone e dissertare con Lao a riguardo.
Ho già passato un anno sottoterra. Ne restano quattro. Di nuovo 4 anni. Mai più da padrone incontrastato dei fregi, solo una semplice talpa. Ci sono giorni in cui la coltre di carbone si deposita sulle mie aspirazioni, lasciandomi credere che resterò per sempre rinchiuso in gabbia; altre volte, nel buio della miniera, dove tutto può essere tutto finché non lo si tocca, immagino quello stesso pulviscolo farsi grafite e allora incido un messaggio sugli sportelli dei montacarichi. Ammirare Oiluig che sale verso la superficie nutre la speranza della crisalide nel mio petto di spiccare nuovamente il volo.

Copertina di Matteo “ShannoSauro” Vettori

4 pensieri su “Il bestiario di Ordos

  1. Non conoscevo la città di Ordos. Assurda per viverci, ma interessante come spunto di riflessione.

    Affascinanti le metamorfosi artistiche del protagonista: dal graffito di un sé bambino, disegnato da bambino, a cui il protagonista dà il nome di Oiluing, allo stesso Oiluing disegnato da adulto alla fine del racconto. Questo passando attraverso graffiti di animali e poi della materna Tseren (sostituta di genitori disattenti) che culla Oiluig.

    “Chuluun, uno tra le centinaia di muratori addetti alla costruzione del mio quartiere, nonché unica persona fuori dalla mia cerchia familiare con cui ho legato durante l’infanzia, una volta mi ha confidato che nove cittadini di Ordos su dieci, dietro il riparo di un focolare domestico, affermerebbero di detestare questa città, e il decimo starebbe mentendo.”
    Non sembra una frase di Borges?

    1. Ciao Maurizio,
      Spesso per trarre spunto da un’idea mi affido ad associazioni libere che partono dal WEB. Ci sarebbe tanto da sviluppare su Ordos e mi interesserebbe conoscere le tue riflessioni. Sono maggiormente contento nell’essere stato letto da te.
      Su Borges, oltre al complimento che mi spiazza, voglio anche essere sincero. Di lui ho letto solo “Finzioni”, se hai altro da consigliarmi sono tutt’orecchi.

      Marco

  2. Ciao Marco,
    partendo dallo spunto di Ordos, la cattedrale nel deserto, e del graffitismo hai creato uno sviluppo realistico. Benissimo!
    A me ha colpito l’aspetto fantastico della città, forse anche per questo mi ha fatto pensare a Borges. E pure alle piazze vuote di De Chirico.
    Anch’io ho letto “Finzioni” (denso e complesso) e “L’Aleph” (mi è sembrato leggermente meno difficile). La tua richiesta mi ha fatto venir voglia di rileggerli, come di vedere le altre raccolte di racconti di Borges. Avevo cominciato a leggere “Sei problemi per don Isidro Parodi”, scritto con Bioy Casares, ma non mi ha preso. Forse devo rileggerlo.
    Maurizio

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