Guarigione

Guarigione

In un colpo solo chiudo una telefonata e la mia vita. Sul cellulare torna la schermata home e il suo senso di sicurezza. Anche lui vuole rassicurarmi che è tutto normale, tutto come prima. Rimango in silenzio ad ascoltare i suoni quotidiani. Ora è tutto diverso, eppure tutto è uguale.
«NU-ME-RO-U-NO!» Gigi è di nuovo in strada a urlare. Vuol dire che sua madre si è addormentata. La settimana scorsa qualcuno ha chiamato la Polizia perché aveva iniziato a lanciare sassi in mezzo al cortile. Dev’essere la primavera che lo agita. Chissà se i bambini del palazzo di fronte inizieranno a tirargli i palloni come ieri: sarebbe la volta buona che reagisce male e li prende a bastonate.
Mi affaccio alla finestra e lo vedo: è lì, in cortile, con la sua tuta verde. Cammina intorno al pioppo, il pioppo che lascia i suoi batuffoli bianchi per l’aria. Ora Gigi si ferma con gli occhi fissi nel vuoto:
«NU-ME-RO-U-NO! NU-ME-RO-U-NO!».
Mi volto per osservare le pareti della mia casa, i quadri, le mensole, i mobili, il tavolo, il divano, i tappeti. È tutto al suo posto, naturalmente. Sono in casa, esattamente come prima della telefonata della dottoressa Cerri.
Me ne stavo a letto, con il computer da una parte. Dovevo lavorare alla campagna pubblicitaria per le gelaterie, perché l’estate si avvicina e ancora vanno limati un sacco di dettagli. Ma io ero a letto con il tè tiepido fra le mani, mentre sul cellulare guardavo quegli stupidi video di lavori domestici. Potrei guardarli per giorni senza accorgermi del tempo che passa. Un po’ sarà per come sono fatti, come i bignè a un buffet, un po’ sono io, che ho un problema con lo scorrere del tempo. Anche per questo Vincenzo mi aveva proposto di mettermi in smart working.
«Sennò tutte le mattine ti devo sgridare che arrivi tardi».
«Scusa Vincè… ieri la sveglia, oggi quei cazzo di semafori».
Mi aveva messo una mano sulla spalla, mentre si concedeva il sorriso più dolce e accondiscendente che gli abbia mai visto. Un sorriso che mi ricordava di stare tranquillo proprio perché ero malato.
Il tè era bollente quando l’avevo versato dal bollitore alla tazza, ma poi, appena bevuto, di colpo era tiepidino. Colpa delle mie mani? Della mia lingua? Oppure, come diceva sempre Vincenzo, ero di nuovo in ritardo, e quindi come minimo avevo impiegato cinque o sei minuti per alzare il braccio e portare la tazza dal ripiano alla mia bocca? Comunque, il telefono interruppe il video e mi mostrò la schermata della chiamata in ingresso della dottoressa.
«Pronto Filippo?»
«Sì».
«Ho i risultati».
«Sì».
«Li ho guardati bene, mi sono anche confrontata con le colleghe e… Tutto a posto», disse infine in un sospiro, potevo vederla alitare sul suo smartphone.
«Sì».
«Prendiamo un appuntamento per la prossima settimana, così ti mostro bene la cura… ma ci siamo, sei in via di completa guarigione».
«NU-ME-RO-U-NO!» urlò Gigi in strada, esultando al posto mio.
«Dovrai continuare a prendere il farmaco e gli antidolorifici ancora per un po’. Ma ecco, ancora due o tre mesi e poi basta».
«Sì. Grazie dottoressa, a presto allora».
«Filippo?»
«Sì?»
«Ma… Hai capito che sei guarito?».

All’inizio di tutto ho sentito freddo. Il primo vero sintomo della malattia è stata una sottile onda gelida dentro di me. Pensavo fosse una reazione al fatto che il pozzetto del water non era pieno d’acqua, ma di sangue; invece era proprio un sintomo. Ho sentito freddo mentre mi visitavano, durante le lastre, le TAC e tutti gli altri esami. Ho sentito freddo mentre prendevo i farmaci, mentre venivo anestetizzato e operato. Quando mi sono svegliato in corsia avevo i brividi.
La malattia è arrivata come l’inverno: in silenzio, con il suo grigiore uniforme nel cielo, con la sua tristezza, la sua stanca disperazione, la sua secchezza e la sua umidità che non disseta. E ora, dopo un anno passato per trovare la cura giusta, dopo l’intervento risolutivo e dopo l’ufficializzazione del mio stato di salute, ho ancora freddo.
Questa è la mia gioia, la mia guarigione.

Un’altra telefonata. Stavolta è Vincenzo. Sicuramente vorrà chiedermi novità sulla campagna per le gelaterie.
«Pronto?»
«Ciao Filippo, come stai?»
Alzo le spalle, non so che dire.
«Tutto bene?»
«Sì, ho un po’ freddo, ma sto bene».
«Senti, riesci a mandarmi il report entro mezzogiorno, così gli do un’occhiata nella pausa pranzo?»
Mi volto e vedo il PC chiuso vicino ai cuscini.
«No, non ci riesco».
Lo sento sospirare: «Ascoltami bene! Qui è un casino, ok? Io ti ho fatto mettere in smart working, ma devi lavorare, sennò ti prendi il congedo, ne abbiamo già parlato, perché non puoi tenere fermi tutti perché tu la mattina hai bisogno di scioglierti. Sono stato chiaro?»
Annuisco.
«Allora? Sono stato chiaro?»
«Sì».
Chiudo anche questa telefonata, la seconda da stamattina.
«NU-ME-RO-U-NO!»

Prima di mettermi di nuovo sotto le coperte mi metto un altro paio di calzini, non si sa mai che il freddo voglia portarmi via la gioia. Sistemo i cuscini e mi sembra di spostare dei blocchi di ghiaccio. Metto il PC sulle cosce e alzo lo schermo, appoggio il dito sul tasto di accensione: è ruvido, come una piccola pasticca. Mi è appena tornato alla mente qualcosa.
Poso nuovamente il PC e mi alzo dal letto. Sul ripiano della cucina c’è il cestino delle mie medicine. Cerco la confezione del farmaco. Estraggo il bugiardino, tiro fuori il blister: è vuoto. Devo uscire a comprarne un’altra confezione. Da qualche parte ho già la ricetta della dottoressa Cerri. «NU-ME-RO-U-NO!» continua a gridare Gigi. Forse mi sta incoraggiando? Da quant’è che ha preso la fissa per questa frase? Qualche mese, forse. C’è stato il periodo di gat-ti-no! poi pa-pe-re! e poi il mio preferito ovecchio! Ora invece ha questo nu-me-ro-u-no. Lo grida sempre e se incontra qualcuno per strada glielo grida in faccia. Però oggi sembra proprio rivolto a me, sembra voglia congratularsi per aver sconfitto la malattia, per essere rinato. Forse il numero uno è il giorno della mia nuova vita, la mia vita da guarito. Eppure il freddo non mi abbandona: ormai mi sono ammalato dello stato di malattia, ormai vivo nella condizione del morente. Tutto è fermo per me, inutile o volto all’inutile, visto che non c’è più tempo, non c’è mai stato tempo: siamo in ritardo, tutti. A Gigi lo hanno detto da bambino, io l’ho capito da quando ho sentito il freddo, nonostante le stagioni. Se è vero che il mio ghiaccio si scioglierà, sarà solo perché possa cadere a terra e filtrare nel terreno, per ritornare fango.

Ecco la ricetta del farmaco. Mi metto il giaccone pesante, ma non riesco a tirare su la cerniera perché ho le dita intirizzite: tremo dalla felicità. Mi metto la sciarpa, i guanti, mi calo un cappello di lana sulla testa, esco e chiudo la porta.
Scendo le scale più in fretta che posso, per scaldarmi, ma ho paura di scivolare. Apro la porta dell’androne ed esco nel cortile coperto di neve. Rimango immobile. Una carezza di vento alza i fiori del pioppo dall’aiuola e li fa danzare. Alcuni mi arrivano in faccia, mi fanno il solletico e un po’ di allergia.
La primavera è inclemente e impietosa. La luce mi inonda senza toccarmi, senza scaldarmi. Sembra quasi che l’universo voglia gioire con me della mia vittoria, ma io non capisco perché. Una festa a sorpresa per una persona depressa.
«NU-ME-RO-U-NO!».
Gigi è di fronte a me. Alto, con la luce del sole che lo oscura e i fiori del pioppo nei capelli e nella barba. È una creatura mitologica, un titano della neve solare.
«NU-ME-RO-U-NO!».
Sta contando per me? I giorni della mia nuova vita, o forse tutti quelli che restano.
Mi prende per le spalle:
«NU-ME-RO-U-NO!».
La sua saliva mi arriva sugli occhi, sui pochi punti di viso rimasti scoperti.
«NU-ME-RO-U-NO!».
Mi solleva da terra stringendomi le spalle, non sono niente nelle sue enormi mani folli. E io rimango nessuno nelle mani di Polifemo. Esultiamo nella luce e nel candore del pioppo. Sono un’ostensione sull’altare, un’ostia, una sindone.
«N-n…» questa volta mi sussurra, a pochi centimetri dal mio viso. «Numerouno». Mi rimette al suolo. Si volta e torna a nuotare nel mare dei fiori del pioppo e nella luce.
Un po’ in ritardo, gli sorrido.

Immagine di copertina di Didgeman da pixabay

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Lorenzo Del Corso. Sono nato a Pisa, dove vivo, nel 1994. Da piccolo pensavo di amare l’economia, ma qualcosa dev’essere andato storto, perché dal 2020 sono professore di Italiano. Ho pubblicato i miei racconti su Rivista Blam, Il mondo o niente, Malgrado le mosche, Birò, Clean, Madre, Lettera Zero Nuova Serie. Dal 2019 sono membro attivo (nonché fondatore) del collettivo di scrittura Lo Scisma.

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