Gioco di specchi

Gioco di specchi

Veronica Piras era una ventenne bruna e slanciata che avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere scelta come protagonista di un racconto surreale.

La prima volta in cui l’ho notata, è stato in un pomeriggio d’autunno e di pioggia. L’acqua veniva giù come un castigo divino, come una melodia maledetta che allagava gli animi e infangava i sensi, per poi disperdersi tra i balconi e le strade, gli uni a contatto con le altre, entrambi risucchiati in un groviglio di odori fotografato dagli occhi di chi osservava la pioggia senza fiatare da dietro la finestra del polo universitario.
La prima cosa che mi ha colpito di lei quando l’ho conosciuta è stata l’ambizione. Non ho fatto caso alla curva bianca del collo, simile a quello di un cigno stanco, non ho fatto caso alle dita affusolate di chi sa suonare in silenzio la sensualità e nemmeno alle sue caviglie tanto esili, che a momenti si infrangevano contro gli scogli di una realtà per loro troppo aggressiva. Dopotutto non era né alta né bassa, né grossa né magra, al punto da passare inosservata per strada o da diventare invisibile in un ristorante. Così sarebbe apparsa dall’esterno, quantomeno.
Le ho sentito rivolgere una domanda al professore di Psicologia dello Sviluppo (un personaggio eccentrico e tendenzialmente libertario) durante una lezione che seguivamo entrambi e, pur senza aver mai notato prima di allora la sua presenza, mi sono detto: Questa ragazza ha un’ambizione smisurata. Lo si sentiva dal taglio sferzante della sua “t” e dalla sicurezza con cui aveva pronunciato un dittongo e parecchie vocali aperte.
– Il Paese da cui proviene José Martí potrebbe senz’altro fare riferimento all’ambientazione della sua opera, se non fosse che l’autore si trasferì in Spagna con i genitori quando aveva solo quattro anni. La psicoanalisi è forse in grado di fornire una spiegazione plausibile a questa reminiscenza tutt’altro che consapevole?
Il suo tono sfrontato e canzonatorio, la sua ostentata ingenuità e il suo piccolo seno ordinato, sotto una maglietta blu spento che ho notato piegando la testa leggermente di lato dopo qualche attimo… Tutto in lei trasudava un fascino quasi mitologico, capace di frantumare la monotona linea retta dello scorrere del tempo.
Veronica sedeva nella fila davanti alla mia, di qualche seggio più a sinistra, accanto alla finestra. Quando aveva posto quella domanda, né il professore né gli altri studenti l’avevano degnata di uno sguardo, come se si fosse trattato di uno spaventapasseri trasparente, capitato lì per caso. Io, intanto, avevo ripreso a studiarla con l’accortezza e con il trasporto di un archeologo alle prese con un reperto appena disseppellito.
La seconda cosa che mi ha colpito di lei sono state le gambe. Le teneva accavallate e immobili, ma il loro difetto di fabbricazione era fin troppo evidente: Veronica aveva le gambe storte.
Quando poi siamo diventati amici, mi ha rivelato che un dottore tanti anni prima l’aveva sottoposta a una radiografia totale e, trovandosela di fronte nuda dalla testa ai piedi, si era risparmiato qualunque commento a sfondo sessuale e le aveva invece domandato: Fai danza classica tu?
Veronica aveva scosso la testa e aveva poi chiesto di rimando: Perché?
Perché le tue gambe sembrano quelle di una ballerina.
Solo sei anni dopo Veronica si era accorta che quello del medico non era stato un complimento, né un espediente di basso livello per dissimulare i disegni erotici che la sua mente aveva forse scarabocchiato fra sé e sé, durante i pochi attimi di contatto visivo con la bambina. Le gambe erano effettivamente simili a quelle di una ballerina, lo erano al punto che il ginocchio stava in linea con il resto del corpo solo se il piede corrispondente si gettava d’istinto verso l’esterno.
Veronica non se ne era mai fatta un cruccio, anche perché non si trattava di una malformazione compromettente dal punto di vista estetico. A infastidirla era solo l’illusione di assomigliare a una ballerina senza averne né il talento, né la grazia, né il portamento.
Quando l’ho osservata per la prima volta in quell’aula universitaria, la terza cosa che mi ha colpito, mentre mi sporgevo in avanti per squadrare meglio il suo profilo, è stato il taglio degli occhi.
Una gelida ironia sembra aver marchiato a fuoco il corpo di questa ragazza, mi dissi nel realizzare che il suo sguardo, come le sue gambe, non aveva niente di armonico.
Veronica era strabica.
Non eccessivamente, s’intende. Aveva solo la pupilla destra decentrata, il che si era rivelato essere un grave impedimento a un’eventuale carriera televisiva, diplomatica o teatrale, dacché lei non sarebbe stata la persona adatta a intrattenere un pubblico fissandolo diritto negli occhi (tutte considerazioni delle quali Veronica stessa mi ha reso partecipe a tempo debito).
L’ultimo dettaglio su cui mi sono poi concentrato è stato il profilo delle sue labbra, piccole e febbrili come quelle di un sarto all’opera. Non troppo carnose, però fameliche, aggraziate e perfettamente consce di sé.
Per non esserne sopraffatta, Veronica sembrava continuamente lottare contro di loro: ne regolava a ogni istante i movimenti come se si fosse trattato di una parte del corpo svincolata dalla volontà del suo sistema nervoso periferico. Labbra come le sue farebbero invidia alla più bella regina d’Inghilterra, mi sono detto.
E si chiamava Veronica. È giusto ricordarlo, perché i nomi hanno sempre importanza nella vita della gente, sebbene ci capiti di dimenticarlo. Non si può negare che chi si chiama Consuelo cresca diversamente da chi si chiama Helena, o che la Elisabetta della situazione sia imparagonabile a un qualunque Angela. E quello di Veronica non era di certo un nome parlante, anzi. Non diceva quasi niente a chi non l’aveva mai invitata a prendere un succo di frutta all’ananas da qualche parte, e probabilmente è stato per questo che la mia immaginazione l’ha subito assimilata a un’eroina romantica dei nostri giorni, isolata in una bolla di fantasie e di aspirazioni sconosciute ai più, mentre già mi sentivo così preda della rete dell’estasi da non ricordare di preciso in che ordine si svolsero i fatti successivi.
Ricordo la sua borsa rossa appoggiata al muro e la mia matita grigia che picchettava sul bordo di un foglio a quadri, questo sì. Ricordo il suo Piacere, mi chiamo Veronica e le mie scarpe slacciate a cui non ho saputo rifare il nodo.
Magari fa più effetto così, ripreso tutto a casaccio per il capo o per la coda, non saprei. Magari costruirci un cortometraggio sarebbe meno cervellotico se già in partenza uno dei due testimoni alla scena la rivive con sé stesso congelata in una confusione fittissima. Magari Veronica l’avrebbe descritta meglio, se avesse avuto una penna a portata di mano; saremmo finiti a intavolare un dialogo impeccabile, così stringente da essere letto in un fiato.
E poi il rombo di un tuono, il solito castigo divino di novembre, le mani di Veronica all’altezza del mio sesso sopra i pantaloni, io che le ho suggerito di andare via nonostante il temporale, il mio ombrello verde scuro e le sue calze, la sua ritrosia e la mia insistenza, le mie domande folkloristiche e il suo seno piccolo, l’indirizzo a cui l’ho accompagnata perché intanto non si prendesse una polmonite, il porticato sotto il quale le ho accarezzato le gambe storte da ballerina e il momento in cui lei mi ha sfilato di mano l’ombrello e lo ha affidato al vento, sorridendo come una bambina interdetta mentre dal primo piano della residenza una comare nascosta dai propri vasi di fiori malediceva la nostra gioventù sfrontata, le nostre abitudini malsane e il nostro anticonformismo degno dell’ergastolo.
Sarebbe successo per filo e per segno così, in un libro. Lo avrei chiesto io in prima persona, su commissione. Magari Veronica stessa ne sarebbe stata capace.
Invece, zero.
Zero al quadrato, radice di zero, zero per zero. Zero.
L’incontro è stato così svelto che non sono stato in grado di inserire tutti i gesti miei e di Veronica all’interno di una sequenza logico-temporale sensata. Nessun complimento, nessuna frase fuori dagli schemi, nessuna colonna sonora, nessun passo fuori dall’edificio.
Ricordo solo – e che paradosso irritante – come a partire dall’indomani non abbia visto Veronica in sede per un’intera settimana e come su Internet lei non abbia postato niente per otto giorni.
Lo ricordo così bene da potere descrivere quanto ci sia stato male il mio appetito, la mia concentrazione, il mio sonno, l’ossessione eretta che ora mi tenevo fra le gambe e che mi chiedeva fin troppo spesso di lei. C’è stata male la mia stanza in affitto e perfino quella sezione de I fiori del Male di Baudelaire che mi sono sforzato di sfogliare ugualmente.
Sulle prime ho immaginato che Veronica fosse sparita perché, magari, aveva il ciclo. So che la gente di solito non pensa a queste cose e non le nomina neppure, così come non nomina le volte in cui va in bagno o in cui si pulisce le orecchie dal cerume, anche se fanno parte esattamente come tutto il resto della nostra maniera di stare al mondo.
Dopo un po’, tuttavia, in mancanza di sue notizie il mio emisfero boreale ha preso a stare male e in questo caso non c’è stata sorpresa accidentale che me lo abbia fatto più scordare.
Quando Veronica è tornata in facoltà, era un giovedì.
Nessuno la stava aspettando, così come nessuno si era accorto della sua assenza. D’altronde, non aveva molti amici lì dentro.
L’ho notata solo io.
È andata a sedersi da sola come sempre, tenendo sotto il braccio un volume rilegato.
L’ho raggiunta da dietro qualche minuto dopo, appena finito di salutare alcuni colleghi, prima che anche solo un muscolo del mio corpo cambiasse idea.
Le ho toccato tre volte la spalla destra con la punta dell’indice ma lei, che stava annotando qualcosa a margine, non si è scomposta.
– Cosa c’è? – ha borbottato soltanto.
– Veronica…
– Sì?
– Veronica, tutto bene?
Finalmente si è girata dalla mia parte.
– Oh, sei tu, Nicola! – ha esclamato con entusiasmo, nel riconoscermi.
Il mio stomaco ha sussultato, lieto che Veronica ricordasse ancora il mio nome.
– Non ti ho più vista in giro, ultimamente – ho buttato lì, simulando una noncuranza che non avevo. – Mi domandavo se fosse tutto a posto.
– Perché, ti serviva qualcosa?
– No, io… Credo di no.
Mi aveva messo in difficoltà e se n’è accorta subito, per cui con una punta di indulgenza ha ripreso:
– Ti andava semplicemente di rivedermi?
– Direi di sì.
– Be’, eccomi qui.
Lo ha detto senza enfasi, con una cordialità non studiata. Eppure, ho avuto l’impressione che qualcosa fra noi si fosse di colpo irrigidito: stava cadendo la neve fra le nostre parole.
– Mi fa piacere – ho provato a dire, sfidando ogni timidezza. Un po’ per far sciogliere la neve, un po’ per rompere il ghiaccio. Perché sbocciasse un fiore in mezzo a quell’inverno improvvisato, in sostanza.
– Vuoi sederti a studiare? – ha esordito lei, come pensandoci all’improvviso. Con un gesto della mano ha indicato la postazione alla sua sinistra.
Non era da me imporre a qualcuno la mia presenza, dico davvero, ma Veronica mi stava rendendo un altro da me stesso da oltre quaranta giorni e così il primo istinto sarebbe stato di accettare. Sfortunatamente, mi aspettava un laboratorio con frequenza obbligatoria, perciò ho azzardato una controproposta.
– Per adesso no, ma se vuoi ti raggiungo fra un’oretta e mangiamo qualcosa insieme.
Dopo un’intera settimana di isolamento dalle sue maree personali non mi sono preoccupato dell’impressione che avrei potuto farle, né dei miei modi precipitosi. Mi sentivo terribilmente disposto a improvvisare, pur di riavvicinarmi al suo universo, ed ero del tutto indifferente ai risvolti pratici della mia proposta.
– In realtà fra poco vado via – ha però replicato lei, con un misto di sincero dispiacere e di trepidazione.
– Ah – mi sono sentito pronunciare ad alta voce, meravigliato. – Capisco.
Non capivo granché, ad essere sincero.
Non capivo il perché della mia repentina delusione, non capivo il perché del suo sguardo ammiccante, non capivo il perché di quel rifiuto così esatto e non capivo il perché del contatto fisico che, però, lei non mi stava negando, dato che già da qualche minuto le stringevo una mano fra le mie, nel punto in cui poco prima le mie dita avevano attirato l’attenzione della sua scapola. Perfino il mio batticuore se n’era accorto.
– Il fatto è che devo incontrare una persona – mi ha annunciato lei, come se fosse una giustificazione segreta da trattare con riserbo.
– Ah – ho reagito a voce un po’ troppo alta. – E che persona?
Mi è sembrata una curiosità legittima, dal momento che lei stessa era entrata nel vivo di sua iniziativa.
– Si chiama Tommaso. Fa l’avvocato.
Tommaso, mi sono detto. Si trattava di un uomo, quindi. Di un uomo di sesso maschile. Tommaso, ho ribadito. Lei conosce il suo nome e sta per incontrarlo. Tommaso, ho ripetuto ancora, sentendo di odiare già quel suono in quantità inversamente proporzionale al senso di adorazione che suscitava in me la parola Veronica.
– Tommaso – ho scandito una quarta volta, a voce alta. Era un’affermazione e al tempo stesso una maniera di informarmi ulteriormente.
– L’ho conosciuto qualche settimana fa.
Non era l’esordio che mi sarei aspettato. Erano apparse trincee di gelosia a tormentarmi le tempie e il mio batticuore mi gridava adesso di andare via, ma cosa avrei potuto fare?
– Ti farò sapere come andrà, comunque – ha provato a dire lei.
Forse perché aveva letto un certo guizzo dietro il mio sguardo, forse perché aveva voglia di parlarne a qualcuno che la stesse sul serio ad ascoltare.
Forse perché aveva immaginato di scambiare con me più di qualche chiacchiera, vedendomi disposto ad assecondarla.
– È una promessa? – le ho chiesto allora.
– È una promessa – ha confermato lei, senza esitare.
Ci siamo congedati con fare complice e l’indomani, in effetti, è stata Veronica a raggiungermi per prima, non appena ho messo piede in facoltà.
Non l’ho sentita arrivare e sono quasi sobbalzato sentendomi chiamare:
– Nicola…
– Veronica! Caspita, mi hai spaventato.
Lei si è sforzata di ridere, ma le è rimasta un’ombra incastrata alle labbra.
Con un movimento della fronte le ho fatto capire che me ne ero accorto.
– Non sai che spreco, Nicola. Ieri Tommaso non è venuto – mi ha comunicato allora, mentre i capelli incorniciavano intanto l’aria lugubre dei suoi lineamenti.
In una lingua chiaramente muta, ho ringraziato la Provvidenza: che mi fossero state concesse ventiquattr’ore in più per sostituirmi a quell’avvocato nel cuore di Veronica?
– Avrà avuto un contrattempo, non prendertela troppo. Vedrai che si farà perdonare al più presto – ho ipotizzato comunque, per incoraggiarla.
Veronica ha annuito.
– Lo so che non ci si disseta con un unico appuntamento e che parlare solo sui fili del telefono trasforma l’attesa in una gabbia, come so che Tommaso sembrerà colpevole solo fino a prova contraria. Lo so, eppure il serpente del disfattismo semina il proprio veleno sempre senza preavviso.
– Posso offrirti un caffè, allora? – le ho proposto. – Così, magari, mi spieghi meglio e ti tranquillizzi.
Lei non era dell’umore giusto per rievocare i fatti, ma ha accettato di salire con me fino al bar dell’edificio.
Ne ho approfittato per farmi conoscere meglio e mi sono conquistato la fiducia di Veronica, la quale ha iniziato a telefonarmi o a farmi visita sempre più spesso, per informarmi di tutti gli imprevisti che impedivano a Tommaso di rivederla e per poi chiedermi: Piuttosto, a te va tutto bene?
I mesi sono scivolati via come petali in balìa delle piogge e no, non tutto andava bene. I miei sentimenti per Veronica si facevano tanto più ardenti e concentrici, quanto i suoi per Tommaso Mancini ansiogeni e totalizzanti. Per tutto novembre lei mi aveva letto integralmente il contenuto di alcune annotazioni che lasciava sotto lo zerbino della casa dell’avvocato e io le nascondevo le poesie che la sua pelle diafana mi ispirava alle ore più disparate del giorno. Il Natale, poi, era passato senza che lei e il suo Tommaso riuscissero ad andare in crociera – lui aveva pianificato il viaggio nei minimi particolari e Veronica esibiva i biglietti come fossero quelli della lotteria, ma una causa giudiziaria particolarmente problematica aveva costretto Tommaso a trattenersi in città e a trascorrere perfino le feste nei pressi del tribunale. Gennaio, una volta terminate le lezioni, aveva avuto almeno il merito di riavvicinare i due innamorati e di allontanare me dalla trepidazione di stringere Veronica fra le braccia come fosse mia e di nessun altro.
A febbraio, ormai, conoscevo Veronica abbastanza bene da permettermi di farle a mia volta visita, per augurarle un buon compleanno e regalarle una felpa bianca e blu con la stampa della sua città preferita. Lei mi aveva ringraziato senza smettere di sorridere, ma aveva dimenticato in fretta il dono e mi aveva trascinato per mano in cucina, dove mi aveva mostrato un enorme mazzo di rose rosse piantato al centro del tavolo.
– Non sono bellissime?
– Te le ha portate Tommaso?
– No, sono stata io a comprargliele – mi aveva spiegato – di sicuro lui avrà acquistato qualcosa di magnifico per questa ricorrenza e io non avrei voluto sentirmi in imbarazzo, presentandomi a mani vuote.
La sua riflessione così eccentrica mi aveva fatto sorridere. Che persona amabile era, la mia Veronica! Quanta sensibilità possedeva in quegli scrigni che per me erano ancora ermeticamente chiusi!
– Ti ha invitata a cena fuori, quindi?
– Sì. Non so dove né a che ora, ma suppongo che mi farà sapere a breve.
– Sarà meglio che io vada, allora. Corri a prepararti e non farti aspettare troppo, mi raccomando! Gli uomini detestano le donne ritardatarie – l’avevo ammonita bonariamente.
Lei mi aveva fatto strada fino alla porta d’ingresso, raggiante, e mi aveva sussurrato all’orecchio sinistro, mentre varcavo la soglia di casa:
– Se Tommaso non dovesse farsi vivo, sappi che il tuo regalo sarà il migliore di questo compleanno.
– Perché non dovrebbe farsi vivo? – l’avevo interrogata.
Lei aveva scrollato le spalle e chiuso la porta davanti a sé con un’ombra di mestizia nascosta sulle labbra.
Per tre settimane non avevo avuto sue notizie e le mie preoccupazioni, sempre più maestose e vestite di nero, mi hanno costretto a rintracciarla che era già la fine di marzo. Ho lasciato un messaggio nella segreteria telefonica pregando Veronica di richiamarmi appena l’avesse ascoltato e lei non ha tardato più di qualche ora a farlo.
Si è scusata del prolungato silenzio, spiegandomi che Tommaso l’aveva letteralmente piantata in asso la sera del suo compleanno e che lei se n’era risentita così tanto da essersi rifiutata di contattare chiunque e di uscire di casa fino a quel pomeriggio, quando era stata trascinata al cinema da un’amica e aveva poi trovato il mio messaggio in segreteria.
Ormai prevenuto nei confronti di Tommaso, ho spronato Veronica a reagire facendo valere le proprie ragioni e la propria dignità alla prima circostanza utile. Dopodiché, ai primi di aprile, sono venuto a sapere che lei aveva domandato a un orefice di scambiare un paio di orecchini ricevuti dal Mancini con un collier nuovo. E mi sono sentito fiero di lei.
Fino a metà del mese le mie telefonate con lei non hanno avuto più l’avvocato come argomento centrale: ci scambiavamo opinioni riguardanti l’architettura del primo Novecento, le migrazioni degli extracomunitari e delle rondini, la crisi finanziaria, le guerre in Oriente, le metafore e i supermercati vicino ai grattacieli.
Poi, con l’arrivo di maggio, Tommaso Mancini è tornato a frapporsi fra le nostre disquisizioni cinico‒culinarie e io ho ripreso a sentire la mancanza del riso della mia Musa.
La presenza di quel tale rendeva Veronica più scontrosa e lunatica e meno ambiziosa di quando l’avevo conosciuta. Gliel’ho detto a seguito di ulteriori disagi con il suo avvocato, ma lei ha negato di far dipendere il proprio umore dalla quantità di attenzioni ricevute dall’amato e io mi sono reso conto solo allora di quanto bene conoscessi Veronica. L’impalcatura della sua mentalità, le sue debolezze, i ponti dei suoi collegamenti logici, le sue preferenze musicali e le sue reazioni più istintive non avevano più segreti per me – sebbene si trattasse di una consapevolezza che avrei dovuto serbare per me – senza coinvolgere né Veronica né altri in questo processo di avvicinamento al suo universo più recondito.
Solo durante l’estate ho avuto modo di accennarle al diamante grezzo che stavo individuando nella caverna della sua personalità, ma lei ha reagito con un felino scatto all’indietro in segno di difesa, cosa che in futuro mi ha costretto a non avventurarmi oltre un certo limite.
I mesi più caldi dell’anno, comunque, hanno lasciato in pace le mie inquietudini e io ho vissuto un periodo di riavvicinamento a Veronica a cavallo fra agosto e settembre, quando il suo Tommaso si trovava momentaneamente all’estero per lavoro e le lezioni all’università non erano ancora cominciate.
Una sera ci è capitato addirittura di bere più vino del solito, dopo una cena a due organizzata a casa mia. Veronica aveva uno strano guizzo nella voce, come quello delle sirene che stanno per ammaliare i marinai, e io non sono stato abbastanza risoluto nel farla rincasare – un po’ a causa del suo aspetto poco sobrio, un po’ perché la vista della sua ebbrezza esercitava su di me una seduzione ineluttabile.
Lei si è offerta di aiutarmi a sparecchiare e io sono rimasto a contemplarla per pochi momenti, mentre raccoglieva le posate con la mano destra e appallottolava i tovaglioli con la sinistra. Dopodiché, scivolando alle sue spalle, ho adagiato il mio baricentro sui suoi fianchi.
– Lascia stare, finisco io.
– No, davvero.
Non si stava divincolando, stava accogliendo il peso del mio corpo sul suo bacino. Le ho percorso le vertebre a una a una, dal basso verso l’alto, con l’indice di entrambe le mani. Lei impilava ancora i piatti gli uni sugli altri.
Sono arrivato fino alla sua nuca e le ho sciolto i capelli con un gesto impercettibile. Veronica si è voltata e io ho avuto di fronte per una frazione di secondo una dea trasformata in un’aquila antica. Poi, solo il guscio di una conchiglia da baciare nel buio di una proibizione svuotata di domande.
Senza mai abbandonare la bocca di Veronica, ho sbottonato e fatto scivolare per terra la sua gonna e le calze, con dentro le sue gambe storte. Lei mi ha aiutato a disfarmi della cintura e già il mio corpo cercava il suo, frugando in mezzo ai suoi nei e alle pieghe delle cosce, in un silenzio da foresta vergine. Le ho sfilato via la camicetta come fosse uno strato di pelle supplementare e ho sfiorato le colline dei suoi seni mentre la accompagnavo all’indietro fino al divano.
La lentezza delle nostre carezze era quasi religiosa; ho percorso dappertutto con le labbra il corpo nudo di Veronica e senza che lei opponesse resistenza l’ho fatta mia tre volte: dapprima con lo sguardo, poi con il mio bacino contro il suo, infine con l’anima tutta. Io ero il timoniere e lei la nave, dentro una poesia che cambiava ritmo continuamente.
Non abbiamo scambiato una parola per tutto il tempo. Sentivo il respiro di Veronica farsi corto e teso, oppure stiracchiarsi come quello di un gatto sornione talvolta all’unisono con il mio e solo dopo l’ultima mareggiata lei mi ha detto piano, socchiudendo gli occhi e passandomi una mano in mezzo al petto:
– Siamo ancora vivi?
– Sì, stiamo imparando a nuotare – l’ho rassicurata, rivolto più ai suoi polsi che al suo viso.
Ci siamo addormentati in pochi istanti, vinti da un’ebbrezza che non aveva più nulla a che vedere con il vino, e l’indomani mattina ci siamo svegliati poco prima dell’alba.
Ancora seminuda e dormiente, Veronica si è affrettata a sparecchiare la tavola della sera precedente e a scusarsi instancabilmente. Di cosa?, le ripetevo, di cosa? È tutto a posto.
Di tanto in tanto lei mi porgeva qualcosa da portare in cucina, oppure si faceva passare i cucchiai e i tozzi di pane avanzati. L’ho aiutata a piegare la tovaglia e quando ci siamo accostati l’uno all’altro per riunirne gli ultimi due lembi le ho baciato la base del collo.
– Vado a rivestirmi – ha annunciato lei, scansandosi, e mi ha lasciato con la tovaglia fra le mani.
Io l’ho infilata nel solito cassetto e sono andato a mia volta a sciacquarmi, con i pensieri ridotti ad un fagotto insonnolito.
Veronica è andata via che erano quasi le nove.
Una volta sul pianerottolo le ho sistemato il colletto del giubbotto e lei, alzandosi sulle punte dei piedi come se volesse baciarmi la fronte, mi ha pregato:
– Non contattarmi finché non lo farò io, va bene?
L’ultima cosa che ho sentito prima di rientrare nell’appartamento è stato il calore del suo fiato in mezzo ai miei capelli e il rumore dei suoi tacchi che si allontanavano.
Confesso che all’inizio mi sono sforzato di tenere fede alla richiesta di Veronica, ma due settimane dopo, quando già erano riprese le lezioni all’università e lei ancora non si faceva viva, ero ormai corroso dal tarlo delle pulsioni che avevo represso così a lungo e mi sono risolto a chiamarla per spiegarle finalmente fino a che punto sarei stato disposto a rinunciare a ideali, stili di vita e progetti futuri, se solo lei avesse rinunciato a quell’ingrato avvocato in nome mio.
Avevo appena preso in mano il cellulare quando l’ho sentito squillare con forza per via di una chiamata in arrivo. Il numero era quello di Veronica. Mi sono meravigliato di quella coincidenza tanto fausta, affrettandomi a rispondere con l’aria di chi si trovava di fronte a una promessa.
– Pronto?
– Nicola?
– Ciao, Veronica! Come stai?
– Non troppo bene, in realtà. Ti ho chiamato per questo, avrei bisogno di parlarti.
Il suo tono era particolarmente alterato, le corde vocali tese sull’orlo di un precipizio.
Ho preferito non anticiparle che anche io avevo qualcosa da rivelarle.
– Dimmi pure, ti ascolto.
– Sono incinta.
Se fossimo stati dentro un film, qualunque spettatore avrebbe rimproverato a Veronica la mancanza di tatto con cui mi aveva appena rovesciato addosso quel secchio di acqua gelida.
La gelosia si è scaraventata sul mio senso di spaesamento e la rispettosa tenerezza che provavo nei confronti di Veronica ha tentato di difendersi, sfoderando tutta l’indifferenza di cui era capace.
Non c’è stato verso di rallentare i miei battiti o di frenare i pensieri che oramai galoppavano in tutte le direzioni, a mo’ di cavalli imbizzarriti.
Alla fine, sono riuscito a chiederle soltanto:
– Cioè, sei incinta di Tommaso?
– Sì.
– Ne sei sicura, Veronica?
– Ma certo! Con quanti uomini contemporaneamente vuoi che vada a letto?
Ho ripensato con orgoglio ferito ai recenti eventi che mi avevano condotto fino a quella telefonata.
Tuttavia, ho continuato:
– Intendevo dire, sei sicura di essere incinta?
– Sì, ho fatto il test stamattina.
– Qualche volta i risultati non sono del tutto affidabili, sai, ti converrebbe…
– Ti dico che aspetto un bambino, Nicola – mi ha interrotto lei, infastidita dal mio scetticismo.
– E Tommaso lo sa?
– No, è proprio questo il problema. Non ho il coraggio di dirglielo.
– E perché mai?
– Sai com’è fatto Tommaso: è una persona indipendente e poco responsabile. Con me è volubile e talvolta distante anche a causa dei suoi impegni lavorativi, per cui so che non accetterebbe di buon grado né l’impegno di diventare padre né l’obbligo di starmi accanto senza potersi più tirare indietro.
– Forse hai ragione, ma sai meglio di me che non avrebbe senso tenerglielo nascosto, Veronica. Finirà ugualmente per accorgersene.
– Proprio per questo ho pensato di abortire, però non so se…
– Abortire? Sei impazzita, Veronica? – ho ringhiato.
– …
– Ascolta, mi sta chiamando qualcuno al fisso, vado a rispondere perché non so chi sia – sono stato costretto a comunicarle a bruciapelo.
– Certo, non preoccuparti.
– Ci vediamo stasera e ne discutiamo con più calma, d’accordo?
– D’accordo. A che ora posso raggiungerti?
– Sta’ tranquilla, passo io da te. Verso le otto può andare?
– Sì, è perfetto.
– Non fare sciocchezze finché non arrivo, Veronica, siamo intesi?
– Sì.
– Va bene, a più tardi.
– A più tardi.
Ho riattaccato e sono riuscito per un soffio a sollevare la cornetta dell’altro telefono.
Ero già piuttosto frastornato – un minuto prima ambivo a strappare via i desideri di Veronica dal nome di Tommaso e un minuto dopo ero rannicchiato nell’angoscia che lui l’avesse messa incinta o, peggio, che fossi stato io a farlo durante quella notte in casa mia per un sadico scherzo del destino – e non avevo idea che il peggio dovesse ancora venire.
– Pronto?
– Pronto? Parlo con il signor Nicola Rocci?
– Sì, sono io.
– Scusi per il disturbo, le telefono dalla Clinica di Salute Mentale.
– Dalla Clinica di Salute Mentale? È successo qualcosa?
– Lei conosce Veronica Piras, dico bene?
– Sì.
– Ha avuto contatti con lei, di recente?
– Mi ha chiamato proprio adesso, dovrebbe trovarsi nella sua residenza. Perché me lo chiede?
– Temo che le cose non stiano così, signor Rocci. Veronica Piras è stata ricoverata qui una settimana fa.
– Cosa? Ma di che sta parlando?

Il dottor Costa ha interrotto solo allora il mio monologo.
– E dopo la mia telefonata ha finalmente iniziato a diffidare della situazione per come la conosceva, signor Rocci?
– Sì, dottore. Non appena ho saputo che Veronica si trovava in Clinica, ho sospettato una qualche sconcertante rivelazione. Probabilmente non avrei mai pensato che Veronica avesse inventato tutto o che quell’avvocato non la conoscesse affatto, né avrei supposto che i mazzi di fiori di cui lei parlava, le crociere andate a monte, i biglietti nella buca delle lettere e i loro incontri fossero solo il frutto di una fantasia deformata, ma ho comunque presentito che si era verificato qualcosa di serio.
– Non si tratta di fantasia, signor Rocci: quella di Veronica Piras è una patologia nel senso proprio del termine. Si chiama erotomania ed è un disturbo delirante che convince il malato in modo infondato e ossessivo del fatto che un’altra persona provi sentimenti amorosi nei suoi confronti. Veronica era fermamente persuasa di avere instaurato una relazione con il signor Tommaso Mancini, si aspettava quei viaggi e scriveva in continuazione all’amato, nella speranza che costui si accorgesse delle missive e le rispondesse.
– Ecco perché lui non si presentava mai agli appuntamenti! Ecco perché Veronica non mi ha citato mai le sue esatte parole né mi ha mai parlato di lui nel concreto! – ho ricostruito con una lentezza da testuggine.
– Ma che mi dice della gravidanza? – ho proseguito poi. – Veronica non può aver creduto davvero di essere rimasta incinta di quel tale!
– Lo ha creduto eccome, signor Rocci. L’unica bugia che Veronica le abbia mai detto riguarda quel fantomatico test di gravidanza: essendosi ritrovata in un letto di ospedale senza avere memoria del motivo, ha ripensato a uno dei sogni nei quali aveva fatto l’amore con l’avvocato e lo ha subito scambiato per la realtà.
– Intende dire che la mente di Veronica ha interpretato il ricovero come l’esigenza di alcuni accertamenti ginecologici da parte dei medici?
– Non solo, signor Rocci, le dirò di più: Veronica si è convinta che sarebbe stata dimessa entro poche ore, essendo qui ormai da giorni. Ecco perché le aveva dato appuntamento per stasera. Noi non aspettavamo altro: stavamo cercando di metterci in contatto con qualcuno che fosse anche solo minimamente al corrente della situazione, per avere un minimo riscontro sullo stato della ragazza. Così l’abbiamo convocata qui per metterla al corrente dei fatti. La sua versione ci ha aiutato a confermare le nostre ipotesi sulla malattia della signorina Piras, dato che finora la sua famiglia non ha saputo aiutarci.
– Non ne dubito, dottore. I suoi genitori non la vedono dalla scorsa estate, saranno all’oscuro della sua ossessione per l’avvocato.
– Proprio come lo è Veronica.
– Come lo è Veronica? – gli ho fatto eco. – Impossibile! Lei dovrà almeno ricordarsi di aver quasi ucciso quel pover’uomo.
– No, ha inconsciamente rimosso l’episodio. Essersi ritrovata a tu per tu con il proprio amato le aveva fatto sperare che costui si dichiarasse apertamente. È una delle fasi tipiche dell’erotomania. Tuttavia, essendo stata rifiutata e definita una persona non del tutto normale che stava importunando uno sconosciuto, deve aver perso il controllo. Veronica, infatti, si era persuasa che il suo Tommaso la amasse in segreto, poiché impossibilitato a esternare i propri sentimenti per qualche ragione non meglio definita. Il riscontro reale con lui ha messo in dubbio ogni sua certezza e ha fatto emergere l’aggressività tipica di alcuni erotomani, che spesso finisce per essere rivolta contro l’amato stesso.
– Tutto questo è inconcepibile.
– Purtroppo lo è, signor Rocci, ma è la realtà nella quale ha vissuto Veronica fino a oggi. Se andassimo a farle visita proprio adesso, non escludo che ci racconterebbe di avere intravisto il suo amante passeggiare nei pressi della camera in cui è stata ricoverata.
– Non c’è niente che si possa fare per lei, quindi?
– La terremo sotto osservazione per alcuni mesi, le somministreremo i farmaci necessari e staremo a vedere come si evolve la faccenda. Ad ogni modo, l’avvocato è già stato dichiarato fuori pericolo ed è in fase di rianimazione. Questo risparmierà a Veronica molte complicazioni, mi creda.
– E quante sono le possibilità che guarisca del tutto?
– È troppo presto per dirlo, sfortunatamente.
– Ma ce ne sono, dottore, vero?
Il dottor Costa ha accennato un sospiro.
– Che farmaci le darete? – ho insistito. – In quanti sanno della sua diagnosi?
– Lo abbiamo comunicato ai parenti più stretti, naturalmente. Saranno loro a diffondere la notizia, se lo riterranno opportuno.
– Perciò nessun altro sa niente?
– Non ancora, signor Rocci. Non sta a noi occuparcene.
– E dei farmaci che mi dice? Di che tipo saranno, nello specifico?
– Signor Rocci – ha scandito lui, sillaba per sillaba – faremo del nostro meglio per aiutare Veronica. Se vuole contribuire, non dubiti di noi.
– Ha ragione, dottore, mi perdoni. Sono molto scosso e…
– Lo vedo, è comprensibile.
– All’improvviso mi sento inutile, oltre che sciocco.
– E perché mai?
– Perché avrei potuto capirlo. Avrei dovuto capirlo. Se fossi intervenuto prima, io…
– Non si colpevolizzi, signor Rocci. Non è dipeso da lei e non sarebbe riuscito a evitare granché, se pure avesse intuito il problema. I casi di erotomania sono più frequenti di quanto ci raccontino i mass-media. Spesso nascono da un’adorazione esagerata nei confronti di qualche personaggio pubblico o di artisti famosi, sa? E non si risolvono se non dopo una terapia mirata.
Avrei voluto ribattere che non era facile da accettare. Avrei voluto spiegargli che in questo modo i conti non tornavano, che non avrei più saputo come risolvere il sudoku che rappresentava Veronica. I numeri erano tutti alla rinfusa, c’erano errori grossolani ovunque e più di un doppione disturbava l’ordine dei quadranti. Non tornavano più i conti.
Avrei voluto fargli intendere che era impossibile raccapezzarmi, adesso, e che il mio stesso sistema fondato sulla precisione era stato assediato come mai prima di allora.
Consapevole del fatto che non sarei stato capito, però, ho preferito tacere.
– Non stia in pensiero – ha tentato di rassicurarmi lui. – E, se proprio non riesce a farne a meno, passi da qui. Siamo tutti a sua disposizione.
– D’accordo, dottore. La ringrazio.
Che voleva dire Abbia cura di Veronica, se può, e starò meglio anche io.
– Nel frattempo sarà possibile farle visita? – ho aggiunto poi.
– Io lo riterrei controproducente.
– Come mai?
Il dottor Costa non ha fatto in tempo a rispondermi. Un’infermiera aveva appena fatto irruzione nel suo ufficio e aveva strillato:
– Veronica Piras è sparita dalla sua stanza!
Il dottor Costa e io ci siamo scambiati un’occhiata fulminea e ci siamo precipitati al piano superiore. Ci siamo fatti largo fra infermieri e pazienti, siamo entrati nella stanza di Veronica e abbiamo visto il letto vuoto. La finestra era spalancata e dal davanzale pendevano tre o quattro lenzuola i cui lembi erano attorcigliati gli uni agli altri a formare una fune, che a propria volta era stata legata a uno spigolo della finestra e che scendeva fino al terreno esterno del retro dell’Ospedale. Veronica doveva essere fuggita da lì.
– Dove può essere andata? – ho mormorato.
Senza rispondere, il dottor Costa mi ha indicato la parete della stanza adiacente alla finestra, dove qualcuno aveva scritto con un pennarello nero il nome di Tommaso infinite volte, dal soffitto fino al pavimento. Trovarmi di fronte a quello spettacolo per metà grottesco e per metà compassionevole mi ha costretto a indietreggiare e a uscire dalla camera di Veronica nel giro di qualche istante. Ho misurato a grandi passi il corridoio, ho sceso le scale e mi sono allontanato dall’ospedale senza mai voltarmi, come inseguito dal fantasma di cento cani da caccia.
Stavo scappando anche io attraverso un labirinto di paradossi e di medaglie rovesciate, senza una meta verso cui dirigermi.
Ho provato l’istinto di lanciarmi sulle tracce di Veronica, ma l’odore della sua passione fittizia non aveva lasciato indizi per le vie della città, né io avrei saputo da che parte cercare una preda che non aveva voluto lasciarsi addomesticare da me. Telefonarle o proseguire fino a casa sua sarebbe stato inutile, perché qualunque animale in fuga si manterrebbe lontano dal posto in cui è stato stanato; e io sapevo che Veronica avrebbe fatto lo stesso.
Non avendo neanche una fotografia di Veronica con la quale condurre la mia ricerca, quindi, mi sono arreso alla prospettiva di recuperare innanzitutto la mia lucidità: del resto si sarebbero occupate le autorità competenti.
Nel frattempo, mi ero lasciato alle spalle il reparto di Psichiatria e le pareti deturpate dall’amore malsano di colei che io stesso avevo amato, raggiungendo la facoltà di nella quale studiavo e che si trovava nei paraggi.
Ha iniziato a piovere e in un istante mi è tornato in mente il primo pomeriggio in compagnia di Veronica, in quello stesso luogo.
Mi si è appoggiato addosso il mantello delle esperienze vissute da un anno a quella parte e per un attimo ho pensato di avere immaginato ogni cosa, dalla prima stretta di mano con Veronica fino al dialogo col dottor Costa: nessuno avrebbe ritenuto attendibile un resoconto di quel genere, precipitato oltretutto in un buco nero senza significato apparente.
D’altronde, chi altri avevo visto conversare con Veronica oltre a me? Durante le lezioni i professori la ignoravano, nessuno studente le rivolgeva la parola e non vi era mai chi rispondesse alle sue domande, per quanto esse fossero pertinenti.
Era plausibile che io stesso mi fossi invaghito di uno spettro o della proiezione di una creatura ideale? Si poteva azzardare che nessuna fuga dalla clinica fosse mai avvenuta e che io avessi solo sognato di essere stato seduto nell’ufficio del dottor Costa? Sarebbe stato difficile da spiegare, altrimenti, come mai un cellulare si trovasse a disposizione di un paziente del reparto psichiatrico e come mai Veronica fosse riuscita a preparare una fune con le lenzuola e a eludere la sorveglianza senza che nessuno si accorgesse di niente o desse in tempo l’allarme.
Nonostante il medico dal quale io ero stato ricevuto mi fosse sembrato in carne e ossa, qualcosa non quadrava: sarebbe stato più facile convincermi del fatto che quella concatenazione di eventi non fosse stata altro che un gioco di specchi particolarmente elaborato, sintomo dei facili inganni dei quali la mia inventiva mi aveva reso schiavo consenziente.
Ho preso a dubitare sul serio della mia sanità mentale quando mi sono accorto di avere con me inspiegabilmente lo stesso ombrello verde scuro di quella fatidica giornata assieme a Veronica, quasi che si fosse materializzato all’improvviso nella mia mano sinistra, mentre ancora stavo dritto di fronte alla facoltà universitaria.
Ma chi aveva comprato a Veronica gli orecchini scambiati dall’orefice, dunque, e in che modo lei si era procurata i biglietti per la crociera?, ho continuato a domandarmi in preda allo smarrimento e nell’estremo tentativo di conferire veridicità a una storia che appariva troppo articolata e terribile, per essere stata concepita interamente dal mio ingegno.
E le nostre telefonate, i caffè dentro i bar, il campanello che trillava quando lei veniva a trovarmi? E la sua ambizione, le sue gambe storte, il suo strabismo, il suo piacere caldo fra le mie braccia tremanti?
Stavo per allontanarmi da lì, incastrato fra timori e supposizioni sempre più friabili, quando il professore di Psicologia dello Sviluppo, che stava lasciando l’edificio proprio in quel momento, mi ha salutato con un cenno della mano.
– Ebbene, signor Rocci, piaciuta la lezione di oggi su quello scapigliato di José Martí? – mi ha chiesto ammiccando, per poi allontanarsi senza attendere risposta.
Era un pomeriggio d’autunno e di pioggia.

Foto di copertina di Doctor Tale & Mister Shot

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La catanese Eva Mascolino, 25 anni, si è specializzata in Traduzione alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste nel 2018, concludendo gli studi con il massimo dei voti con una tesi di traduzione letteraria dal russo, dopo avere svolto tre scambi all’estero nel corso della sua formazione universitaria.
Vincitrice del Premio Campiello Giovani 2015 con il racconto Je suis Charlie, collabora con riviste e magazine culturali (fra cui Sul Romanzo, Letteratitudine, Argo, Il Loggione Letterario, Narrandom), oltre a essere una copywriter e traduttrice freelance da quattro lingue per svariate agenzie multiservizi.
Nel 2018 ha pubblicato il racconto Vladimir’s Blues con la Aulino Editore nella collana Coup de Foudre, mentre con L’uomo di colore è stata in finale al Premio Chiara Giovani 2018. Attualmente vive a Milano, dove frequenta il master in editoria organizzato dalla Fondazione Mondadori.

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