racconto contemporaneo, Sergio Sessini

A forza di leggere Kafka

Oggi ho ucciso il maiale. Una puntura alla gola, precisa, cercando di non pensare che era stato un cucciolo intelligente che giocava col mio cane e lo superava in curiosità. Si è lasciato avvicinare tranquillo, si è accasciato a terra senza un grugnito, mentre accostavo un mastello per raccoglierne il sangue, evitando di soffermarmi sui suoi occhi persi e stupiti che svanivano.
Stranamente, ho pensato che stesse morendo senza poter conoscere il mio nome. Ábel, gli ho sussurrato contro ogni logica mentre crollava al suolo, mi chiamo Ábel. Vivo solo da troppo tempo, mi sa.
Ho atteso una mezz’ora. Mi sono fatto un giro, dato un’occhiata alla vigna potata da poco, tagliando alcuni rami che avevo tralasciato, lasciandoli crepitare sotto il peso dei miei stivali. Poi mi sono messo al lavoro, finché c’era luce.
Tolti gli intestini, che le donne che pago a ore laveranno nel mastello cantando vecchie canzoni, rasato e lavato a fondo, dentro e fuori. Bianco, puro, senza più una goccia di sangue. L’ho appeso per le gambe di dietro e tagliato a mezzo con la sega. Due parti identiche, tranne che una ha la spina dorsale, l’altra no.
A quel punto non era più un maiale, ma due mezzene. Non era più vivo, non era più uno. Cominciava un processo di disgregazione, grazie al mio coltello che separava la cotenna, il lardo, la coppa, la spalla, il prosciutto, i piccoli scarti da macinare per il salame. L’anima del porco si era dispersa. Nessuno avrebbe detto più nemmeno maiale, guardando i pezzi sparsi sul tavolo di marmo del mio garage. Avrebbe detto carne, lardo. O è proprio lì l’anima, nel trancio separato e sublimato di arrosto color del miele che si arroventa in forno, che avrei gustato presto, ben innaffiato di Sangiovese?
Toccandone con un ferro la spina dorsale, la coda diede un guizzo, come le zampe di una ranocchia di Galvani. Lo toccai ancora e ancora, suscitando la contrazione sempre uguale del muscolo caldo. Mi scoprii a stuzzicare con la punta del coltello anche il cervello che avevo adagiato in una scodella. Quale area toccavo? Quella che governa il moto di arti che non esistono più? Forse stavo sollecitando elettricamente un pensiero, un ricordo? L’ultima immagine, magari, di me che pianto quella stessa lama luccicante e acuminata nella sua carne? Infine presi il mastello del sangue per farlo bollire, e vidi che un grosso ragno dalle zampe lunghe ed esili stava lottando per liberarsi da quella trappola vischiosa e arrancava senza speranza. Lo levai con la punta del coltello e lo gettai ad affogare nel suo grumo di sangue in un angolo del pavimento.

Si è fatto scuro.
Intravedo la mia sagoma riflessa mentre guardo dalla finestra la distesa di neve farsi sempre più azzurra, le nuvole disfarsi in una foschia livida. Il gatto allunga la zampa verso quell’immagine che si muove appena, cerca di afferrare il riflesso del mio dito, vuole che sia abbastanza reale da poterci giocare.
Potrei paragonarmi a quel cipresso, inerme, immobile e circondato da un cielo immenso e cangiante che lo avvolge. Oppure a tutta la fila dei cipressi, lineare e regolata da secoli di intromissione umana, ma con radici piantate in un umido suolo buio e primordiale, senza luce, senza direzione, costruendosi fibra su fibra nel succhiare cieco l’arido nutrimento minerale. Potrei affermare che sono come il gatto, che si afferra al riflesso delle cose. Potrei dire che sono. Che sono ancora vivo, ancora uno. Invece mi sento leggero e inesistente in maniera dolorosa, come un delirio di febbre, una bollicina di spumante sbucata da chissà cosa, che va a finire chissà dove, e non mi rimane impressa a forza nella mente che una frase di Franz Kafka: Perché siamo come tronchi nella neve.

Piango la morte del mio maiale, mentre tuttavia annuso il profumo di uno dei suoi lombi che ho messo ad arrostire. Potrei avvertire che non è la materia del porco che piango –quella, lo teneva soltanto insieme- ma un nucleo di esperienze e ricordi. Potrei dichiarare che è la morte in generale a sgomentarmi. Invece è la vita, è l’esercito dei frammenti del quotidiano ad essere inspiegabile. È questa faccia, di cui intravedo appena il contorno, che credo di conoscere meglio di tutte. Non c’è bisogno di tragedie per provare il brivido dell’assurdo, basta scostare col dorso della mano l’umido velo che appanna il vetro, e guardare. Quello che più dovrebbe essermi familiare mi è invece totalmente estraneo. Penso al mio nome, che qui nessuno conosce, assegnatomi in una lingua che non è la mia. La morte è misteriosa soltanto come corollario dell’esistenza. È essere qui a guardare dalla finestra scura, toccarne la superficie fredda raggiungendo il riflesso della punta delle mie dita che mi è inspiegabile. Che io sia io, con questa forma, occhi che incontro allo specchio ogni giorno, avere una trentina di denti, essere fatto di cellule, atomi, scorrere nel tempo, ingrigirmi e anchilosarmi secondo stadi anticipabili, fornito del bagaglio di un senso di identità e una quantità di ricordi, è normale solo all’interno di un sogno nutrito e stratificatosi negli anni. Se di qualcosa sono fatto, è di abitudine.
Il cumulo di esperienze che ho vissuto sarebbe sufficiente a far diventare saggio un uomo più accorto di me. Io invece ne sono stordito. Non sono più nemmeno così giovane da pensare che la mia vita sarà cambiata e illuminata da un lampo improvviso di eventi. Questa è la mia vita, già confezionata, praticamente terminata, sciorinata dinanzi a me come da una commessa ansiosa di vendere.
Il pensiero annienta la realtà, la realtà annienta il pensiero. Mi lascia vinto, stupefatto. Che tutto quel che è sia come sia, senza alternative se non le miserabili giravolte della piccola mente che si avvita come un lombrico nel fango. Il mio potere di pensiero è limitato all’immaginare forme familiari. La mia mente può solo afferrare cose che assomigliano ad altre cose, annusarne l’affinità e, quando sente la vicinanza di un’entità ultima, senza causa, senza nulla a cui potrebbe a sua volta assomigliare, si inceppa, e allora mi sembra di diventar matto e devo interrompere quello che sto facendo e cantare ad alta voce qualche stupida canzone, per scacciare la possibilità di un’immagine impensabile.
Mi scuoto infatti, batto le mani e mi avvicino canticchiando al forno per controllare l’arrosto. È pronto, spengo. Volevo riempire la mia sera di vino e pensieri allegri e invece mi è capitato questo. Colpa di Kafka, di quei libri maltrattati e polverosi che tengo sul comodino. Ho iniziato a trovare naturali e plausibili le sue metafore disperate. Mi sono imbevuto di storie dove chi cerca non trova, di destini fatti del non poter incontrare il destino che si attende. Lo leggo e rileggo ogni sera. Peccato doverlo fare in italiano. Non mi piace ricevere le sue parole forzate in un’altra lingua come in una scatola angusta, vorrei padroneggiare meglio quella di mia madre, emigrata da Praga in tempi lontani, appresa solo a metà.

Lo vorrei tradurre, ho detto stamattina a Cristiana, incontrata davanti all’ufficio postale. Una volta all’anno ci incrociamo per caso, alle poste, al supermercato, alle feste di paese.
Cristiana mi ha guardato da sotto in su, a modo suo. La sua bocca che non si ferma mai si è increspata in un sorriso. Chi l’ha detto che non c’è una donna nella mia vita? La mia vita si avvolge attorno a questa donna piccola e silenziosa come un filo al suo rocchetto.
Ancora leggi Kafka, come da ragazzino? Mi ha detto.
Ancora è tutto come da ragazzino, ho risposto, e lei ha capito e ha riso. Chissà se si rende conto che questo è tradire il marito. Chissà se lo fa con altri. Chissà se sa di essere legata a me più che a lui, se sa di condividere con lui la parte più necessaria e pesante del tempo soltanto, e che io, fortunato, ne afferro gli attimi liberi, il frutto più delicato e fragrante, posso vederla, anche se una volta l’anno solamente. La guardo crescere in disillusione e infelicità accanto a un uomo distratto, disfarsi in una serena allegria quando mi incontra.
No, non credo sappia quanto le piaccio, quanto ha sbagliato, quanto i suoi occhi rivelino la sua infelicità annoiata.
Difficile raggiungerti, difficile persino insinuare quanto ti voglio, avrei voluto dirle.
Allora, io vado a uccidere il maiale, le ho detto invece.
E sono andato, allontanando ulteriormente il mio corpo dal suo. E lei non ha nemmeno avvertito il fremito doloroso di separazione che pure l’ha attraversata.
Come ieri, quando mi è caduto il termometro e si è rotto. Il mercurio si è diviso in sferette che però si cercavano l’un l’altra, piccoli individui mobili e altamente temporanei che vagavano nervosi e inquieti fino a realizzare la propria dissoluzione ricongiungendosi.
A volte mi sembra che ogni cosa sia costruita così. Tutto pervaso da una nostalgia innata, un’ansia invincibile di riunione. Scomparisse l’uomo dalla faccia della terra con tutti gli animali, ancora la nostalgia troverebbe modo di esprimersi, di incarnarsi senza carne.
I miei pensieri vengono interrotti dal gatto, che mi preme il braccio con la testa e fa le fusa. Gli getto un ritaglio del maiale, comincia a trangugiarlo.
Io da parte mia prendo un buon sorso di Sangiovese, mi aiuterà a dissipare il pensiero di una forza oscura che da un momento all’altro potrebbe affacciarsi da una dimensione a me incomprensibile e volgere la sua devastante attenzione verso di me. Meglio bere che arrovellarsi, chiedersi se è tutto un caso o se siamo il riflesso ordinato di un’invisibile origine. Anche questo lo devo a Kafka, il pensiero di una mano invisibile che stringe una lama sottile, in agguato per annientarmi, potente, pratica, risoluta, per niente mossa a misericordia dal fatto di avermi visto giocare col mio cane e superarlo in curiosità.

Immagine di Pixabay

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Racconto di Sergio Sessini. Nato in Sardegna, dopo un lungo passaggio negli Stati Uniti, ora vivo ad Amsterdam. Da piccolo ero un lettore troppo avido, poi ho deciso di darmi una calmata, trovare un po’ di tempo per le ragazze. Soffro di immagini incastrate dentro di me come un pezzetto di buccia di mela tra i denti. Per liberarmene, e anche perché sono curioso di vedere che forma hanno, ne scrivo.
Pubblico i miei racconti in un blog, che si chiama ‘Idee per un racconto’: https://sergiosessini.wordpress.com

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