illustrazione di Gianmarco De Chiara

Ficus e limone

Sarebbe venuta. Erano i rimasugli dell’anestesia a farglielo credere, e il dolore del taglio a farla disilludere. Non ne parlava, non chiedeva niente a nessuno di quelli che la venivano a visitare, che d’altronde erano troppo impegnati a sincerarsi della sua salute e di quella del bambino. Lei sarebbe venuta, ne era sicura, e quella sensazione era la sola cosa che le permetteva di alzarsi e andare a sbirciare dalla finestra, da dove vedeva soltanto il parcheggio e le colline. Leda stava crepando nel suo letto con la coperta di trine, lo sapeva, però sarebbe venuta lo stesso.
Due giorni dopo Amedeo la venne a prendere. Preciso come l’ingegnere che era, recuperò tutti i ninnoli e dispose nella culla coperte morbide, un coniglietto che era stato suo ma che non puzzava, e per ultimo il neonato, che non si svegliò. Si meravigliarono: si baciarono sulle labbra per la prima volta dopo il parto e con l’indice lei accarezzò il naso del figlio; le sembrò di toccare una foglia. Sulla porta, però, una nube le strinse le tempie e sbraitò al marito che di sicuro si erano dimenticati qualcosa, che non poteva pensare lei a tutto, che da lì in poi l’avrebbe dovuta aiutare tutti i santi giorni e che così non ce l’avrebbero mai fatta. Lui la guardò con occhi insipidi e, lasciando il manico della carrozzina, rientrò nella stanza. Non accese la luce. Lei lo ascoltò camminare, aprire cassetti, sollevare il materasso e poi farlo ricadere. Seguì qualche istante di silenzio nel quale temette di averlo perso nella stanza – paura viva, concreta, che le gelò il latte nelle mammelle. Poi, da quel buio disinfettato, Amedeo la chiamò per nome, e per un po’ la sensazione di quelle tre sillabe ben distribuite sulla sua lingua la resero di buon umore. In ascensore pensò di scusarsi, ma sentì che farlo l’avrebbe prosciugata; non avrebbe nemmeno saputo che dire. Lui, con le mani sulla carrozzina, passava lo sguardo da lei al neonato, dal neonato al futuro, che luminoso quasi tagliente brillava nei suoi occhi come luci alogene.
A casa, sul pianerottolo, dinnanzi alla porta che Amedeo aveva scelto di sostituire a sorpresa dopo i lavori di ristrutturazione, si attardarono a cercare le chiavi. La luce che filtrava dalla finestra era grumosa, limbica, e già inghiottiva i bordi delle piante addossate alla parete. Erano un ficus e un limone. Vedendoli lei si voltò verso la porta di fronte, e si disse che Leda sarebbe uscita all’improvviso, proprio come qualche mese prima aveva trascinato le due piante in mezzo e le aveva chiesto se potevano prendersene cura assieme, dato che lei da sola non ce la faceva più. Ne sarebbero state comproprietarie, e con i loro sforzi congiunti avrebbero reso più bello quel pianerottolo anni cinquanta dai colori frammentati e sabbiosi. Ora però il buio moltiplicava le foglie e inspessiva le cortecce, e le ombre crescevano di pari passo con il desiderio che lei aveva di entrare in casa. Disse al marito di sbrigarsi.
Infilarono le chiavi nella toppa, ma girandole il rumore della serratura fu mangiato da quello dell’altra porta, verso cui entrambi si voltarono. Il bambino, nella culla, fece un verso simile a quello dei cani.
«Sofia».
«Zio».
L’uomo chinò lo sguardo sulla culla, poi lo distolse, e ve lo ripoggiò solo dopo aver chiuso la porta. Il bambino vociò ancora, stavolta più forte, di un suono che scivolava direttamente nel pianto.
«Siete già a casa? Il taglio?»
«Tutto bene. Ci sono voluti tre giorni ma adesso siamo qua».
«Tua zia la rimandarono dopo una settimana. Era debolissima».
«Come stai? Tutto bene?»
Per un attimo la luce fu tutto il bene di quella giornata, e svanendo ingoiò il corpo dell’uomo. Sofia adesso ne poteva distinguere soltanto gli occhi, grigi e pietrosi, e la mano con cui si ostinava a pizzicarsi la pelle del viso un po’ cadente, da quasi settantenne. Il bambino, intanto, aveva preso a sgolarsi: il suo pianto era vetro e acidume, un suono che non aveva origine e che non voleva altro se non spegnersi e essere arginato, cosa che Amedeo tentò tirandolo su e cullandolo come gli avevano insegnato al corso preparto. Lei li guardò appena, poi si fissò sul volto dello zio e attese.
«Se n’è andata poco fa. Devo ancora chiamare il medico e il prete. Manco era unta, pensa. Manco era unta.»
Riaprì la porta, facendole cenno di entrare. Sofia sentì il muscolo del polpaccio tirare. Era pronta, ma mentre stava pensando a tutte le volte in cui si era trovata da sola con un morto, il bambino smise di piangere. Si tirò indietro e chiese scusa allo zio, che annuì e disse che non c’erano problemi, che il prete l’avrebbe chiamato lui.

L’indomani non comparve mai perché il neonato non le aveva fatto chiudere occhio, o forse perché il sonno non era mai arrivato. Per tutte quelle ore aveva pensato al torcolo che Leda le cucinava per la merenda a scuola e che faceva raffreddare sul mobile del telefono in corridoio. Era un torcolo aromatizzato alle carote, che del vegetale assumeva nell’impasto anche il colore. Gli altri bambini, quando Sofia lo toglieva dalla stagnola a ricreazione, storcevano il naso e le dicevano che mangiare gli ortaggi era schifoso. Lei si difendeva, diceva che le era toccato o che la nutella era finita, ma poi lo divorava in due morsi. Era felice di quel torcolo, felice che le ricordasse i soffritti che sentiva odorare per casa, felice che anche in aula ci fosse la sua famiglia a proteggerla, e si sentiva ancora più felice quando si ripeteva che avrebbe mangiato il torcolo alla carota per tutti i giorni della sua vita. Ma aveva smesso, e non ricordava nemmeno il giorno in cui al dolce di Leda aveva preferito qualcos’altro, forse la focaccia o la pizza. Più che per aver dimenticato, si odiò per aver confuso quel giorno, per averlo mescolato con altri meno importanti, e il neonato, consapevole del supposto legame che li univa, si mise a urlare.
«Forse ha fame,» fece Amedeo voltandosi di scatto nel letto. «Quando ha poppato l’ultima volta?»
«Tre ore fa».
«Allora ha fame».
«No».
«E perché piange?»
«Ha pianto tutta la notte. Solo che lo avevo portato in cucina e tu non potevi sentirlo».
Amedeo si alzò, passò per il bagno, e dopo aver trascorso qualche minuto in loro compagnia li baciò e disse che sarebbe andato al lavoro. Un po’ gli dispiaceva, ammise, ma doveva controllare dei progetti per le barriere di contenimento di una diga al nord. Sofia lo salutò con la mano, e restò seduta sul bordo del letto col neonato in braccio, che urlava e le sbavava sulla manica del pigiama, e che si sgolò più forte quando la porta d’ingresso si chiuse di schianto.
Per tutta la mattina, trastullando il figlio e estraniandosi dal suo pianto, Sofia si ripeté che Leda sarebbe venuta di sicuro, e continuò a ripeterselo anche quando dal pianerottolo sentì la voce dello zio accogliere i parenti venuti a rendere omaggio al suo corpo, ormai salma ben vestita. Ascoltò le parole di condoglianze e il rumore di passi sconosciuti mescolarsi al pianto di suo figlio e immaginò di vederla stesa a letto con indosso un tailleur nuovo comprato da qualcuno per l’occasione, perché lei non era mai stata una donna elegante e preferiva indossare pratiche vestaglie adatte ai lavori domestici quanto all’orto. Si chiese se nella sua camera da letto ci fosse odore di morto oppure quel delicato profumo all’acqua di rose di sempre, profumo che da bambina Leda le aveva sempre vietato per non farla diventare troppo vanitosa, e se sopra il letto vi fosse ancora quel ritratto della madonna di Lourdes e un sacchetto di terra che un’amica pia le aveva riportato da Gerusalemme. Si chiese se entrando avrebbe saputo ricordare come si muoveva in quella stanza quando la aiutava a rifare i letti, quando aspettava che le consegnasse le monete per andare al supermercato, quando vi entrava dopo una giornata in cui la mancanza di casa non era stata mitigata nemmeno dal torcolo alla carota, e di quando, l’ultima volta, vi era entrata per chiederle di togliere il malocchio. Si ricordava che dopo non vi era più rientrata perché le aveva fatto paura: Leda aveva voluto conoscere il nome di Amedeo e quello dell’uomo che voleva il suo posto in ufficio, e con la faccia levigata dalla penombra aveva compiuto la fattura.
Fu interrotta dal pianto del neonato, dalla sua faccia raggrumata e rossa. Fece scivolare fuori un seno da sotto la maglia del pigiama e glielo accostò alla bocca. Quello la morse. Lei tenne duro, poi lo sentì succhiare e quietarsi.
Rimase a letto per tutto il giorno. Il neonato pianse sempre, e solo quando tutte le altre voci e i rumori scomparvero Sofia si alzò. Oscillava ma non cantava alcuna nenia; il pianto del figlio le era dentro e non si muoveva più. Uscì di casa e attraversò il pianerottolo. Con una mano accarezzò le piante e le loro foglie costolute, e con l’altra si tenne il figlio addosso. Entrò nella casa di Leda. Dentro non c’era più nessuno, e in corridoio il mobiletto del telefono era stato spostato per non essere d’intralcio. Da dov’era poteva vedere metà del suo corpo, fino alle mani senza fede che qualcuno le aveva intrecciato sul ventre. Le tornò in mente che quelle mani non l’avevano mai picchiata, che se non poteva toccarla con dolcezza allora non si muovevano mai, e che quelle dita le erano sempre sembrate oblunghe e tozze, con la pelle incisa dalle fatiche nei campi. Leda si era sempre vergognata di quelle mani, e proprio perché non le piacevano non aveva mai voluto toccare niente di bello o buono. Diceva che ci aveva solo sguazzato nella sozzura, ma Sofia gliele stringeva e se le portava in faccia ridendo.
Entrò nella stanza. Leda indossava davvero un tailleur elegante. Le andò di fianco e la scrutò in viso, che non era più quello di una persona ma di un’ombra. Si piegò su di lei e si staccò il neonato dal corpo. Glielo appoggiò sulle mani, incurante di trovare un equilibrio, e si rialzò. Li guardò, Leda e il neonato, e quest’ultimo tramutò il suo pianto di vetro in calma rotonda, che trasformò la sera.

Copertina di Gianmarco De Chiara

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Racconto di Riccardo Meozzi. 1994, è nato a Città di Castello, in Umbria. Vive fra Bologna e la città natale. Ha pubblicato racconti su Verde Rivista, Crapula Club, Pastrengo rivista e agenzia letteraria, Narrandom, Tre Racconti, Malgrado le Mosche, Spazi Inclusi, In fuga dalla bocciofila, Grado Zero. Ha una rubrica narrativa intitolata “Tutte le mie vite” su Il loggione letterario. Nel 2019 il vincitore del Premio Letterario dell’Unione Europea Giovanni Dozzini lo ha inserito nell’antologia “A casa nostra, lontano da casa”, pubblicata da Aguaplano libri. È stato ospite dell’edizione 2019 di CaLibro Festival.

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