Luna Park a Coney Island, Freak

Fenomeni da baraccone

Domenica. Giorno del riposo. La sveglia è in letargo e a ripescarvi dal mondo dei sogni ci pensano vesciche piene o, più probabilmente, partner vogliosi: vi svegliano con lo stesso proposito di sognare, a occhi aperti. I vostri figli corrono scalzi giù per le scale mezzi nudi; cinguettano lodi allo zucchero, pregustano il sapore delle caramelle fra i denti, mentre in camera da letto uno di voi – sicuramente lui – ha un orgasmo.
Tanti sorrisi e carezze in cucina: c’è chi dispiega il New Yorker, chi accende la radio e addenta frittelle, chi si compiace del proprio giardino. I lievi rimbrotti davanti alla porta del bagno occupato non minano la gioia di questa giornata, guadagnata dopo una settimana di duro lavoro. Oggi nessuno vi corre dietro, nessuno vi pressa.
Riempite le station wagon con ceste di hot dog e bibite gassate, fate incetta di depliant sulle attrazioni migliori, le più sbalorditive. Il piagnisteo giocoso dei pargoli si propaga dai sedili posteriori appena lasciate il vialetto di casa: vogliono la Luna, vogliono la Luna, vogliono…
Li tranquillizzate. Il Parco a tema con la Luna è nella penisola del coniglietto, ed è proprio lì che state andando.
Altri hanno avuto la vostra stessa idea, altri vogliono portare le loro famiglie al Luna Park. Vi incolonnate lungo Ocean Parkway con la tacita promessa del divertimento; anche Brooklyn asseconda i vostri desideri, le strade scorrono rapide come fossero scivoli, la marea di macchine supera indenne semafori e ausiliari del traffico. Dinanzi a voi, dai lunotti posteriori delle automobili, spuntano bambini, i quali guardano automobili con all’interno altri bambini, che guardano a loro volta altre famiglie come in un grande gioco di specchi. L’asfalto bollente pizzica i copertoni esortandoli a ruotare più velocemente, e così fanno: 50, 60, 70 miglia orarie. Il tachimetro sale come le vostre erezioni mattutine e vedete sparire, nel giro di attimi, incroci familiari e piste ciclabili. Il bitume lascia spazio alla salsedine, sfrecciate costeggiando i miliardi di puntini albini delle spiagge di Coney Island, dove si stanno svolgendo tornei estivi di pallacanestro.
È una bella giornata.
Stormi di gabbiani dispiegano le loro ali nel celeste senza confini e si sostituiscono alle nuvole, la brezza dell’Atlantico accarezza la pelle di newyorkesi e turisti, smuove la sabbia dalle banchine dei moli, scaraventa cartacce fuori dal campo visivo del finestrino. È la giornata ideale per stare all’aperto, ma preferite rinchiudervi tra caseggiati industriali anziché immergervi nell’oceano.
Parcheggiate lontano da una delle tante entrate gigantesche del Luna Park. Pagate il parcheggio. Pagate i palloncini e i dolciumi appiccicosi per i piccoli. Pagate i souvenir magnetici per il frigo. Comprate riproduzioni in serie, in plastica, in tessuto; poiché ve le offrono, voi le afferrate. Aprite e chiudete i portafogli un numero inconsulto di volte da farli sembrare ventagli. Avete effettuato sì e no venti falcate fra schiere di bancarelle, speso più del doppio in dollari e dovete ancora varcare il confine del vero spasso.
Finalmente lo attraversate.
Fila tutto liscio: niente passaporti o controlli alla dogana del divertimento, d’altronde, siete voi i VIP qui dentro. Una cornucopia di colori sgargianti vi inebria. I vostri figli chiedono i nomi delle strisce dell’arcobaleno che rivestono il Luna Park e voi, per farli contenti, uniformate la faccenda ribattezzando “rosso” il vermiglio, “blu” il cobalto e “verde” l’acquamarina. Finite appena di elencare la vostra ignoranza che la musica di organetti e giostre richiama sensazioni dal vostro Io Bambino, corroborate dal profumo dello zucchero filato rimestato nei sempiterni carretti rossi.
Siete certi di essere sotto giurisdizione americana, però il pudore, normalmente esibito ai vostri vicini – quando raccogliete il giornale sullo zerbino di casa – è diverso da quello che pervade il Luna Park. È… attutito, accecato dall’illusione di una gioia condivisa; respirate l’atmosfera burlesca come se, prima del vostro arrivo, utilizzare i polmoni fosse un optional. Parole che richiamano il suono delle responsabilità– mutuo, produttività, fine mese – qui non vengono pronunciate perché non sarebbero capite.
Le diverse altezze dei volti anonimi che vi guizzano attorno formano un millepiedi d’umanità senza sesso o età. E voi ne fate parte, ne siete una parte e dovete muovervi. Così diventate un prolungamento della fila per improvvisarvi cecchini al tiro al bersaglio, per dimostrare la vostra forza attraverso un martello, per urlare sulle montagne russe, per ridere nel labirinto degli specchi – e forse sbatterci il grugno – per palpare una ragazza sulla ruota panoramica, per scaricare lo stress nella pista di go kart, per infradiciarvi nel parco acquatico, per rilassarvi sui cavallucci di Mary Poppins e tante, tante altre file a cui dedicare tanto tempo in cambio di sussulti d’irrealtà.
Non importa se la guida scelta da voi ricadrà sul percorso ponderato di una cartina o sullo zigzagare caotico dettato dall’istinto, il nano vi troverà. Aspetterà il tramonto prima di approcciarvi. Sarete troppo impegnati a farvi distrarre dalle attrazioni in continuo movimento perché possiate notarlo ma, non temete, lui noterà voi. Con le sue gambette storte eviterà gare di velocità: è padrone del territorio e dei suoi anfratti, e come un rospo vigilerà fermo sul posto, in attesa della preda. Verrà puntato dai bambini e, con guizzo lesto, allungherà loro un volantino consunto che recita:

“COME ULTIMO CAPRICCIO CHE NE DITE DI UNA DOSE DI RACCAPRICCIO?”
Ore 19:00 Freak’s Show
Ingresso: 2$ ogni paio di piedi
Lotto: seguite il nano, il Bianconiglio o altro membro della tribù

La rima è insulsa, il volantino potrebbe disfarvisi fra le mani per quanto è sottile, sullo sfondo lo scheletro rossastro di un tendone.
Un nano, un nano vero! La voce dei vostri figli è il richiamo della spensieratezza. E non solo quella. Tarantolati iniziano a saltellarvi intorno come indiani nelle danze di guerra e pretendono una risposta affermativa o il vostro scalpo.
Hai visto quant’è buffo? La voce delle vostre fidanzate, mogli o amanti esige attenzione.
Il nano attira anche il vostro sberleffo. Perché no? Vi dite. Sarà divertente.
Siete in pochi a pensarlo. La stragrande maggioranza degli astanti comincia a pagare il prezzo di una giornata passata a contrarre addominali in risate e grida. Il talco è stato assorbito e ascelle sudaticce hanno oramai la fragranza dell’aceto; le scarpe, scelte appositamente per l’occasione, si sono rivelate inadatte e hanno scavato nella pelle lasciandovi taglietti e vesciche; lo stomaco brontola e pretende vero cibo da assimilare e digerire e poi, ammettetelo, il nano vi ripugna.
Per cinque famiglie che vanno ce n’è una che resta. Formate un gruppetto – sarete quindici in tutto – ben assortito: banchieri gomito a gomito con spazzini, vecchi con giovani, neri con ispanici, rifatte con naturali, emisfero est con emisfero ovest.
Per gli zoppi, gli storpi e i mutilati di guerra il biglietto costa la metà. Le parole stridule del nano grattano nelle vostre orecchie, la sua risata sgangherata e catarrosa di fine battuta vi mette a disagio. Vi fa cenno con il braccino di seguirlo nell’area meno illuminata del Parco. Goffo, incespica sovente su ostacoli del terreno invisibili ai più; regge, con la manina paffuta, la bombetta calata sulla zucca e sculetta con il baricentro basso. Spesso lo superate e siete costretti a fermarvi per farlo passare nuovamente a capo della spedizione. I vostri figli osservano sottecchi le sue incongruenze: la stessa barba incolta che ricopre il mento degli adulti, la statura acerba così simile alla loro.
La temperatura cala, il vento si alza e ghiaccia il sudore che vi ristagna sul collo, usate fazzoletti per detergerlo prima di gettarli, assieme al volantino, nel primo cestino che vi capita a tiro. Uscite dal percorso canonico, fronteggiate le enormi impalcature responsabili di tenere alte nel cielo macchine ricavate dai metalli della terra; il sole abdica in favore di queste piramidi traforate in stile Meccano tingendo le loro pareti d’arancio. È l’unico cambiamento degno di nota: le urla di gioia e spavento, le code ordinate ai botteghini, i rumori dell’alta velocità sono gli stessi di quando il sole sovrastava il Luna Park.
Il nano sfila un mazzo di chiavi dalla tasca; passate attraverso una porta riservata al personale, nascosta dall’edera. Un forte odore d’ammoniaca vi satura le narici, le suole delle scarpe squittiscono sulle piastrelle lavate da poco e le porte del bagno, con il loro ammonimento adesivo sull’anta: “STAFF ONLY”, se ce ne fosse bisogno, vi costringono a proseguire in fila indiana. Il nano borbotta, nessuno capisce.
Oltrepassate un ripostiglio di scope e canovacci dimenticati sotto lampadine incandescenti, un cavalluccio a dondolo, cavalcato da ragnatele, ai piedi di una catasta di estintori scaduti; vecchie locandine scolorite di spettacoli, scollate dai muri, vi scrutano con gli occhi dei circensi di allora.
Lo sferragliare di chiavi pone fine alla breve visita al Museo delle cianfrusaglie, il passaggio nascosto si apre e spalanca la vista all’aria fresca del crepuscolo. Il caos con il suo brulicare di vita, luci e bibite in lattina sembra non essere mai appartenuto a questo luogo, siete nel Parco eppure, in un certo senso, non ci siete, ci sono sì le panchine per sedersi, ma hanno fogge e colori diversi da quelle che avete imparato a memorizzare nei vostri andirivieni, lo stesso si può dire per i cestini – vuoti – che costeggiano il sentiero con lampioni Art déco.
Un moto di proteste e brusii potrebbero minare le fondamenta del gruppo se il nano, con un sorriso a mezza bocca, non indicasse qualcosa in lontananza. Un tendone da circo delimitato da una cinta muraria di gabbie, carretti, carrozze e un camion dei pompieri in disuso. Vi sembra una lotta a chi sia il più pacchiano, e a vincere è decisamente il tendone. Avvicinandovi, particolari si aggiungono e formano un decoupage del kitsch. Abbandonate la strada asfaltata e camminate sull’erba, abbeverate le scarpe in pozze fangose e tentate di ripulirle subito dopo – con scarsi esiti – su uno strato di paglia che sembra proteggere l’intera struttura come un nido.
Non tutto è fuori posto. Ci sono altre persone, ad esempio. Le trovate in semicerchio al limite del circo, intente a socializzare con la tribù indigena. Riconoscete, osservando gli altri gruppi, lo stesso metodo di adescamento usato per irretire voi: costumi da Bianconiglio dal pelo sporco, donne sproporzionate, altri nani e un trampoliere vi hanno guidato al grande tendone come sherpa sulle vette del Tibet. Solo che le vette, voi, le avete già percorse sulle montagne russe e il viaggio per riscoprire voi stessi è durato a malapena dieci minuti.
Riscontrate la presenza rassicurante del personale di sicurezza del Luna Park e dei carretti rossi dello zucchero filato. Rossa è l’autopompa nelle parti smaltate prive di ruggine, rosso è il colore predominante del tendone, rosse sono le divise dei domatori di leoni, dei body delle majorette, dei nasi tondi e dei capelli, pettinati con i mortaretti, dei Clown che vi vengono incontro per invitarvi a fare un giro: alla vostra destra l’ampio tendone, divenuto amaranto sotto la luce artificiale dei lampioni.
Scoprite i resti di una civiltà: gabbie arrugginite adatte a contenere bestie ospitano ora il frinire dei grilli nel vuoto della sera, bucce d’arachidi frantumate si confondono in mezzo alla paglia e alle cartacce di vecchie leccornie. C’è persino un baldacchino rovesciato, usato in origine per l’entrata trionfale di cavalli o leoni.
Le guide vi sono accanto. Le guide vi narrano del passato fulgido del circo, di ciò che è stato, di eventi incredibili come il parto di un’elefantessa durante la tormenta giù a Detroit, del record di lastre d’acciaio piegate da Herbert, l’uomo forzuto, delle roulotte e di specchi incipriati di polvere, di amori consumati su ruote cigolanti perché sono sì girovaghi, ma hanno un cuore fisso nel petto, come voi. Ce la mettete tutta ad ascoltare, però le domande nelle vostre teste rimbombano e vi distraggono: dov’è lo spettacolo? Chi mai bacerebbe una donna barbuta? Le due ragazzine compresse nello stesso vestitino sono siamesi o è solo un trucco? In quali scuole andranno questi scherzi della natura? Altri semplicemente se ne fregano, interrompono il tour ed entrano nel tendone, quasi urtando una vecchia macchina da presa con le sue pizze in celluloide.
C’è forte umidità e odore di muffa. Goccioline d’acqua ricoprono l’incerata tesa, fissata a terra da solidi pioli, lo spostamento d’aria del vostro ingresso le smuove e rigonfia la parete del tendone in un grande sospiro.
Siete dove dovete essere e dove non credevate sareste mai arrivati quando avete aperto gli occhi al vostro risveglio.
I bambini sono i più lesti ad accaparrarsi il nuovo spazio vitale, si rincorrono emettendo squittii, saltano sulle sedie e occupano le cassapanche rialzate, destinate ai regnanti nelle giostre medievali. Avrebbero calpestato anche la sabbia del centro dell’arena se non fosse stata recintata per il numero dei domatori. La gabbia si erge in altezza ben oltre le teste dei più alti del gruppo prima di lasciare lo spazio alle reti di protezione degli acrobati e alla guglia che si restringe a garrota conferendo la forma universalmente conosciuta del circo: grassa alla base, smilza in punta. All’apice del tendone, palloncini ammassati tengono compagnia ai trapezisti e agli acrobati: hanno spiccato il volo, liberi dalle prese dei loro incauti padroncini, troppo impegnati a indicare il menomato di turno.
Controllate le sbarre: sono solide, direste nuove – a dispetto delle paccottiglie disseminate sul terreno in maniera piuttosto raffazzonata. All’interno i trespoli per i felini sono ricchi di fregi, una frusta al centro del palco è infiocchettata da un nastro rosso.
Dagli altoparlanti una voce femminile e rassicurante invita a sedervi, lo spettacolo sta per cominciare. La tribù circense, fatti gli onori di casa e assicuratasi di aver fatto accomodare tutti gli spettatori, entra nel tendone. Si riversano all’interno senza eccessivo trambusto, ognuno con i propri tempi e modi; un ecosistema multietnico dove coesistono in cattività mangiatori di spade e donne cannone, clown e giganti, gobbi, uomini glabri, donne pelose e tanti altri che spariscono dietro anfratti bui e sartiami di plastica, sfuggendo alla vostra ispezione prima che riusciate a catalogarli, secondo i vostri parametri di bellezza.
Sale una marcetta ritmata, le luci, ora soffuse, impongono intimità fra estranei. Sorridete imbarazzati al vostro vicino di seggiola e annusate l’aria in cerca degli odori familiari delle vostre cucine, dei pop-corn bruciacchiati nelle vostre padelle.
Fanno il loro ingresso due omaccioni vestiti da maharaja che aprono le porte di due gabbie: una rivolta all’uscita sud, l’altra verso gli spalti dove siete seduti; le rimanenti, sui lati corti della struttura metallica, restano chiuse.
Una donna in tulle arlecchino vi porge un foglio piegato. L’avreste potuta considerare una bella ragazza se la Natura non si fosse improvvisata Picasso con il suo naso. Il trucco le imbratta il viso seguendo le linee grottesche della deformità.
Cosa le è successo? Vi sentite chiedere mentre lei vi scavalca mostrandovi le cosce per arrivare agli altri spettatori. L’eccitazione subentra al disgusto giacché il culo e la schiena vi aiutano a scordare l’obbrobrio del naso.
Le si è deviato il setto nasale… poi le si è deviato il resto, rispondete da comici navigati.
I vostri figli sghignazzano, le vostre compagne vi abbracciano e vi sentite euforici. Ma sì, che ci vuole? Vi domandate. Bastano un paio di scarponi taglia 56, un naso rosso, del cerone e sarei un ottimo clown.
Vi sottovalutate. Non sempre serve una maschera per far ridere.
Chiamato in causa dai vostri pensieri un pagliaccio dal ventre pingue calca l’arena e vi fronteggia. È all’interno della gabbia aperta. Indossa la giacca di un vecchio supermercato chiusa da fiorellini finti, strisce alternate di giallo e nero gli ricoprono il corpo come le vespe e un unico ciuffo di capelli brillantinato all’insù sta a rappresentare il suo pungiglione. Il rossetto che gli sbafa le labbra è colato come sangue rappreso, la bocca ghigna, gli occhi son tristi, a riprova le lacrime eterne disegnate sulle guance. Nonostante siate su ripiani rialzati rispetto a lui, la sua presenza vi sovrasta, vi dà prurito sotto i vestiti.
Si inchina e raccoglie la frusta infiocchettata ma ciò che mostra è il foglietto, lo stesso che Deviata – questo è il nome che le avete dato, ricordate? – vi ha consegnato da poco. Il pagliaccio lo sventola in aria. Ad alcuni di voi ricorda il fazzoletto bianco della resa o degli addii alla stazione.
Vi sbagliate. È il segnale del via.
Venite colti alla sprovvista. Il proiettore trasmette un filmato in bianco e nero dei tempi d’oro del Barnum & Bailey Circus, gli altoparlanti crepitano diffondendo il suono della carbonella che scoppietta nel fuoco.
Pochi di voi rinsaviscono leggendo dal foglio di carta: è la stampa di un vecchio articolo del New York Times che raffigura in prima pagina un vasto incendio:

Luna Park on Fire

Tra il titolo dell’articolo e il nome del giornale, in piccolo, sbiadita c’è una data: 12 agosto 1944.
Il 12 agosto.
La vostra domenica.
Il vostro giorno di meritato riposo.
Sbraitate contro chi vi ha persuaso a seguirli in questa terra di balocchi chiamandoli Lucignolo, dimenticando che, per ogni Lucignolo pronto a raccontar bugie, c’è sempre un Pinocchio con orecchie d’asino disposto ad ascoltarle.
Venite sballottati su più fronti: gli uomini forzuti depositano le loro lastre di metallo e azionano i bicipiti come presse idrauliche, per scuotere gli spalti dove riposano le vostre terga; cannoni antichi con le micce impazienti vengono schierati in segno di saluto e bloccano l’ala ovest; acrobati si lanciano nel vuoto sorretti dagli elastici e dalla loro follia, vi ghermiscono cappelli, lanciano baci ai bambini in preda alla meraviglia.
La folla vi spinge e perdete contatto con i vostri cari; alcune persone cadono e rischiano di essere calpestate, se non fosse per nani solerti che le aiutano a rialzarsi. Agguantate il mostriciattolo e farneticate di sequestro di persona, di denunce al Luna Park, di lesioni. Per tutta risposta lui sorride e vi abbraccia. Ve lo scrollate di dosso. Piccoli e anziani cadono su tappetini elastici o vengono scortati da trampolieri al centro della gabbia, la tribù è organizzata e non permette che vi disperdiate. Nel caos di attrezzi, persone e seggiole, il percorso è chiaro e ben delineato.
Ed è uno solo.
Prendete l’ala est, ad esempio. Correte verso quella che ritenete sia l’uscita più vicina e trovate Sputa Fuoco con torce baluginanti che innalzano al vostro arrivo. Vi arrestate tra grida che dominano in spavento le vampe prodotte dai loro fiati incendiari, sentite un calore intenso ma è solo il panico che vi bagna le schiene, i fuochi sono stati proiettati in alto come sfavillanti geyser di stelle filanti.
Ci daranno fuoco! È l’isteria di massa a parlare e vi fa compiere gesti stupidi. Vi urtate, vi ferite fra di voi e ferite le odalische che vi indicano la strada. Perché non volete entrare nella gabbia? Non vedete che è aperta?
Con i polmoni in fiamme, ansimate e quasi caracollate verso l’uscita nord, che poco prima vi ha accolti. Il tendone è aperto. Lembi del tessuto impermeabilizzato garriscono smossi dal vento, intravedete uno spiraglio di notte, per il resto, l’autopompa vi sbarra la strada.
Odore di fumo.
Sì, sì, ne siete certi! Odore di fumo vi secca le mucose. Schiacciate la cinepresa nella spregiudicata folle corsa verso la fine di un incubo, che doveva essere un sogno. Suoni inarticolati prorompono dalle vostre ugole e restate smarriti quando li vedete tutti lì sugli spalti, ad applaudirvi e fischiarvi. Le facce brutte e grottesche di questa tribù di disadattati sono allegre, gioiscono.
Lo stupore vi monta dentro sentendo le loro grida.
Benvenuti! Vi aspettavamo!
Nel sentire i cori gioiosi che vi accompagnano nella vostra fuga a perdifiato, trasformate la paura in rabbia. Entrate nella gabbia aspettandovi il peggio, devastate i trespoli dei felini sotto la vostra selva di gambe impazzite, che mulinano in una sgroppata sincopata. Corpi urtano corpi nel tentativo di essere i primi a fuggire, siete una mandria di bisonti cacciata da grida d’incitamento.
Dove sono i fucili?
Accecati dal panico, iniziate a sentire l’acido lattico e il vento che odora di caramello quando la gabbia dista centinaia di “piedi”.

Giungete al cospetto della Security – quella vera, con il tesserino di riconoscimento – dopo aver ritrovato i vostri cari, e attendete l’arrivo della polizia. Alcuni di voi richiedono l’intervento dei sanitari – più per lo shock che per ferite gravi; altri, i più adirati, scortano fino al tendone gli ignari responsabili del Parco, sottolineando che saranno responsabili anche degli indennizzi.
Il circo è crollato e con esso la gabbia, entrambi riversi sull’erba umida. Possibile sia passato tanto tempo dalla vostra fuga? Non c’è traccia d’incendio ma solo di un indifferente abbandono. Non c’è riscontro tra ciò che vedete e quanto avete subito se si esclude il camion dei pompieri. L’eleggete a simbolo di tutto il male che vi è stato causato. I dirigenti si apprestano a puntualizzare che questa era una zona interdetta al pubblico, nessuno spettacolo era previsto e che i responsabili saranno puniti.
Sul portellone dell’autopompa una vernice spray ha lasciato un messaggio:

Dagli incendi rinascerebbero fiori se solo qualcuno si prendesse la briga di innaffiare il terreno.
Firmato: I discendenti di Lazzaro e Giovanbattista Colloredo.

L’esperienza che vi ha legato ad altri sconosciuti è conclusa. Ora, essere stati le vittime di uno scherzo che poteva finire in tragedia, vi ripugna e vi umilia. L’adrenalina è stata smaltita e subentra la stanchezza. Evitate i primi giornalisti accampati alle uscite che hanno fiutato l’odore di scoop, espletate le denunce al commissariato e rientrate a tarda notte in una casa che vi sembra estranea nella sua tranquillità. Avete sgridato i vostri figli sovreccitati dalla vicenda e gli avete urlato che era pericoloso, avrebbero dovuto avere paura e loro, di rimando, eseguendo i vostri dettami, piangono.

*

Tornerete alla vita di tutti i giorni oppure organizzerete una vacanza in fretta e furia tra ombrelloni sulle spiagge e ombrellini che guarniranno cocktail, in qualche casa contadina trasformata in night club a Marrakech. Demanderete ai vostri avvocati le incombenze di quell’increscioso 12 agosto. È stato un incidente veniale e non lascerà strascichi.
Ne sarete convinti.
Perciò quando vi capiterà di ripensare al tendone e ai suoi abitanti non vi preoccuperete più di tanto, anche se le emozioni che si dimeneranno in voi, forti e tenere come il primo bacio a stampo e il successivo con la lingua, avvamperanno e vi animeranno più delle mete turistiche scelte per voi da un’agenzia viaggi.
Giorno dopo giorno, il calendario scandirà le vostre 8 ore lavorative e i vostri week-end seduti sul divano davanti alla TV fino all’autunno, stagione melanconica, con le sue foglie caduche, con le sue tonalità avvizzite di marrone e d’arancio; l’arancione del tendone del circo al tramonto. Lo ricorderete nitido con i suoi spicchi sgargianti all’esterno e gli spalti capienti al suo interno.
Non importa quanto tempo ci vorrà e su quanti il seme attecchirà. Alcuni impiegheranno mesi per convincersene, ad altri serviranno anni per realizzare che… non vi stavano cacciando in quella domenica estiva, non vi stavano sfottendo: vi stavano omaggiando, facendovi sfilare lungo il loro personalissimo boulevard.
Non lo capite?
Siete fenomeni da baraccone.
Inghiottite merda per far funzionare le vostre vite pericolanti come i circensi mangiano fuoco e spade.
Chinate il capo ai soprusi ed evitate di guardare la gente negli occhi per paura di rivelare voi stessi, senza bisogno della spina dorsale spezzata di Leonard Trask.
Ridete quando dovreste piangere e siete incapaci di comprendere le sfumature di chi vi è vicino, come se aveste il cervello atrofizzato di Schlitzie.
Brulicate in metropoli sovrappopolate senza che un viso stampi memorie nei vostri vissuti. Raymond Robinson – Charlie No Face – ha usato un traliccio per cancellarsi la faccia, voi che scusa avrete?
Ecco il momento più delicato. Il più pericoloso.
Potrete negare tutto, in nome della sicurezza acquisita – anche se non richiesta – dei legami giurati al cospetto della croce – anche se vi rattristano – dei guadagni che vi permettono di vivere – anche se non è la vita che avevate sognato.
Potrete farlo.
E in molti lo faranno poiché, oltre la consapevolezza che squarcia l’illusione di una vita confezionata su misura, occorrerà il coraggio dell’incoscienza, della follia di essere felici, di essere uguali alla melodia che vi scorre dentro.
Non biasimate chi dovesse arrendersi a poche spanne dal traguardo, usate le vostre energie per tagliare quel nastro che vi irride – sempre un passo oltre le vostre aspirazioni – e proclamatevi vincitori dell’unica gara che conta, in cui il primo premio siete voi.
Solo allora nei bar si comincerà a parlare del banchiere che si è licenziato per tornare a zappare la terra di suo nonno; della donna che, dopo essersi impiantata protesi al silicone, prenderà una laurea in ingegneria per modellare il silicone in chip di schede madri; dell’adolescente che dichiarerà amore al suo compagno di banco e darà un cazzotto a ogni parente che lo chiamerà “frocio”; dell’ottico ipocondriaco che si allenerà per prendere peso e disputare i campionati mondiali di lotta nel fango in Cina.
Non importa quante vite verranno stravolte e quante altre resteranno immutate, voi ritroverete il nano. Forse sarà fermo a un incrocio, a scherzare con un cane che rovista nei rifiuti, o forse lo troverete davanti a un’enoteca, a conteggiare le bottiglie di Chianti e Barolo che non potrà mai permettersi, ma di cui conosce già il sapore. Lui si accorgerà dell’importanza che gli attribuirete e si volterà. Avrà qualche pelo bianco in più, le gambe storte e la solita battuta scadente sulle labbra. Vi offrirà la mano e voi gliela stringerete, facendovi condurre nuovamente alla tribù, orfana di tendone e con alcuni membri finiti in prigione.
Sgambetterà imperterrito, il vostro sherpa – tranne ai semafori pedonali o per osservare una carrozzina o una ragazza dagli occhiali spessi – fino alla meta. O almeno è questo che avrete supposto. Nel vederlo fermarsi in un vicolo degradato, usato da scarico per la sporcizia della città, un’ondata di panico vi si serrerà in gola.
Sapete, ci dovete ancora i 2 dollari dell’altra volta, dirà il nano, sghignazzando alla luna e voi avrete l’ennesima conferma, che il tempo della paura è finito. Allora potrete chiedergli in quel vicolo che puzza d’urina perché prendersi tanta pena, perché rischiare tanto.
La famiglia va allargata in qualche modo. Vi risponderà con una sicurezza che non ammetterà repliche. Batterà le nocche sul cassonetto secondo un antico segnale e i circensi appariranno: ci sarà il Bianconiglio dal pelo sporco, il pagliaccio vespa, le sorelle siamesi, gli uomini forzuti, i maharajah e altri circensi sbucheranno da angoli di strade chiuse e da carcasse di auto saccheggiate. Vi rivolgeranno saluti, vi stringeranno mani, prima di arrampicarsi su giacigli di fortuna, piedistalli di vetri in frantumi o semplicemente a terra, lasciando voi in piedi, al centro del vicolo.
Famiglia?
Vorrete giustificarvi: non siete circensi, non avete un numero da proporre. E invece, eccolo lì, l’insight, il colpo di genio che vi coglierà nel buco sperduto, alla periferia di Brooklin dove i balconi arroccati degli edifici popolari riformeranno la punta del nuovo tendone e il buon vicinato sarà buono perché lo si è scelto. Aprirete la valigetta o la borsa che avrete portato con voi. Frugherete in cerca degli incartamenti, dei documenti ufficiali. Denunce controfirmate in quella sera d’agosto. Le mostrerete e calerà il silenzio. Tutti, dalla donna baffuta, al mangiafuoco, alle odalische resteranno in attesa del vostro numero.
E voi non li deluderete.
Appallottolerete i fogli bollati ricavandone tre pallette di carta. Le sentirete ruvide al tatto e sarete nervosi. La lingua vi umetterà le labbra mentre penserete al modo più furbo per fregare la gravità e le lancerete in aria. Decine di occhi seguiranno il loro volo ascendente, poi sarà solo un crescendo di battiti di mani e piedi che accompagnerà il vostro primo numero da giocoliere.
Saranno più le volte che le raccoglierete da terra, rispetto a quelle in cui le farete vorticare fra le mani in una danza ipnotica ma da qualche parte dovrete pur cominciare, non credete?

Copertina di Matteo “ShannoSauro” Vettori

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