Fate attenzione alle scarpe

Fate attenzione alle scarpe

 

Marietta rimase sveglia tutta la notte seduta su una sedia di legno pieghevole accanto al letto di Agostino. All’alba si accasciò sulla spalliera, in dormiveglia, le braccia conserte all’altezza del seno, la testa che pendeva di lato. A intervalli irregolari gli occhi le si schiudevano appena e lei vedeva immagini sfuocate del letto, di Agostino, del grande specchio che rifletteva la penombra della stanza, lei sulla sedia pieghevole, Agostino seduto in mezzo al letto, appoggiato sui due cuscini che aveva dietro la schiena. Poi tornava a riabbassare gli occhi, poggiava il mento sullo sterno e stendeva le gambe fin sotto al letto. Continuò a lungo così, fino a che non si addormentò con le spalle contratte e la mascella serrata per il bruxismo di cui soffriva. Un sonno nero, senza sogni e duro, nel quale non penetrò niente dall’esterno, nemmeno la luce del giorno che filtrava dagli scuri appena scostati.

Si svegliò quando percepì un crescente formicolio alle gambe e fitte lancinanti alle tempie. Aprì gli occhi, prima il destro e poi il sinistro, si guardò intorno. Riconobbe le sue ginocchia, il cardigan nero coi bottoni piccoli, le dita gonfie delle mani. Riconobbe il comodino con le immaginette dei santi patroni dentro una cornice di plastica dorata, l’abat-jour con la base di legno, il telefono digitale. La stanza odorava di tintura di iodio e salviette igieniche, non c’erano macchie sui muri, non c’era polvere sui mobili, lo scendiletto era allineato alle commessure del pavimento.

I soprammobili erano collocati sempre nella stessa posizione su centrini disposti secondo uno schema simmetrico, gli interruttori multipli della luce avevano tutti la stessa inclinazione, i quadri cadevano perfettamente a piombo e si susseguivano secondo un ordine cromatico che teneva, al centro delle pareti, i dipinti dai toni più scuri e, verso l’esterno, quelli dai toni più chiari.

La stanza le sembrò in ordine, ma le lenzuola sul letto facevano delle pieghe e non erano ben rimboccate sotto il materasso. Seguì le pieghe con confuso disappunto e vide le dita lunghe e affusolate di Agostino che arpionavano le lenzuola; poi vide la testa in una posizione insolita, poggiata contro il muro, le labbra che si ripiegavano verso l’interno della bocca, le guance infossate, gli occhi strabuzzati fissi verso la finestra, un ciuffo di capelli ingialliti che ricadeva spettinato sulla fronte. Marietta rimase immobile a guardarlo, ruotò lentamente i polsi e rivolse i palmi delle mani verso l’alto. Provò a chiamarlo, credette di parlare, ma spalancò soltanto la bocca. Cercò il telefono sul comodino tastando la superficie con una mano senza distogliere lo sguardo dal letto e schiacciò a memoria il tasto col numero preregistrato del medico. Teneva la cornetta con una mano e con l’altra stirava le pieghe sulle lenzuola schiacciandole contro il materasso, attenta a non sfiorare il corpo di Agostino. La linea era libera e lei trattenne il respiro nell’attesa di sentire una voce che rispondesse all’altro capo. Non la sentì, ma da qualche parte un impulso la spinse a parlare. Urlò al medico di correre, di sbrigarsi, almeno così credette, perché continuava a non sentire la propria voce. Riagganciò senza preoccuparsi se il medico fosse ancora in linea, se le avesse parlato e se lui l’avesse sentita, qualora lei avesse mai parlato. Si accasciò di nuovo contro lo schienale della sedia e fissò il tastierino numerico, il display blu che lampeggiava e indicava la durata della telefonata, la data e l’ora.

Le dita indugiavano ancora sulle pieghe delle lenzuola, le guardò e con la coda dell’occhio si accorse che i fratelli si erano precipitati nella stanza. Marietta li vedeva muoversi disordinati intorno al letto, aprire e chiudere la bocca, le sillabe strascicate che formavano parole. I loro visi vicinissimi al viso di Agostino si deformavano in smorfie e poi si allontanavano allungandosi in deformità grottesche. Le loro mani stropicciavano il corpo di Agostino e stropicciavano le lenzuola, la giacca del pigiama. I piedi rivoltavano lo scendiletto, scombinavano le ciabatte che erano allineate sopra. Uno di loro spalancò le tende, aprì del tutto gli scuri e una luce bianca abbagliante illuminò la testa di Agostino. Nel parapiglia un gomito urtò l’asta che reggeva la flebo. L’asta compì una rotazione ampia. Nessuno riuscì ad afferrarla. Nella caduta il tubo di gomma si tese e strappò la cannula dal braccio di Agostino. La flebo si schiantò sul pavimento sul quale si sparsero schegge di vetro e soluzione fisiologica. Marietta sussultò come se una delle schegge l’avesse colpita in mezzo agli occhi. Si guardò intorno e incrociò uno dei fratelli. Lo fissò, stupita di trovarlo lì, secco e alto, le spalle spioventi e la camicia spiegazzata. Le stringeva il braccio e la scuoteva. Le stava anche parlando. Le diceva che il prete stava per arrivare. Lei fece sì con la testa, si rassettò la gonna e rifece la coda ai capelli. Chiese sottovoce, più parlando a se stessa, se fosse opportuno che lei restasse per la benedizione della salma. Rispose subito che preferiva di no. C’erano cose che bisognava sbrigare prima che fosse troppo tardi. Scambiò uno sguardo col fratello, lui le indicò i cocci sul pavimento. Marietta contrasse le labbra e uscì dalla stanza. Non si accorse del prete che entrava e gli andò a sbattere contro. Non si fermò a salutarlo né ad ascoltarlo quando lui tentò di improvvisare una consolazione. Non erano gente di chiesa, il prete avrebbe dovuto saperlo. Marietta lo spostò di lato e lo superò.

La funzione fu breve e impacciata e quando il prete uscì dalla stanza incrociò di nuovo Marietta che aspettava dietro la porta. Tornò a parlarle, ma lei continuò a ignorarlo tenendo gli occhi bassi su una scatola rettangolare bianca. Fece uscire tutti dalla stanza e chiuse la porta. Dall’armadio tirò fuori un vestito perfettamente stirato, lo tolse dal sacco di plastica trasparente e un pungente odore di naftalina si unì a quello della tintura di iodio e delle salviette igieniche. Marietta ricompose il vestito sul servomuto, poggiò a terra, all’altezza dell’orlo dei pantaloni, la scatola rettangolare, tolse il coperchio e sfilò un paio di scarpe di vernice nera con le stringhe sottili, tenute in forma da fogli di giornale appallottolati. Uscì dalla stanza e rientrò con una bacinella di acqua tiepida e un pezzo di sapone alla rosa canina. A terra vide i cocci rotti della flebo, una piccola pozza di soluzione salina e rivoli di liquido che si perdevano tra le fughe delle mattonelle. Fece il gesto di uscire un’altra volta dalla stanza a prendere l’occorrente per pulire, poi sollevò lo sguardo. Il corpo rachitico di Agostino era composto. I fratelli lo avevano messo supino, la testa inclinata da un lato. Gli avevano chiuso gli occhi e la bocca e raccolto il lenzuolo sui piedi che avevano già assunto un colore livido.

Marietta rimase un istante a riflettere. Guardò a terra e di nuovo Agostino. Deglutì, inspirò e aggirò i cocci di vetro e la pozza di soluzione salina. Si avvicinò alla sponda del letto e poggiò sul comodino la bacinella dentro la quale galleggiava una spugna nuova. Toccò il corpo di Agostino con la punta dei polpastrelli. La pelle al tatto le sembrò avere la stessa consistenza della gommapane. Ritrasse le dita ed ebbe la sensazione che sui polpastrelli le fosse rimasta una traccia di unto. Li sfregò tra loro e li immerse nella bacinella per togliersi dalle punte quella sensazione vischiosa, poi lavò Agostino, lo pettinò e gli pareggiò i baffi con le forbicine di un piccolo kit che teneva nel primo cassetto del comodino. Sentì estraneo quel corpo che si lasciava manipolare senza opporre resistenza. Era uno sconosciuto che stava vestendo di blu notte e al quale tentava di intrecciare le dita sul petto. Uno con la pelle che cambiava colore e consistenza a vista d’occhio e di cui il sapone alla rosa canina non era riuscito a coprire un odore dolciastro che si intensificava. Marietta riacquistò familiarità solo quando gli calzò le scarpe e si accorse di stringere le stringhe così forte che avrebbe potuto spezzarle.

Agostino ci teneva alle scarpe. Se le era confezionate da solo, per l’occasione. Le aveva cucite a memoria e le aveva conservate con cura. A Marietta raccomandava di non appoggiare niente di pesante sopra per non schiacciarle, specialmente sulla punta. Gli serviva avere la rassicurazione che non lo avrebbero mandato all’altro mondo con un paio di scarpe qualsiasi.

Marietta allentò la presa. I lacci le avevano lasciato due segni rossi intorno agli indici. Si chiese cosa sarebbe successo se un laccio si fosse spezzato. Avrebbe potuto sostituirlo, in casa ne avevano sempre di scorta. Sentì una nausea salirle dalla bocca dello stomaco. Non poteva permetterselo e non sapeva se ne avrebbe trovato uno identico e comunque il laccio che avrebbe sostituito non sarebbe stato l’originale messo da Agostino. L’idea di seppellirlo coi lacci spaiati le fece salire un conato di vomito. Si portò una mano alla bocca e lo represse. Si avvicinò alla finestra, la aprì un poco e respirò con calma e profondamente. Poi ritornò ai piedi del letto.

Con l’indice arrossato seguì una cucitura, si accertò che i lacci fossero simmetrici e il nodo fosse uguale per entrambe le scarpe, aggiustò i piedi in modo che fossero dritti e le punte rivolte verso l’alto. Sentì appena che bussavano alla porta. Uno dei fratelli si affacciò, ma non entrò. Disse che l’impresario delle pompe funebri era arrivato, che aveva dei cataloghi da mostrare per la bara e gli accessori. Le chiese se volesse scegliere insieme a loro. Marietta lo guardò e sentì all’improvviso gli occhi farsi pesanti. Lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi e sovrappose le mani all’altezza del pube.

Mettetelo dentro quello che vi pare – disse con un tono di voce appena percettibile – È pronto. Fate attenzione alle scarpe.

Andò nella sua stanza e chiuse la porta a chiave. Le facevano male le spalle, le caviglie si contraevano in fitte intense e continue. Fece mentalmente l’elenco delle incombenze da sbrigare: la pensione, il libretto postale, saldare i debiti del gas e del pane, accudire i gatti, caricare la lavatrice con le lenzuola. Si sdraiò supina sul letto a guardare il soffitto dove da ragazza aveva appiccicato gli adesivi fluorescenti che riproducevano il sistema solare. Si sentì come uno di quei calchi di gesso che aveva imparato a riprodurre durante le lezioni di storia dell’arte. Se si fosse grattata la pelle con l’unghia, si sarebbe disintegrata poco a poco in piccole squame. Si ricordò dei cocci di vetro e della pozza di soluzione salina. Era sicura di esserci passata sopra uscendo dalla stanza e visualizzò le impronte lungo tutto il tragitto fino al suo letto. Ebbe l’impulso di verificare se le pantofole di feltro fossero inzuppate e se sulla suola si gomma si fossero attaccate le schegge, ma non si mosse. Il materasso aveva già preso la forma delle sue spalle ossute, dei glutei minuti, dei talloni appuntiti. Tra le cose da fare registrò che avrebbe dovuto pulire e si addormentò con le mani incrociate sul petto.

Foto originale di Romina Arena

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Romina Arena, educo alla lettura consapevole e alla scrittura creativa presso scuole, carceri, associazioni, università. Ho scritto “Leggete e moltiplicatevi. Manuale di lettura consapevole” (Rubbettino, 2019). Tengo corsi di formazione sull’animazione di laboratori di lettura consapevole e sull’utilizzo esperienziale e pedagogico della lettura e della letteratura come strumenti per la conoscenza di sé e il superamento dei conflitti di relazione. Su Spazinclusi ho pubblicato il racconto “Qualcuno da chiamare”. La biblioteca di Montag è il mio blog.

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