La prima volta era stata nel vecchio fienile.
Avevano appena fatto l’amore: Furio se ne stava supino con gli occhi socchiusi, mezzo addormentato. S’era seduta, aveva iniziato a tirare su le calze e riallacciare il vestito senza smettere di fissarlo.
«Sposami» aveva detto sicura.
L’aveva guardata con un sorriso di scusa.
«Rosina, il matrimonio non fa per me, sono uno spirito libero, mi conosci. Non le sopporto le catene, che siano d’un padrone o d’una moglie. Sei ancora così giovane. Vedrai che bella e brava come sei un marito lo trovi: uno serio, fedele, che ti merita.»
«E che m’importa d’uno che mi merita. È te che voglio.»
S’era alzata scuotendo via la polvere e le briciole di paglia, aveva raccolto le ceste con cui aveva portato il pranzo ai braccianti. Quello di Furio era ancora intatto, ignorato nell’urgenza di un’altra fame.
«Mangia qualcosa prima di riprendere a lavorare, o finisce che svieni.»
Aveva sorriso maliziosa passandogli l’involto, poi si era calata sulla scala a pioli.
«Sposami!» gli aveva intimato un anno dopo, durante un amplesso frettoloso, in piedi, la schiena appoggiata contro il muro del lavatoio, la faccia di lui affondata nei suoi seni caldi. Attimi rubati alla Patria e all’esercito che s’era preso Furio e tutti gli uomini giovani.
«Sposami!» aveva ripetuto tra i gemiti.
«Non posso, sono un soldato, non so nemmeno se vivrò. Ne parleremo se torno dalla guerra» le aveva sussurrato un attimo prima d’esplodere nel piacere.
Tornò. Con due dita in meno al piede sinistro, regalo della cancrena; ma la guerra poteva appioppare regali peggiori e lui non se ne lamentava. Riprese a lavorare alla giornata: stagionale nei campi, muratore, imbianchino, tutto quello che capitava. E continuò a far l’amore a Rosa.
Era consapevole di non essere la sola, che oltre a lei ne frequentava molte, anche maritate. Ogni tanto un legittimo consorte minacciava legnate o peggio e Furio partiva a cercare lavoro altrove, più lontano, anche fuori dai confini. Ma tornava sempre.
Lei aspettava, sgobbando senza un lamento e rifiutando uno dopo l’altro tutti i bravi giovanotti del paese. E quelli che venivano dai paesi vicini per domandare la mano della Rosina così bella, lavoratrice e seria.
«Prima o poi dovrai sposarti, figlia mia. Tutti i tuoi fratelli e sorelle hanno già una famiglia. E tu che, Dio mi perdoni, sei la mia preferita, stai qui a servire me e tua madre, a far da balia ai nipoti. Devi farti una vita tua, prender marito, un brav’uomo, che ti meriti» le ripeteva il padre.
Rosa accarezzava la mano rugosa del genitore e scuoteva la testa.
«È solo uno quello che voglio.»
Il vecchio stringeva i pugni vacillanti.
«Lo sai che è un farabutto, il Furio. Due mani d’oro e lavora sodo, quello sì. E la faccia d’un angelo. Ma con le femmine… Devi togliertelo dalla testa. Non è fatto per avere casa e moglie, uno così.»
La donna si stringeva nelle spalle e tornava alle sue occupazioni. Sapeva tutte quelle cose, certo. Ma era sicura di volere lui, e che ci sarebbe riuscita, prima o poi. Avesse dovuto impiegarci tutta la vita.
Il tempo passò e le proposte di matrimonio cessarono. Divenne la zitella del paese, ma senza pietismi né scherno: godeva d’un alone di rispetto, trattata come una sorta di santa, una vergine di ferro di quelle delle leggende che si raccontavano alle veglie. Ma non per Furio, che conosceva la passione annidata nell’anima e nel corpo di Rosa. Anima e corpo pronti ad accoglierlo ogni volta con rinnovato entusiasmo.
«Sposami» disse ancora, mentre nudi e sfiniti guardavano il soffitto della stanza in cui era cresciuta, in quella casa diventata sua alla morte dei genitori.
«Hai quarant’anni, ormai, non sei più fatto per vagabondare, non sei più un giovanotto. Sposami, resta qui a occuparti delle bestie e dei campi insieme a me. È dove devi stare.»
«Non son così vecchio, ancora, non ci voglio rimanere rinchiuso in una gabbia. Non ti ho fatto mai promesse, lo sai» rispose mentre con la mano le accarezzava un seno e poi più giù.
Rosa continuava ad aspettare le sue visite, a rimpiangere le partenze e celebrare i ritorni. Non aveva bisogno di riformularla ogni volta: la domanda vibrava nell’aria satura dei loro odori mischiati. Il fascino di Furio non sembrava appassire, continuava a saltare da un letto all’altro, senza perdere il sorriso o la voglia. Ma invecchiava, che lo volesse o no.
Forse per quello, o soltanto per un caso, rimase vittima d’un infortunio in un cantiere. Perse l’equilibrio e cadde dal primo piano ch’era intento a livellare. Due costole rotte e una gamba. Furono in tanti, amici e amanti, a fargli visita al letto d’ospedale, ma una sola era pronta a prenderselo in casa.
«Sposami. Ti ci vorranno mesi per rimetterti in piedi e anche allora chissà se potrai ricominciare la vita di prima. Sposami, mi prenderò cura di te e non ti chiederò nulla più di ciò che puoi darmi. Lo sai che nessuno ti ama quanto me.»
L’uomo scosse appena la testa, con una smorfia di dolore.
«Che te ne fai d’un invalido? Meglio che vada all’ospizio, cosa potrei darti? Nemmeno per il sesso son più buono, con quest’armatura. Vuoi farmi da infermiera? Meriti di meglio, Rosina mia».
«Non è il meglio che voglio. Sei tu.»
Tornò tutti i giorni a tenergli compagnia, far la lettura, aiutarlo a lavarsi e mangiare. Ripeté la proposta ancora e ancora fino a che disse sì.
«D’accordo. Se è ciò che vuoi, sposiamoci.»
Fu una cerimonia semplice: i fratelli di lei disapprovavano, i genitori non c’erano più, quelli di lui non c’erano mai stati. Il prete, il sagrestano e la perpetua furono testimoni e pubblico, insieme al fotografo, venuto dalla città su richiesta della sposa: «Lo voglio immortalare questo giorno.»
Indossavano i vestiti della festa, lo sposo dovette farsi prestare una giacca di due taglie più larga per riuscire a infilarla sul corsetto rigido. S’appoggiava al bastone da un lato, a Rosa dall’altro. Sorridevano, lei raggiante, lui con un’espressione irrisolta.
Furono mesi felici per la novella sposa: al rientro dai campi s’occupava del suo uomo, preparava la cena e gli faceva l’amore, ora che lui faticava a muoversi. Ridevano, parlavano, stavano zitti insieme.
«La fai sembrare bella, la prigionia, quasi benedico l’incidente,» diceva accarezzandole i capelli prima di dormire. Lei non s’illudeva, ma sorrideva lo stesso. Se ne occupò così bene che meno d’un anno dopo camminava già senza bastone, zoppicava appena. Ricominciò a lavorare nei campi e nella stalla. Riprese anche a uscire con gli amici. E a far visita alle amiche.
Rosa vedeva tutto ma alzava le spalle, ignorava i commenti delle malelingue e tirava dritto. L’unica cosa che le importava era che rientrasse sempre a casa da lei.
Si fecero vecchi tutti e due, ma Furio di più. Forse perché aveva cominciato a faticare che era bambino, forse per tutti i vizi che aveva coltivato, i letti visitati, le botte incassate.
Premurosa, lo accudì fino alla fine, quando non poteva più lasciare il letto e parlava con un filo di voce che solo lei sapeva decifrare.
«Non mi spiego perché hai voluto sprecare il tuo tempo con me, Rosina, davvero. Ma ti ringrazio» sussurrava.
Erano sdraiati una accanto all’altro anche la mattina in cui lui non riaprì gli occhi.
Lo accarezzò piano, baciò la pelle fredda e s’alzò. Prese il caffè senza zucchero come ogni giorno e una fetta di pane bianco con la marmellata; poi telefonò al dottore e al prete. A quest’ultimo, oltre alla messa funebre, comandò un loculo doppio al cimitero.
Dovette aspettare ancora qualche anno prima di poterne approfittare, ma quando venne il momento, aveva lasciato scritte tutte le istruzioni per esser seppellita come aveva deciso. Anche la foto per la lapide ben riposta tra le istruzioni.
Sono passati tanti anni, in paese sono rimasti in pochi e di quei pochi quasi nessuno ricorda più Rosina e Furio. Solo il guardiano del camposanto passa fedele a pulire e salutare la tomba dove riposano insieme per sempre. Dalla cornice di marmo grigio, però, i loro volti sorridono ancora, appena ingialliti dal tempo: Rosa è radiosa, un’espressione di gioia trionfante sul viso emozionato; Furio ha gli occhi sgranati, sulla bocca un mezzo sorriso che pare una dichiarazione di resa felice, quasi a dire: «Ha vinto lei».
Immagine d Ghozt
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Marezia Ori, cresciuta fra la via Emilia e il west, vivo nel sud della Francia. Freelance, mi occupodi traduzioni, creazione di contenuti, correzione testi, ghost-writing. Nel tempo libero… più o meno lo stesso. Alcuni dei miei racconti sono apparsi su siti e riviste come Blam!, Piccoligrandisognatori.com, Piegami, Spazinclusi, di cui sarò, per un anno, autrice aggiunta.