1.
– Si spieghi dunque, mi faccia capire.
– Ha cominciato come un pensiero fisso, dottoressa, come un senso di schifo che si va spargendo addosso, tra pelle e vestiti. Una specie di… dissonanza, ecco, di sincope fastidiosa, alla maniera di quelle musichette irritanti che non puoi fare a meno di fischiettare.
– Vada con ordine, per favore. Si rilassi e cerchi di essere chiaro.
– Un tic del cervello, dottoressa, un… singhiozzo neuronale, martellante, insopportabile. All’inizio con la frequenza di qualche minuto; poi via via sempre più spesso, anche a distanza di secondi. Una cosa estenuante, mi creda.
– Quando sono comparsi i primi sintomi?
– Un paio di mesi fa.
– E non le era mai capitata una cosa del genere?
– No, dottoressa, non che io ricordi. Non così, perlomeno.
– Ha provato a distrarsi, a fare sport, a tenere la mente impegnata in altre attività?
– Sì, ma è servito a poco. Ho anche provato a dirottare i pensieri verso qualcosa di rassicurante, ma dopo un po’ mi sono accorto che era inutile affrontare il problema come un cattivo pensiero da scacciare.
– In che senso? Si spieghi meglio.
– Nel senso che dopo qualche giorno il contenuto di questo pensiero si è via via eclissato, sbiadito, quasi scomparso. Spesso mi pare anzi di averlo persino dimenticato. Però l’incaglio è rimasto, come un automatismo perverso, un rumore bianco che si alza di volume a intervalli irregolari ma brevissimi. Come un verme solitario che si nutre di materia grigia e, una volta inoculatosi, infesta gli altri pensieri e li fagocita, e quando non ci riesce li ingombra fino a schiacciarli contro le pareti del cranio. Mi perseguita, dottoressa, come un ospite sgradito fradicio di sudore e affetto da lipomatosi, che si ingozza delle sue stesse feci sulle mie lenzuola ancora fresche di ammorbidente. Resta e non se ne va, non se ne vuole andare.
– Stia calmo, non si agiti. Devo dirle intanto che lei usa troppe metafore, troppi “come”. Il che a mio avviso tradisce due cose: una è senz’altro la smania di dare un nome, una veste riconoscibile a questo suo malessere; l’altra è che esso, nonostante i suoi febbrili tentativi in tal senso, non si lascia circoscrivere in una forma definita. Non mi ha detto, però, una volta che questo pensiero ha perso il suo contenuto iniziale, sotto quale altro contenuto è venuto presentandosi?
– Il fatto, dottoressa, è che dopo un po’ ha perso qualsiasi contenuto, è diventato pensiero di se stesso, cioè pensiero che ha come contenuto se stesso, che a sua volta è pensiero privo di contenuto. Mi segue? Come una sorta di meta-pensiero, un frattale della mente, refrattario a quelle che lei chiama metafore e che, in funzione del “come”, dovrebbe invece chiamare similitudini. Ha presente, per dire, l’immagine restituita da una telecamera allo specchio?
– La prego di frenare la sua immaginazione o rischiamo di fraintenderci. Mi dica piuttosto, ha riflettuto su quale può essere la causa scatenante dell’affacciarsi di un pensiero così assiduo?
– Mi perdoni se glielo faccio notare, ma ora anche lei ha usato una metafora. “L’affacciarsi di un pensiero” è, questa sì, una metafora. Congelata, o “frozen”, come direbbe un certo Lakoff, ma pur sempre una metafora. Comunque sì, al principio me lo chiedevo. Mi ero anche dato una risposta. Una risposta che non mi ha mai convinto ma che continuava a sembrarmi l’unica plausibile, e cioè che fosse il fatto stesso di non volerci pensare a farmelo venire alla mente. Un po’ come se ogni cinque secondi qualcuno le dicesse, per citare di nuovo Lakoff, di “non pensare a un elefante”.
– Uhm… Ma poi cos’è successo, perché ha smesso di chiederselo?
– Perché da un certo momento in poi la domanda non ha avuto più senso.
– Si spieghi meglio.
– Ci provo, dottoressa, ma senza metafore o similitudini è difficile. Per cui mi perdoni ma dovrò continuare a usarle. La domanda ha perso senso dal momento in cui l’elefante si è talmente ingigantito che ha preso totale possesso della mia mente, invaso per ipertrofia ogni mia sinapsi. Non posso non pensarci, perché non pensarci equivale esattamente a farlo, capisce? Come una spirale autoreferenziale, capace di alimentarsi da sé senza che alcuna forza di volontà potesse intervenire per fermarla. È il fatto stesso di avere un cervello e di essere presente a me stesso a farmi avvertire la sua presenza come fissa, disturbante, quasi fosse una forza di gravità dell’antimateria.
– Aspetti, procediamo con ordine: questo suo “elefante nella testa”, le concedo la metafora, quali ricadute ha sul suo stato d’animo?
– Non ha ricadute sul mio umore, né sulla mia vita sociale. Non disturba la mia sfera emozionale, non genera ansia, non mi toglie il sonno. Non fa niente di tutto questo, tranne che per il fatto di farmi sentire costantemente estraneo a me stesso. Come un elefante intrappolato nel cervello, appunto, una minaccia silenziosa che incombe su ogni ticchettio del mio presente, su ogni fantasia o ragionamento, su ogni tentativo di concentrazione. Intercalare tra tutti i possibili stati mentali, primo pensiero al risveglio e ultimo prima di prendere sonno. Solo quando mi addormento scompare, come se avesse a che fare col solo pensiero cosciente e non anche con l’inconscio. Ma io so che rimane là per tutta la notte, in agguato, paziente come gli occhi di una civetta appollaiata sul davanzale. Un mostro inoffensivo, insomma. Un malessere innocuo ma martellante, ipertrofico ma insopportabilmente neutro.
– Dunque lei non si ritiene in qualche modo “malato”, “ansioso” o, peggio, “depresso”?
– Non più di tanto, dottoressa. Ma neanche meno di quanto sia bastato a convincermi a venire qui da lei.
– Eppure leggo dalla sua cartella clinica che tempo fa le è stato diagnosticato, testualmente, “un disturbo ossessivo-compulsivo di grado lieve, in comorbilità con tratti maniaco-depressivi”.
– Sì, è perché una volta da ragazzino conficcai un pastello fucsia tra le nocche di mia sorella più piccola. Mia madre mi portò in visita da un neuropsichiatra che, dopo una interminabile serie di test e incontri, non trovò di meglio che diagnosticarmi questa cosa. Seguii un percorso di psicoterapia, breve in verità, ma la diagnosi non ha mai avuto riscontri. Come nemmeno il sospetto, che il neuropsichiatra continuava a nutrire, che avessi fatto la punta alla matita appositamente per usarla come arma.
– E aveva ragione?
– No… cioè, io la punta al pastello la feci perché era spuntato.
– Uhm… e perché fucsia?
– Come?
– Prima lei ha detto, di sfuggita, che il pastello con cui ha colpito sua sorella era di colore fucsia, come se il dettaglio avesse una sua importanza. Ce l’ha?
– No… cioè non per me.
– E per chi?
– Per lei, per mia sorella.
– Ah, in che senso?
– Era il suo colore preferito.
– Capisco. E mi dica, come definirebbe la sua infanzia?
– Non saprei, dottoressa, abbastanza normale. Il solito paio di amichetti bastardi, ottimi voti a scuola…
– Il suo primo ricordo?
– Le piastrelle della camera di mia zia, quando ancora viveva con noi. Una cosa oscena, dottoressa, un’ossessione che mi ha accompagnato per anni. Me le sognavo ogni notte.
– Me le descriva.
– Un motivo quadrettato ripetuto allo sfinimento, rettangoli e rombi che si sovrapponevano in maniera spigolosa, snervante, con gradazioni diverse di un colore solo.
– Quale? Fucsia per caso?
– No… cioè non saprei, non credo di ricordarlo. Erano diverse sfumature…
– …di un colore solo.
– Sì, ma… è il mio primo ricordo, dottoressa, e i colori, come sa, si confondono nella memoria.
– Strano, perché dalla sua descrizione mi è parso che lei serbi un ricordo piuttosto vivido di quelle piastrelle.
– Della forma, non del colore. Sa, il ricordo si è poi distorto anche per via dei sogni ricorrenti, degli incubi che ne facevo. Senza contare che la stanza fu completamente ristrutturata quando mia zia si trasferì, e io facevo ancora le elementari.
– Comunque sia il colore del pastello con cui ha colpito sua sorella, quello sì, lo ricorda bene. E ho ragione di pensare che la scelta non fu del tutto casuale. Il che vuol dire in qualche modo che il suo gesto ebbe una sua pur minima premeditazione. Dico bene?
– Cosa vorrebbe insinuare?
– Niente, non la sto accusando, stia tranquillo. Sto solo cercando di capire. Lei però, da parte sua, dovrebbe aprirsi su tutto, anche su questo, se vuole che la terapia funzioni. Ma andiamo avanti, dove eravamo rimasti? Ah, ecco, mi dica: in questo preciso istante, ci sta pensando al suo “elefante”?
– Non è che ci sto pensando, dottoressa, piuttosto è lui che pensa me. Ma se anche riuscissi a non pensarci per un attimo, l’istante dopo starei già pensando di non averlo fatto.
– Uhm…
– Senta, lasciamo perdere, forse sono io che non…
– Ma no, scherza? Lei è qui per parlare, per aprirsi. Il che, mi rendo conto, può non essere cosa facile. Per cui si prenda il suo tempo e cerchi pure le parole con calma.
– …
– Mi ascolta? Cosa sta guardando?
– Niente, mi scusi, ho solo notato il suo elefante…
– Il mio cosa? Ah, certo, il soprammobile. Sì, è un souvenir. Ci tengo molto, è il mio… ehm… sì, insomma, pare che sia un portafortuna. Ma non si distragga, continui. Se non le dispiace, anzi, provi a ripartire dall’inizio.
– Sì, dunque: ha cominciato come un pensiero fisso, come un senso di schifo che si propaga dappertutto e si appiccica addosso, una specie di…
2.
– Ho seguito i suoi consigli, dottoressa, e forse va un po’ meglio.
– Forse?
– Voglio dire che il “meta-pensiero” è ancora là, ma non ha più fattezze elefantiache. Si è sgonfiato, e ora è più simile a un che di molliccio, a un ectoplasma capace di assumere ogni sembianza, di mimetizzarsi, diluirsi e ricondensarsi in un qualsiasi stato mentale. Una sorta di “Ubik” cerebrale, ha presente? Però, dottoressa, come ha scritto lo stesso Dick, “Ubik è innocuo se usato secondo le istruzioni”.
– Uhm… interessante, continui.
– Come un meme di Dawkins, insomma, o come… un polipo, ecco, con i tentacoli retrattili e le ventose avvinghiate ai neuroni, innervate al reticolo delle sinapsi.
– Bene. Direi che, al netto delle sue metafore, abbiamo fatto dei passi in avanti. Ma mi dica, come è giunto a questo punto? Quali sono stati gli stadi intermedi tra “elefante” e “polipo”?
– Sulle prime ho cercato, come lei mi aveva suggerito, di avvicinarmi all’elefante senza averne timore, di tentare l’approccio come si farebbe con un animale da domare, da ricondurre al recinto. Di accarezzarlo, se ci fossi riuscito.
– E com’è andata?
– Ebbene, con mia sorpresa si è lasciato avvicinare. Più mi avvicinavo, anzi, e più i suoi occhi si facevano dolci, affabili, melensi. Me ne sono lasciato ipnotizzare. Gli ho sorriso come si sorride a un destino avverso ma in fin dei conti accettabile, come, non so, all’entropia dell’universo o alla morte sulla soglia dei novant’anni. E d’un tratto ho avuto la certezza che non avrebbe potuto farmi alcun male, che non dovevo più considerarlo come un corpo estraneo o un’escrescenza maligna, ma come controparte di me. Non più una nemesi, piuttosto un alter-ego…
– Vada avanti, la seguo.
– E così l’elefante ha cominciato a rimpicciolirsi. Un po’ come il suo souvenir portafortuna, lì sulla mensola. Prima è diventato mucca, poi pecora, poi gallo, pulcino. Un animale domestico, insomma, da allevamento. Non casalingo, quello ancora no. Un che di estraneo è rimasto in fondo alle sue pupille. Uno sguardo docile, ma privo di complicità. Con dentro un cieco, stupido istinto di sopravvivenza. Non pericoloso come può esserlo un predatore carnivoro, no: soltanto lo sforzo di conservare se stesso senza arrecare danno a tutto il resto. Mi capisce, dottoressa?
– Credo di sì, continui.
– Poi, sempre seguendo il suo consiglio, ho cercato di canalizzare questo istinto in qualcosa di vitale, di positivo. Non che ci sia proprio riuscito, ma credo di aver ridimensionato almeno la minaccia, l’ombra che essa proiettava in me. Il tumore non è diventato benigno, ma neanche maligno. E sembra iniziata una specie di convivenza pacifica, come se l’ospite sgradito fosse adesso un coinquilino e avesse cominciato a pagare le bollette, l’affitto, a cucinarsi e a sciacquare i piatti, a passare ogni tanto lo straccio in bagno.
– Bene, molto bene. Il problema però, mi pare di capire, è che lei desidera ancora vivere da solo, che vuole ancora dare sfratto a ciò che continua a percepire come un intruso.
– Questo è vero…
– Il problema anzi, mi lasci dire, consiste proprio nel fatto che lei continua a vederlo come tale, invece di mostrarsi gentile, accomodante.
– Certo, perché non credo che per liberarsi di un ospite occorra farlo sentire, malgrado tutto, a casa propria.
– Ecco, appunto. Dei passi avanti li ha fatti, però, e me ne rallegro. Vada avanti così: continui a fare amicizia con quest’ospite, gli consenta di riporre in lei tutta la sua fiducia. Ne abbia anche lei, spalanchi le porte, faccia spazio dentro di sé.
– Ci provo, dottoressa. Non vorrei però averla contagiata con le mie metafore, già che anche lei ne sta usando a bizzeffe.
– No, non si preoccupi. Le uso per venirle incontro, per parlare la sua stessa lingua. Presto comunque capirà che l’ospite non è un estraneo, bensì qualcosa che le appartiene. Soprattutto, si convinca che lei è più forte di quanto crede. Può anche aiutarsi con queste, se vuole…
– Cosa sono?
– Pillole.
– Di che genere?
– Lepraxil, è un inibitore selettivo. Gliele prescrivo, direi che fanno al caso suo.
– Lo spero, dottoressa, ma temo che sarà come voler afferrare un’anguilla per la coda. Le sembianze del polpo sono ormai tali da sgusciare in ogni dove, e il tentativo di dargli una forma sta producendo proprio la perdita di tutto ciò che può definirsi, per l’appunto, “una forma”. Tant’è che, come le dicevo, non ne ha più alcuna. Come se il suo istinto di sopravvivenza avesse intuito che lasciarsi imbrigliare in un’immagine sarebbe come entrare in gabbia, cadere in una trappola da me tesa per tenerlo sotto controllo, prima di sbarazzarmene definitivamente. E ha finito quindi per abbandonare ogni sembianza, come una serpe che cambia pelle senza vestirne una nuova. Di trasformazione in trasformazione, ha finito per trasfigurarsi. È “Ubik” adesso, qualcosa di “ubiquo”…
– Certo, ma poco fa lei stesso, citandone l’autore, ha detto se non erro che “Ubik è innocuo se usato secondo le istruzioni”. Per cui segua le mie, e non si preoccupi. Prenda le sue Lepraxil, non più di due volte al giorno, e torni qui la settimana prossima.
– Grazie, dottoressa. Volevo solo chiederle, prima di andare via, se mi lascia vedere più da vicino il suo elefante.
– Il souvenir, dice?
– L’elefante, sì, lo chiami pure col suo nome.
– Dell’elefante ha solo vagamente la forma, ma a tutti gli effetti non lo è. Voglio dire, è un pezzo di ceramica, o di resina, mi pare, ma… cosa fa adesso? Faccia piano, la prego, ci tengo molto.
– Non è di ceramica, né di resina: è d’avorio. E questo sa cosa vuol dire? Che in principio era davvero un elefante, un elefante in carne e ossa.
– Ah be’, in tal caso… resta il fatto che non lo è più.
– Lei, dottoressa, sa cos’è una sineddoche?
– Cosa c’entra adesso?
– Risponda, per favore.
– La sineddoche è… una figura retorica, mi pare. Non proprio una metafora, ma…
– La sineddoche è il menzionare una parte per designarne il tutto. Quindi, in un senso per niente figurato, questo souvenir lo è.
– Ho capito… adesso però lo rimetta al suo posto, per favore.
– Io rimetto sempre le cose al loro posto. Non c’è oggetto a casa mia che non ne abbia uno suo. Lo stesso da anni. È solo che, non so, me ne sento come attratto… Posso chiederle, se non sono indiscreto, se è un regalo?
– Sì, di mio fratello, me lo ha portato l’anno scorso da un viaggio in India. Pare che laggiù abbia una forte valenza religiosa.
– Sì, per gli indù è un animale sacro. La proboscide all’insù è segno di prosperità, di buona sorte.
– …
– …
– Ehm… cos’altro c’è?
– È strano, dottoressa, ho appena avuto come una sensazione di déjà-vu.
– Devo ricordarle, in ogni caso, che la seduta è terminata. Ecco, prenda la sua ricetta. E segua attentamente le indicazioni, mi raccomando.
– Certo, seguirò le “istruzioni”, non si preoccupi. Grazie ancora e arrivederci.
– Grazie a lei, alla prossima.
3.
– Ottime notizie, dottoressa. Da un po’ di giorni va molto meglio.
– Bene, sono felice per lei. Ma si accomodi, mi faccia capire: come si è evoluta la situazione?
– Dunque: dopo qualche giorno dall’ultima seduta ho iniziato ad avvertire come una… “sublimazione” dal mio problema, come se avessi acquisito la capacità di guardarlo dall’alto, dall’esterno. Come se, in qualche modo, la cosa non mi riguardasse più. Non so se grazie alle sue pillole, ma a un certo punto ho creduto di avere tra le mani la chiave per accedere a una dimensione che chiamerei “trascendentale”, uno stato di “appercezione”, anche se non propriamente in senso kantiano. Mi capisce, dottoressa? Un salto quantico verso un livello superiore dell’autocoscienza.
– Uhm… vada avanti.
– Un po’ come la “teoria dei tipi” di Russell, grazie alla quale egli risolse il paradosso che stava facendo impazzire il suo maestro Frege: bastava analizzare la questione da un gradino più elevato e…
– Non indugi in divagazioni, la prego. Stia sul pezzo e continui a raccontarmi i suoi progressi.
– Sì. Forte di ciò, insomma, ho avuto finalmente una comprensione imparziale della situazione. E al contempo si è aperta in me una via d’accesso al vuoto, alla totale mancanza di senso che giace dietro le quinte delle nostre vite. Della mia, perlomeno. Un vuoto avvolgente, nient’affatto vertiginoso. E d’un tratto il mio problema ha perso ogni importanza, tutto intorno a me ha perso importanza, me stesso compreso. Ma non horror vacui è stato ciò che ho avvertito. Qualcosa di più simile, credo piuttosto, al “nirvana” buddhista, una serenità sopraggiunta per avere smascherato l’illusione quotidiana della coscienza. Da “meta-pensiero” a “non-pensiero”, insomma. Pensandolo, io lo “non-penso”. Che è diverso dal non pensarlo. Mi segue, dottoressa?
– Cerco di starle dietro. Devo dire però che, ironia della sorte, quasi rimpiango le sue metafore più ardite. Se non altro mi fornivano delle immagini attraverso cui visualizzare il problema. Oggi invece il suo discorso mi suona più astratto delle altre volte. Come mai? Me lo sa spiegare?
– Credo sia appunto perché ho imparato ad affrontare la questione dal di fuori, da una prospettiva più consapevole. Non mi servono più metafore, dottoressa. Meta-metafore, semmai. Ma sempre meglio che tutti i polpi e gli elefanti con cui ho dovuto combattere!
– Però insisto: riuscirebbe a descrivermi meglio questo “non-pensiero”, anche magari ricorrendo alle sue vecchie immagini? Lo so, può sembrare una richiesta strana, da me che ho sempre disincentivato i suoi voli pindarici. Però, ecco, come le dicevo l’ultima volta, è per me un buon modo di venirle incontro. E, già che il suo problema si è posto fin dall’inizio in questi termini, m’interessa capire come queste immagini mentali si siano trasformate, evolute in lei.
– Direi allora che il polpo si è spolpato, dottoressa, che “Ubik” si è sciolto, decomposto, micronizzato.
– E l’ospite, il coinquilino?
– Con lui è nato un ottimo rapporto d’amicizia, una convivenza serena, pacifica: ceniamo insieme, prendiamo il caffè la mattina, ci dividiamo le spese. E sento ora di averne bisogno. Non è più che rimanga, la mia paura, ma che se ne vada. Lui veglia su di me, e voglio che continui a farlo. Voglio che la civetta non voli più via dal davanzale. Come una dipendenza, dottoressa…
– Capisco, continui.
– …
– Ma… cosa guarda? Non mi dica che sta fissando di nuovo il mio soprammobile.
– Il suo elefante, dottoressa. Perché si ostina a non volerlo chiamare col suo nome? E comunque sì, è più forte di me. Già che siamo in tema, anzi, sa cosa mi è venuto in mente?
– Cosa?
– Il “rinoceronte sotto il tavolo” di Wittgenstein. Ha presente?
– Ehm… no, non…
– Mi riferisco a un confronto tra il Russell di cui le ho detto e Ludwig Wittgenstein, allora suo giovane allievo, il quale si rifiutava di ammettere, contravvenendo il maestro, che nell’aula dove si trovavano a discutere non si trovasse un rinoceronte. Come me col suo elefante, capisce? Anch’esso, non a caso, un pachiderma…
– E quindi? Dove vuole arrivare?
– Da nessuna parte, dottoressa. Mi è sembrato curioso e gliel’ho fatto notare. Peraltro, come Russell col suo maestro Frege, anche Wittgenstein smentì a sua volta Russell, invitandolo a guardare il tutto da una prospettiva diversa. Come io adesso sto invitando lei a guardare il mio stesso problema da un’angolatura differente, trascendentale. O, se preferisce, meta-metaforica…
– Mi spiace ma non la seguo più.
– In altre parole, dottoressa, vorrei che lei prendesse atto del fatto che un pachiderma, e nella fattispecie un elefante, il suo elefante, esiste in questa stanza, non meno di quanto esso sia il correlativo oggettivo di un problema, il mio, che per fortuna sembra volgere per il meglio.
– Mi rallegro dei suoi miglioramenti, ma temo di non capirla. E mi scusi se glielo chiedo: è sicuro di non avere esagerato col Lepraxil, di averlo assunto nelle giuste dosi?
– Cosa crede, che non mi sia attenuto alle “istruzioni”?
– No, per carità, era solo per accertarmi che…
– Per chi mi ha preso, per un tossicomane?
– Stia calmo, la mia era solo una domanda.
– Allora gliela faccio anch’io una domanda: per caso crede che i miei siano i deliri di un folle?
– No, non lo credo affatto. Tuttavia, vista la situazione, credo di doverle sospendere per un po’ la somministrazione dei farmaci.
– Cosa? No, dottoressa, lei non può farmi questo.
– Invece sì, mi scusi. È mio dovere evitare l’insorgere di una eventuale, ripeto eventuale, dipendenza e verificare quanto la sua mente sia effettivamente in grado di…
– La mia mente sta benissimo. È guarita, non è mai stata meglio!
– Si dà il caso che sia stato lei a rivolgersi me, non io a…
– Lei non sa cosa vuol dire per me essermi rivolto a lei. Lei non sa niente, dottoressa, lei non sa un cazzo di niente!
– Moderi i toni, per la miseria! E stia seduto, dove va?
– …ma sa, dottoressa, forse ha ragione lei. Forse ha sempre avuto ragione lei, e io non sono che un povero sfigato, un tossicodipendente incapace di regolarsi con i suoi psicofarmaci.
– La prego, la smetta di…
– Forse aveva ragione lei quando lamentava il mio eccesso di figure retoriche. Da ipermetaforismo, ecco da cosa sono affetto. Sarebbe questa la diagnosi più corretta. E forse, dottoressa, forse aveva ancora ragione lei quando poco fa mi ha invitato a usarle di nuovo, le mie metafore. Per “venirmi incontro”, certo, per “parlare la mia stessa lingua”. Come se la cosa potesse davvero mettermi a mio agio, o magari compiacermi. Eppure forse non c’è altro modo per risolvere il mio problema, perché è esso stesso metafora di qualcos’altro, no?
– Si segga, per favore, e la smetta di parlare in questo modo.
– Di metafore, dottoressa, ecco di cosa ho bisogno. Di buone metafore, altro che psicofarmaci. Perché quella che sto combattendo, in fondo, non è che una partita a scacchi dove ogni pedina, ogni mossa è metafora di se stessa. Una partita che non potrei mai vincere finché l’avversario che ho di fronte è dentro di me e quindi sa, vede e prevede ogni mia mossa. Chi lo dice, anzi, che non sia lui stesso a suggerirmi la strategia da seguire per neutralizzarla un attimo dopo? E chissà che non sia stato lui a voler essere meta-pensiero, elefante, civetta, ospite, polpo, non-pensiero, similitudine, metafora e meta-metafora di se stesso!
– Glielo chiedo per l’ultima volta: torni a sedersi, si calmi e cerchi di ragionare.
– Entrando, prima, le ho detto che va meglio, che sono in via di guarigione. Ma chi lo dice che non sia stato lui, l’ospite, il parassita, ad avermi fatto parlare così? Chi lo dice che non sia lui a illudermi di essere guarito per manipolarmi meglio, quando poi non sono che uno zombie, un automa al suo servizio? Come le spore di certi funghi col corpo delle formiche nella foresta pluviale, ha presente? A differenza di un tumore qualsiasi, però, questo non arriverà mai alla metastasi finale, perché, grazie all’intelligenza di cui s’è impossessato, cioè a dire la mia, sa che uccidendomi ucciderebbe anche se stesso. E allora mi tiene sulla soglia, mi dà l’impressione di stare bene. Io questo l’ho capito, dottoressa, l’ho capito eccome!
– Lei sta vaneggiando. Ritorni in sé, non è questo il modo di…
– E quale sarebbe allora “il modo di”? Me lo dica, avanti!
– …
– Sa, dottoressa, qual è il suo problema? Che non ha mai preso in considerazione l’idea che la sua scienza possa essere anch’essa un castello di metafore, che le sue “istruzioni” e i suoi dannati farmaci altro non siano che un intruglio sintetico di metafore. Sa cosa le dico? Che può tenersele, le sue pasticche. Gliela do io anzi una “istruzione”: le usi pure come supposte e se li ficchi su per dove sa. E senza metafora, stavolta!
– Adesso è troppo! La smetta, per la miseria!
– La smetta lei, con le sue frasi insulse e insignificanti. Mi dica, è ancora convinta che non esiste un elefante in questa stanza? È ancora convinta che non ce ne sia uno proprio qui tra le mie tempie? Davvero crede che le metafore non esistano? Si prepari, allora, perché sto per darle prova tangibile della loro realtà. Le mostrerò come anche una sineddoche, come un pastello fucsia, può diventare all’occasione un’arma contundente.
– Cosa?! Si fermi, lei è pazzo!
– Sì, dottoressa, può dirlo forte! Ecco finalmente una verità uscitale di bocca! Prhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprh! Sente che barrito? Sente la forza eburnea che ancora sprigionano queste zanne? O preferisce chiamarle meta-zanne, così, tanto per “venirmi incontro”?
– Posi quel coso, immediatamente!
– Stia tranquilla, dottoressa, lo rimetto subito al suo posto. Lo faccio sempre: sempre. Giusto il tempo di farle capire quanto può fare male una figura retorica, nella testa e sulla testa!
– Si fermi, per la miseria! Esca subito dal mio ufficio o chiamo la sicurezza!
– Non vede l’allegoria, dottoressa, l’esercito di metafore e meta-metafore venute in marcia a farle sanguinare il cranio, a farle crollare ogni certezza?
– Lei… lei è…
– Lo dica, sì, lo dica forte! Prhprhprhprhprhprhprhprhprh! Sono pazzo, dottoressa, pazzo! Prhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprh! Ma… chi siete voi? Che volete? Lasciatemi! Io non… Prhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprhprh!
Foto di copertina di Pixabay
*****
Agostino Arciuolo è irpino trapiantato a Bologna, dove vive e insegna da qualche anno. Laureato in Filosofia, è autore tra le altre cose di un saggio sul cinema di Herzog (con la fondazione Ente dello Spettacolo), di un diario di viaggio (con la Delta 3 Edizioni), di un romanzo dietro pseudonimo (uscito a puntate sulle pagine web di Carmilla) e di alcuni racconti (uno dei quali apparso sul litblog CrapulaClub). È in trattativa per la pubblicazione del suo primo romanzo cartaceo.