Illustrazione di Francesca Galli

Domani non è oggi

Oggi. Conta solo oggi.

Piccoli passi, un giorno alla volta, dicono tutti.

Riapro gli occhi e il soffitto sembra allontanarsi da me, poi penso che dovrò alzarmi, lavarmi, vestirmi, uscire, e non solo oggi ma anche domani, dopodomani, venerdì, e ancora… e il soffitto adesso si avvicina, è sempre più basso, posso vedere le piccole crepe dell’intonaco ramificarsi fino a confondersi e allora… no, oggi, solo oggi, non esiste domani, sono tutti degli oggi.

Mi giro su un fianco e mi tiro su lentamente per non far riaffiorare quella sensazione di svenimento che mi prende se mi tiro su di scatto. Piano, io devo andare piano. Le ciabatte si sono scostate dal letto, allungo i piedi e le infilo. Ho già l’affanno. Entro in bagno e guardo me stessa allo specchio: dovrei sistemare le sopracciglia, togliere la ricrescita e decidermi ad andare dal medico a controllare i nei. Troppe cose da fare. Mi gira la testa e appoggio le mani al lavandino. Oggi, che devo fare oggi? Turno di mattina, sei ore in cuffia ad ascoltare lamentele, richieste, problemi. Sempre problemi. E Cinzia, la responsabile, si è accorta che ultimamente sono più lenta, lo vedo da come mi guarda. Ancora non ho sentito rimproveri, non più del solito almeno, ma secondo me trama qualcosa, forse stanno pensando di… no, oggi, non domani, non la scadenza del contratto, quella è lontana, non è domani e soprattutto non è oggi, quindi non conta.

Bagno, vestiti, colazione, denti, metro, lavoro. Vai Paola, ce la puoi fare. Se lo fanno tutti gli altri, non è difficile. Ce l’hai fatta ieri, ce la farai oggi. Ecco, un po’ a ieri ci si può guardare, ma solo se mi dà conferme, dice il dottore.

Prima di uscire do l’acqua alla pianta. Me l’ha regalata Luca – il mio vicino di postazione – uno dei pochi motivi per cui andare a lavoro sembra avere un senso, oltre allo stipendio, misero, che arriva sempre più tardi. Prima erano sguardi e sorrisi, poi al mio compleanno è arrivata la pianta, e da allora darle acqua è una delle ragioni che mi tira su dal letto nei giorni liberi. Lei non deve morire, Luca ci rimarrebbe male e io sentirei un senso di colpa fortissimo che mi schiaccerebbe più dell’ansia, più della paura, più di tutti i domani che mi si affastellano nella testa quando sono sveglia. Se la pianta morisse per colpa mia mi sentirei peggio della volta in cui ho detto a mia madre che lavorare nella banca dove stava lei mi faceva schifo, perché io la sua stessa vita non l’avrei fatta. Peggio di quando ho riso mentre mio padre mi diceva che avrei sempre avuto un piano B e sarebbe stato quello di lavorare nel suo negozio.

Appena esco dal palazzo il respiro si accorcia. Fingo di dare la colpa allo smog mentre l’entrata della metro mi inghiotte e mi trattiene insieme alle facce grigie e rintronate che si affannano verso i rispettivi lavori, poi mi sputa fuori al capolinea e torno a respirare regolarmente. Dura un attimo. Vengo assalita da tutti i dubbi del mondo su come ho lasciato casa, se avrò dimenticato di dare tutte le mandate alla porta, se per caso mi sia distratta quando ho tolto il caffè dal fuoco e abbia lasciato il gas aperto… manciate di scene sfocate si sovrappongono nella testa, cerco quella giusta, quella vera tra tante bugie ma niente, ormai ho riscritto la storia e sono tutte uguali. Mi piego sulle gambe, chino la testa a guardare il pavimento e inizio a iperventilare. Inizio a piangere, in silenzio. Un passante mi urta e riemergo. Con la manica del maglione mi asciugo gli occhi ringraziando di non aver messo nemmeno quel poco di trucco che a volte rieco a indossare nei giorni buoni. Seguo il passante che mi ha riportata qua, come fosse una faccia amica, una guida verso la luce, fino a vederlo sparire in una traversa. Io devo proseguire, il lavoro sta lì, in quel palazzo fatto di vetri che riflettono un cielo terso che non guardo mai.

E allora entro, io entro e saluto con un automatismo acquisito, distribuendo un mezzo sorriso per ogni sorriso che ricevo. Qui va meglio, mi rilasso. E’ un lavoro di merda, ma almeno ci sono loro, le persone. Tanti essere umani in una stessa stanza enorme, che fanno le stesse azioni, ogni giorno, ieri, oggi, domani. No, non lo sanno cosa faranno domani, ma non se lo chiedono, loro, e stanno bene così. Anzi, è così che stanno bene. Cerco sempre di impararlo, una volta gliel’ho pure domandato, come facessero, ma quei due o tre che hanno risposto hanno alzato le spalle. E niente più. Qui sto bene, qui l’ansia se ne va e le forze ritornano. Qui sono la specialista, quella che sa fare le cose, a cui chiedono consiglio i nuovi arrivati. Qui so qual è il mio posto. Sono facili, i problemi degli altri. Mi siedo e le sei ore migliori del giorno volano via in un solo respiro.

Esco che è quasi buio. Strada, metro, casa. Mi sdraio sul letto e chiudo gli occhi. Il frigo è vuoto, non mangerò. L’ultima cosa che vedo prima di addormentarmi è quella pianta. Dovrò prenderle un vaso più grande.

Illustrazione di Francesca Galli

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