Rivedo i suoi denti.
I suoi denti stretti gli uni contro gli altri.
L’arcata superiore contro quella inferiore. Il labbro superiore leggermente sollevato a scoprirli, quello inferiore abbassato.
Le gengive rosa, più chiare alle radici, più rosse verso l’interno, dove scorre il sangue e dove si intrecciano i nervi del dolore.
A denti stretti.
Durante una risata. Durante lo sforzo dell’amore. Durante l’ultimo litigio.
Avevo sedici anni e stavo camminando per strada.
Un gatto rosso era sceso da un muretto e mi era passato davanti.
Mi si era strofinato sulle gambe facendo le fusa, io mi ero chinata e l’avevo accarezzato.
Una carezza, due, poi si era girato di scatto, veloce come un pitone, con una sferzata di reni.
Si era attaccato al mio avambraccio con i denti e con le unghie. Ma soprattutto con i denti, aguzzi, conficcati nella carne.
Avevo scrollato con forza il braccio, avevo afferrato il gatto per la collottola, l’avevo tirato.
Niente. Era rimasto attaccato.
Avevo sentito la sua forza nella mascella, nella mandibola, in tutti i muscoli della testa.
Da sotto i denti bianchi avevano iniziato a uscire rivoli di sangue, silenziosi, precisi, lineari.
Avevo fissato quei denti scoperti, il pelo bianco intorno alla bocca, i baffi tirati indietro. E quei denti. I canini con la punta affondata nel mio braccio.
L’avevo scaraventato via con cattiveria.
Dove aveva affondato i denti erano rimasti dei buchi rossi, perfetti, circolari. Nessun taglio, nessun graffio. La pelle intorno era intatta e pulita. Solo quei fori che avevano continuato a sanguinare.
Il gatto era caduto sull’asfalto di schiena, si era rialzato ed era corso via.
Io ero rimasta immobile in mezzo alla strada stringendomi con la mano sinistra l’avambraccio destro, livido e dolorante.
Perché?
L’avevo guardato scomparire dietro l’angolo.
Mi guarda in cagnesco, di traverso, dalla scrivania.
Un occhio al computer, un occhio a me.
-Ciao.
-Ciao.
Butto la borsa e il cappotto sul divano.
-Com’è andata oggi?
-Bene.
Continuo a sentire il suo sguardo gelido su di me mentre prendo un bicchiere e lo riempio a metà di vino rosso.
-Bene.
Non mi chiede altro. Non mi chiede dove sono stata. Non mi chiede cosa ho fatto, perché sono rientrata a quest’ora. Sono le dieci e mezza di sera.
E io non aggiungo nulla.
Vado in camera e chiudo la porta.
Mi avevano detto di schiacciare la carne lì dove i denti del gatto avevano lasciato i fori, per far uscire il sangue, per evitare che le ferite si infettassero.
È meglio se sanguina, mi avevano detto. Devi fare sanguinare.
Io avevo stretto la pelle tra l’indice e il pollice. Avevo schiacciato. Avevo guardato il sangue uscire dai piccoli buchi. Avevo sperato che non facesse infezione.
E poi mi ero chiesta che fine avesse fatto quel gatto.
Perché aveva dovuto mordermi?
Io non volevo fargli del male.
Perché mi aveva costretto a scaraventarlo a terra?
A casa mi ero versata sull’avambraccio del disinfettante marrone che sembrava sangue.
Dopo una ventina di minuti mi raggiunge in camera.
Si chiude alle spalle la porta senza sollevare lo sguardo, senza guardarmi.
Quando si avvicina al letto vedo i muscoli della mascella contratti.
So che si sta sforzando di non dire nulla, di non chiedere nulla.
A volte mi chiedo chi ce lo faccia fare. Dovrebbe semplicemente prendere le sue cose e andarsene. O dovrei farlo io. E invece niente. Rimaniamo uno attaccato all’altro con un’ostinazione deleteria. Nonostante lui sappia. Nonostante io sappia.
Ma è troppo difficile mollare la presa.
Si infila sotto le coperte, si volta di schiena, spegne la lampada sul comodino.
Io resto seduta a gambe incrociate. Poso sulle ginocchia il libro che stavo leggendo. Lo guardo. Guardo la sua nuca, i capelli all’attaccatura del collo, la piega dell’orecchio sinistro, la curva della guancia.
Ha ancora la mascella contratta e serrata.
La mandibola rigida.
I denti stretti.
Mi era rimasta la cicatrice. I fori erano stati talmente profondi che quando la pelle si era cicatrizzata era rimasta più bianca e spessa in due punti. Sembrava il morso di un vampiro. O di un serpente.
Due punti.
Non avevo mai saputo come usarli i due punti: si usavano per un elenco? Per un qualcosa di non ancora finito? Per qualcosa di sospeso?
Lui mi spoglia e io non dico nulla. Lo spoglio a mia volta.
Allargo le gambe, lo sento entrare dentro di me e lo vedo sopra di me, le mani appoggiate accanto alle mie spalle sul cuscino, le braccia, le spalle, la curva dove proseguono nei muscoli del petto, del collo. Il mento. La bocca. Le labbra.
Entra ed esce. Entra ed esce. Entra, esce. Entra.
Vedo i suoi denti stretti per lo sforzo. Vedo i suoi occhi sul mio viso.
Mi fa male, ma rimango in silenzio.
I suoi denti scoperti in un ghigno di piacere quando viene.
Resto immobile.
Sei mia.
È l’unico modo che abbiamo per pareggiare i conti.
È l’unico modo che ha per tenermi.
È l’unico modo che ho per chiedergli scusa.
Non avrei mai voluto buttare per terra il gatto con tutta quella forza.
Per notti intere l’avevo sognato, morto, con la spina dorsale spezzata sul cemento ruvido e incandescente.
Però mi aveva costretto a farlo.
Quando ci pensavo sentivo i due fori cicatrizzati pulsare.
La sua violenza mi aveva costretta a rispondere con la violenza.
Non avrei mai capito perché avesse iniziato lui.
Eppure era stata l’unica volta in cui ero riuscita a distinguere chiaramente chi dei due avesse iniziato.
Immagine di copertina di Pixabay (rielaborata)
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Elena Ramella, classe 1995, studia Lettere all’Università di Torino. Ha trascorso un anno in Francia per studio e ha conseguito la laurea in Culture e Letterature del Mondo Moderno. Appassionata lettrice e appassionata scrittrice, ha pubblicato la raccolta di racconti “Lettere dalla notte” (Edizioni LaGru) nel 2015, il romanzo breve “Melograno” (Edizioni Echos) nel 2016 e la raccolta di poesie “Anatomia di un’assenza” (Edizioni Ensemble) nel 2019. Da un paio di anni collabora con riviste on-line scrivendo racconti e articoli letterari.