«Mamma, io esco. Ti serve qualcosa?»
Senti come si sforza di usare un tono leggero. Come se non sapessi che è preoccupata per me. Dovrei rispondere con un sorriso, fingere di stare bene, rassicurarla. È quello che farebbe una buona madre. Invece non riesco nemmeno a guardarla in faccia, so che ci leggerei la pietà e mi sento abbastanza umiliata così.
«Guarda che se vuoi posso restare, ti tengo compagnia, magari ascoltiamo un… guardiamo un film!»
Inutile che ti correggi, Eleonora, che ti preoccupi di tacere le parole vietate, non riesco a togliermelo dalla testa, non puoi farci niente. Tutto ciò in cui credevo è una balla, come potrei pensare ad altro?
«Dai, chiamo per annullare e…»
Ah, no, non voglio farmi venire anche i sensi di colpa: credi che non mi sia accorta che da quando ho scoperto il fattaccio la tua vita gira intorno a me? Esci solo per andare a lezione, il resto del tempo lo passi a cercare di tirarmi su. Quasi fossi io la figlia e tu la madre. Basta! Non devo rovinare anche la tua, di vita.
«No, tesoro, vai, non preoccuparti, mi sento meglio, davvero. E ho un sacco di cose da fare, non avrò tempo per piangermi addosso.»
Esita ancora, non riesce a lasciarmi. Devo fare davvero pena. Forza, Letizia, uno sforzo: dimostrale che puoi restare sola! Un saluto con la mano, un mezzo sorriso… okay, è venuta una smorfia, ma è già qualcosa. Le giro le spalle e m’infilo in cucina per sembrare occupata.
«Va bene, allora vado. Tanto torno presto.»
Finalmente è uscita. Non mi resta che trovarle, queste cose da fare.
Di svuotare la lavastoviglie s’è già occupata Eleonora. Ha anche sistemato il lavello e steso lo strofinaccio… come al solito, non servo a nulla. Potrei pulire l’argenteria, ma a che pro? Natale è lontano. Preparare una cena sfiziosa? Ele mangia fuori e io non ho fame. Maledetto! Mi ha tolto pure l’appetito.
Devo fare qualcosa, non posso continuare a girare in tondo: sembri un asino legato alla mola, avrebbe detto nonna. Diceva anche che un tè forse non risolve i problemi, ma aiuta. Diamole retta, allora: un buon tè nero riconfortante. Dove ho messo le tazze con i fiori all’inglese? Nel pensile alto, sicuramente. Sì, eccole… Merda! E quella robaccia che ci fa ancora lì? Credevo d’aver fatto sparire tutto, invece ecco il suo faccione stampato su un mug color cipria che non ricordavo nemmeno d’avere. Guardalo: i capelli lucidi e impeccabili, il volto radioso, il busto stretto nel chiodo con le frange. E quel sorriso! Come puoi sfoderare un simile sorriso “franco e sincero”, mentre prendi tutti per il culo da anni? Il microfono stretto tra le mani, poi. Senza vergogna.
Non voglio vederti un minuto in più, maledetto impostore. «Crepa!»
Peccato! Pensavo che spaccare il mug contro il muro potesse regalarmi una briciola di soddisfazione. Illusa! E come al solito i cocci sono miei, e ora mi tocca raccoglierli.
Magari potessi fare lo stesso con quelli della mia vita.
Ero certa di aver fatto piazza pulita: foto ricordo, autografo, album con dedica. Invece, chissà quanti stupidi gadget stanno ancora in agguato, nascosti in qualche pensile, cassetto, mensola: come pretendere di cancellare in pochi giorni, di punto in bianco, i ricordi accumulati in una vita intera?
Mi sembra ieri la prima volta che lo vidi, ospite al Festivalbar. Invece sono passati trent’anni.
Ecco a voi Joris, una giovane promessa della musica italiana, diceva il presentatore. Una visione: il faccino d’angioletto, i boccoli biondi e una voce… Bella storia: la voce di un altro! Il ghost singer, lo chiamano i media. Chissà come si sono divertiti a pubblicarne le foto: di profilo, di fronte, al mare, in giardino, in salotto… ce lo hanno mostrato sotto ogni possibile angolo, questo ghost, l’anonimo panzone brizzolato. Chissà se era già panzone all’epoca del Festivalbar. Ma allora non sapevamo nulla della truffa, nessuno sapeva, chi poteva immaginarlo? A quattordici anni come avrei potuto sospettare che non dovevo fidarmi di niente e di nessuno? Come non credere alla favola del bel ragazzo biondo che canta l’amore con voce d’angelo?
Se ripenso alla mia vita, ogni momento che conta è legato a quell’impostore. La festa di fine delle medie: ballavamo stretti uno slow su “Primo bacio”, quando Leo schiacciò la bocca sulla mia. Tenevo il fiato sospeso, non sapevo cosa fare. La canzone m’incoraggiava: lasciati baciare, è come respirare. Il risultato fu un inciampo di lingue e denti mal lavati, ma nei miei racconti estivi alle amiche diventò romantico come i versi di Joris. Un ricordo prezioso da serbare per sempre, anche se a settembre l’autore del bacio incrociandomi in piazzetta non mi salutò nemmeno. A consolarmi c’erano le promesse d’amore cantate dalla voce di velluto del mio Joris… Quella che credevo sua.
Ma porca miseria! Crescere era uno schifo: finito il pattinaggio “non abbastanza brava”, niente progetti da modella “troppo bassa, troppo tonda”, la scuola di design “troppo lontana, troppo costosa”. Tutti i sogni di bambina svaniti nel troppo o nel non abbastanza, ma c’era il mio idolo a dirmi sei una stella, una freccia, una roccia, sei bella, sei tutto, chi non lo capisce si sbaglia di brutto. A dirmi che il resto non conta, conta solo l’amore.
E io ci credevo: anche la mia prima volta aveva una sua cassetta in sottofondo. Tra le note di “Solo tu riempi il cielo di blu”, la Fiat Tipo a tre porte sembrava la carrozza di Cenerentola. Ma nel mio caso fu il principe azzurro a trasformarsi in uno zuccone poco dopo la mezzanotte. Mai avuto fortuna con gli uomini.
Almeno, avevo Joris. Eleonora è stata concepita sulle note delle sue canzoni. La colonna sonora delle mie notti d’amore.
Se penso che negli ultimi tempi quel burino di Luca me lo rinfacciava pure: «Ascoltare ‘ste lagne sembra il solo modo per riuscire a scoparti…». Non si è mai detto che, se mi serviva un incoraggiamento, forse la colpa era un po’ sua. No, figuriamoci. E io a sforzarmi di non prendermela perché, come diceva la canzone, noi uomini siamo così: le parole d’amore non le sappiamo dire, noi per amore sappiamo solo agire e mi raccontavo che le sue erano goffe dimostrazioni di sentimento. Che scema!
Sarebbe durato tutti quegli anni il nostro matrimonio, senza il sostegno di Joris? Sono stato con lei, ma tu lo sai, l’unica che amo tu sei. Quante volte Luca ha usato questi versi per farsi perdonare? Meglio non contarle. Continuavo a illudermi che l’amore vince tutte le prove, tutte le colpe, perché ti appartengo, a noi ci tengo.
Anche quando m’ha detto in faccia – e ce ne ha messo di tempo per decidersi – che era finita, che aveva un’altra ed era insieme a lei che voleva vivere, non ci credevo, rifiutavo di capire che era arrivata la volta in cui non verrà il giorno che da te ritorno. Scema.
Almeno dopo la separazione, avrei potuto aprire gli occhi, rendermi conto che erano state le canzoni a fregarmi, darmi una svegliata. Figuriamoci! Mi sono buttata anima e corpo nella Jorismania, invece. Non mi bastava collezionare i cd e andare ai concerti. Volevo di più. Come una rivincita su Luca che m’aveva preso in giro perché «a quasi cinquant’anni giochi ancora alla groupie come una quindicenne. Di un ridicolo tizio fuori moda, per giunta.»
Non m’importava che fosse fuori moda: credevo in lui. Gli dedicavo ogni attimo di tempo libero. Eravamo rimaste in poche a essergli fedeli, ma grazie ai social ci ho tutte riunite: il fan club regionale è opera mia. Ho creato una comunità unita e attiva, con progetti, riti, obiettivi. Alla faccia del mio capo settore che ha sempre detto che sono priva di doti organizzative e manageriali. Inventavo serate, gestivo trasferte di gruppo per i concerti, immaginavo gadget originali da creare, scambiare, vendere per ricavare fondi. Come la presina all’uncinetto che riproduceva la copertina di “Sei mia, non andare via”, una delle realizzazioni di cui andavo più fiera. Era la mia rivincita: la prova che avrei dovuto farla, la scuola di design, sarei stata una grande creatrice. Ma non mi hanno mai lasciato l’occasione di dimostrarlo.
L’ho bruciata, la presina. Ho pianto guardandola consumarsi sul fornello grande della cucina a gas, il giorno in cui “Spettegoliamo.net” ha fatto esplodere lo scandalo: Il crooner farlocco che da trentacinque anni fa innamorare le donne con la voce di un altro.
Come abbiamo potuto cascarci tutti? Come ho potuto cascarci io, che l’ho visto dal vivo così tante volte, che tante volte l’ho aspettato all’uscita degli artisti per un autografo, un bacio, un «Esisto solo grazie a voi»? Come ho fatto a non accorgermi che la voce con cui parlava non poteva essere la stessa, calda e profonda, con cui cantava? Ho la gola stremata dal concerto, era il suo ridicolo alibi e non ho mai dubitato. Volevo crederci, era la mia fiaba, la mia magia, la mia nuvola rosa in una vita grigia.
E adesso cosa mi resta? Un lavoro banale, i ricordi d’un matrimonio fallito. La consapevolezza d’aver riversato amore, tempo ed energie su un impostore dai capelli biondi. Come faccio a dimenticare, cancellare l’umiliazione, ricostruire tutto? Alla mia età… Come guardare di nuovo in faccia Eleonora, ora che sa che sono solo un’idiota? È grande, è forte, non ha bisogno di me, cosa potrei darle se non credo più in nulla? La verità su Joris m’ha tolto tutte le illusioni.
Forse dovrei farla finita.
Sì. Sarebbe la soluzione migliore, per dimostrare carattere, ritrovare dignità. Vendicare il mio onore ferito, la mia ingenuità tradita. Con un gesto estremo. Eroico! Eleonora sarebbe triste, certo, ma ammirerebbe l’atto di coraggio, il non volermi piegare all’umiliazione. Non credo più in nulla, meglio un salto nel vuoto. Bella: sembra la frase d’una canzone. Avevo davvero la stoffa dell’artista, invece… La vita è ingiusta.
Devo solo aprire la finestra e spiccare un salto. E lasciare dietro di me un messaggio d’accusa:
“Muoio per colpa di Joris”.
La mia rivincita. Un romantico suicidio a vendicarmi dei torti subiti.
Voglio che il messaggio d’addio sia scritto con la mia più bella calligrafia, devo esercitarmi perché sia tutto perfetto.
Per la finestra ci siamo: l’appartamento è al quarto piano, — senza ascensore, un altro bel lascito di quel braccino corto del mio ex marito — l’altezza dovrebbe essere giusta. Devo farlo con stile, però. Basta con le cose finte, con la mediocrità, merito un suicidio perfetto. Il vestito elegante ce l’ho: il tubino blu dell’ultimo anniversario che abbiamo festeggiato. Ero così felice del regalo di Luca, quel giorno: un Greatest Hits di Joris con due inediti. Mi correggo: Greatest Hits del panzone brizzolato. Vorrei riderci su, ma mi viene da piangere. Meglio cercare il vestito.
Wow! Mi sta benissimo: negli ultimi giorni ho mangiato così poco che devo aver perso qualche chilo. Per il trucco degli occhi ci vuole l’effetto smokey, come nei tutorial dell’amica di Eleonora. E per le labbra il rosso “Unforgettable”.
Finito.
Bella. Dio, come sono bella. Che peccato, che tragedia! diranno tutti. Piangeranno e capiranno che sono stata vittima della cattiveria e degli inganni della vita. Di tutti gli Joris sul mio cammino.
Se mi sfracello, però, tutta questa bellezza andrà sprecata. Forse dovrei cercare un metodo meno violento, meno splatter. Gas? E se poi scoppia il palazzo? Sensi di colpa anche nell’Aldilà, no grazie. Farmaci? Ho solo dell’aspirina e degli antiacidi. Come al solito, non posso chiedere aiuto a nessuno… La storia della mia vita. Almeno c’è Google. “Suicidio pulito”: vediamo che trova.
Solo risultati inutili. Titoli di film, libri, canzoni. Speriamo nella pagina successiva… Ancora libri e canzoni. Aspetta: “Suicidio mancato”, una canzone di Sad Jimmy. Dove l’ho già sentito? Ah, sì: ne parlavano le ragazze al lavabo, dalla parrucchiera. Un artista giovane, un esordiente. Ha partecipato a uno di quei talent show, ma l’hanno eliminato subito. Una vittima dell’ingiustizia anche lui. Per fortuna ci sono i social, adesso, per farsi conoscere. C’è il link di un video. Non mi aiuterà a trovare il metodo per il suicidio perfetto. E se invece offrisse uno spunto? E anche se no, nulla mi vieta d’ascoltare una bella canzone prima di farla finita. Non lo merito, forse, dopo tutte le umiliazioni subite?
Certo che sì: clicco.
Carina l’intro. Bella melodia.
Mi dicevo che la fine era davvero arrivata, non credevo più a niente,
per causa sua schifavo la gente,
io ti giuro volevo buttarmi,
davvero credevo che più niente poteva salvarmi…
Queste parole sembrano scritte per me! Anche lui è stato maltrattato dalla vita, ingannato, umiliato. Povero ragazzo, così giovane, così sensibile. Così bello, con le ciocche nere selvagge e la faccia da monello gentile. E che occhi sinceri! Ti invitano a crederci.
Mi dicevo che ero finito, sai
ma la fine è un inizio
se inizi dalla fine, dai.
È vero. Ha ragione. E io che stavo per rinunciare. Le sue parole sono un segno del destino. Un nuovo inizio: ecco cosa mi serviva.
Vivere vale sempre la pena,
anche se la vita ti mena.
Quanta verità! Quanta saggezza, in qualcuno di così giovane. Sad Jimmy. Ha un bel suono. Sad Jimmy. Voglio sapere tutto di lui, dei suoi testi vibranti e autentici. Avrà già un fan club?
«Mamma… Mamma! Ciao, sono a casa.»
«Ah, ciao, Ele; non ti ho sentita rientrare. Già qui?»
«Già? È quasi l’una. Come va, ti senti bene?»
«Certo, perché me lo chiedi?»
«Beh, per… la musica è un po’ alta, data l’ora, no? E perché sei vestita così? Cioè, sei bellissima, ma…»
«Grazie, lo penso anch’io. Scusami, volevi qualcosa? Perché sono un po’ occupata.»
«Sei sicura che va tutto bene?»
«Ah, dici per la storia di Joris? Figurati, tutto passato, mi conosci, no? Sono una donna forte, non mi lascio abbattere facilmente. Sono tutta d’un pezzo, piena di risorse. Sai, la fine è un inizio se inizi dalla fine, e vivere vale sempre la pena, anche se la vita ti mena.»
Immagine di copertina di Ghozt
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Marezia Ori, modenese trapiantata in Provenza, si occupa in freelance di creazione di contenuti, correzione testi, ghost-writing e traduzione. Nel tempo libero… più o meno uguale. Un paio di suoi racconti hanno vinto piccoli concorsi, altri sono apparsi su siti e riviste come Blam!, Piccoligrandisognatori.com, Piegami, DistruttoriDiTerre, Spazinclusi, di cui sarà anche, per un anno, autrice aggiunta.