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Il contrario della serendipità

Finalmente al quarto tentativo un portone si spalanca. La prendo per un braccio e la trascino dentro, mentre continua a dirmi di smetterla. Per un po’ è tutto buio, poi la vista si abitua e comincio a darmi da fare.

“Non qua, e se arriva qualcuno?”

Il mio cervello, nonostante l’alcol, processa la sua frase realizzando che la questione non è più se farlo, ma dove. Non mi metto certo a discutere e avanzo, sicuro che a questo punto mi seguirà. Dopo qualche passo mi volto, ma lei è ancora dove l’ho lasciata. Non fa in tempo a dirmi “Dai, andiamo a…”, che me la sto tirando di nuovo dietro, fino a quando sono costretto a fermarmi davanti a una porta a vetri che dà su un cortile interno. Giro la maniglia, ma è chiusa a chiave. Per non perdere altro tempo, prima che lei cambi idea, mi giro e spingo il bottone. Quando si apre la porta dell’ascensore vedo il mio viso allo specchio: sorrido contento come nelle foto da bambino il giorno del mio compleanno, solo più stempiato. Una volta davanti alla fotocellula slaccio la patta e me ne sto lì, in attesa, mentre lei mi fissa senza fare nulla. Poi, finalmente, sorride anche lei, dicendomi che ho uno sguardo da pazzo.

“Sembri Donnie Darko.”

Non ho la più pallida idea di chi sia, e in quanto alla faccia ero convinto di aver messo su la migliore espressione da cucciolo riconoscente, ma si vede che l’alcol me l’ha sformata. Sfila l’elastico dal polso e raccoglie i capelli. Poi si mette in ginocchio, allunga la mano, fermandosi giusto il tempo di alzare la testa per dirmi che questa è veramente l’ultima volta che ci intrufoliamo in casa d’altri. In questo momento la sposerei anche, se me lo chiedesse, figuriamoci non dirle la stessa cosa che le ho già promesso l’ultima volta. E quella prima ancora. Faccio su e giù con la testa e poi, temendo che non sia abbastanza, lo ribadisco:

“Sì, sì, promesso!”

Mi squadra per un po’ e poi sorride nuovamente dicendo solo: “Che bugiardo…”

Non so se sono troppo preso dal momento, o se a distrarmi è il movimento della porta dell’ascensore che tenta di richiudersi ogni volta che mi sposto dalla fotocellula, ma non realizzo che qualcuno ha aperto il portone fino a quando non si accende la luce. Prima che se ne accorga anche Chiara, faccio una leggera pressione sulla sua spalla, in modo che mi segua verso l’interno, lasciando l’altra mano sulla sua testa (non si sa mai), e spingo il bottone più in alto. Una volta arrivati si lancia fuori per accendere la luce al piano, poi si volta ma io gioco d’anticipo, portando l’indice sulla bocca. In quel momento realizza e mi guarda come se fosse indecisa tra picchiarmi o mettersi a piangere. “Aspettiamo che si liberi e poi lo richiamo” sussurro, poco convinto. Prima che l’ascensore si apra faccio in tempo a leggere il cognome sul campanello della porta accanto, poi mi giro, ritrovandomi davanti una signora avvolta in un lungo cappotto nero che mi fissa con occhi gonfi e rossi. Per l’imbarazzo abbasso lo sguardo e vedo che indossa delle pantofole rosa.

“Chi siete?”

Mentre penso a cosa rispondere, non sapendo da che parte iniziare, la luce si spegne. Timer del cazzo! Per paura che si metta a urlare, tasto ripetutamente contro il muro, fino a quando riesco a riaccenderla.

“La signora Tombolini?” tento.

“Sì, e voi?”

Già, e noi?… buona domanda.

Poi per fortuna aggiunge: “Siete amici di Carlo?”. Faccio sì con la testa. “Doveva rientrare per cena… ha il telefono staccato. È successo qualcosa, vero?”

Mi giro verso Chiara ma lei continua a fissare la porta dell’ascensore, pietrificata. Torno a guardare la signora e, mentre realizzo solo adesso che quello che indossa non è un cappotto ma una vestaglia pesante, la mia bocca comincia a muoversi lasciando fuoriuscire queste parole: “Avevamo appuntamento con lui qua sotto, ma trovando il portone aperto siamo saliti. Vedrà che tra poco arriva, intanto andiamo giù ad aspett…”.

In quel momento suona il campanello e la donna non fa in tempo ad infilare le chiavi nella toppa che siamo già in ascensore.

Sono così contento che Carlo sia tornato a casa che ho quasi voglia di abbracciarlo, neanche fossimo veramente amici, ma quando arriviamo al piano terra, e la porta comincia a scorrere, al suo posto mi trovo davanti due poliziotti. Rimaniamo immobili tutti e quattro, per un tempo infinito, prima che io riesca a trovare il coraggio di dire “Buonasera!”; probabilmente con un po’ troppo entusiasmo, perché i due fanno una faccia strana, mentre si spostano di lato per lasciarci passare, senza toglierci gli occhi di dosso.

Una volta fuori dal portone, mi attardo a chiedermi dove sia finito Carlo, mentre il mio sguardo ondeggia nello spazio vuoto dell’abitacolo della volante e Chiara continua a ripetere il mio nome tra le parole “coglione” e “andiamo via”; ed è proprio lì, in quel momento, che le prime urla cominciano a cadere dall’ultimo piano.

Illustrazione originale di Doctor Tales e Mr Shot

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Daniele Israelachvili, nato a Bologna nel 1978, comincia a scrivere i suoi primi racconti durante le lezioni di Microeconomia all’università, ma non lo dice a nessuno perché ai suoi occhi è come se suonasse l’ukulele nudo. Ancora oggi, dopo la nascita dei suoi figli, due volte alla settimana si chiude in cantina a scrivere, dicendo a sua moglie che va a correre. Alcuni suoi racconti sono apparsi su ’tina, RISME, Rivista Blam, Bomarscè, Clean, Pastrengo, Narrandom e Malgrado le mosche.

 

 

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