pic di Sara Gambolati. Colombelle e tensione

Colombe

Le colombelle camminano in fila indiana, cantano e tengono le mani nelle tasche dei giacconi, i loro stivaletti fanno sciuac sciuac. Una è scivolata, affonda con tutto il fianco nella neve e ha qualche problema a tirarsi su. Non è giovane né vecchia, non toglie le mani dalle tasche e aspetta che le altre la aiutino ma la fila procede senza smettere di cantare e una sola si è fermata. Le sta porgendo un gomito, la colombella si aggrappa, bianca bianca nell’aria fredda di febbraio. I suoi polpacci sono rossi fino al ginocchio; non è indicato portare la gonna con questo vento, una lingua gelida che lecca le gambe. Mettersele fra le cosce, proprio dove cominciano gli inguini, è un buon modo per evitare il congelamento delle dita; e per scacciare il freddo dalle ossa ci vuole una pelle sullo stomaco. La pelle viva scalda più di quella morta, la pelle nuda più di quella vestita. I piedi si scaldano con le mani, il collo coi capelli. Tutta la promiscuità che viviamo da queste parti, è solo una questione di temperatura. Una fila di donne che camminano senza toccarsi è uno spreco. Anche il vapore che esce quando cantano e si vede contro il cielo che si arrossa non ha senso.

Le colombelle camminano veloci, non si fermano quando le neve cade dai rami, solo tirano un po’ su le spalle e sorridono riempiendo le bocche di aria gelida. Quella che è caduta si gira di tre quarti, ha la guancia rossa e un occhio che lacrima.
Io sorrido: le colombe non ce la faranno a raggiungere tanto presto la casa diocesana.
Quando c’è la neve, di pomeriggio, tutto si accende, dalle cime degli abeti, alle nuvole e tutto sembra caldo, ma questo momento finisce all’improvviso. Non lo sanno che prima del buio calano le ombre? per questo è pericolosa la montagna. Tutto ciò che è rotondo, basso e soffice in realtà può nascondere punte e dirupi. La consistenza sotto i piedi può cambiare senza preavviso; imbattersi in qualcosa che blocchi parte del corpo mentre il resto scivola a valle è la cosa meno pericolosa che possa capitare.
Le colombelle ridono perché forse si immaginano il caminetto acceso davanti al quale appoggiare gli stivali bagnati. Anche donne come loro si massaggiano i piedi o si grattano la schiena a vicenda? Forse la sera si scaldano le borse dell’acqua. Una di loro lo fa per tutte, un tavolo pieno di bottiglie di gomma bianca e bollente.
Noi allunghiamo il passo. I nostri corpi azzurrini, sulla neve, si stanno già allungando; molto più in basso comincia a intravedersi il tetto di ardesia della casa.
Se l’ultima della fila si voltasse, potrebbe scorgerci. È quella che prima ha tirato su la sua compagna e che è rimasta indietro. Ha la corporatura sottile e infreddolita, si vede da come stringe i gomiti. È giovane, altro spreco: sempre fra donne, senza uomini e senza bambini. Una o due volte l’anno le mandano a prendere aria buona come noi facciamo con le mucche, nel periodo dell’alpeggio; vengono su delle mammelle che scoppiano e fianchi tesi che fanno un rumore sordo a batterci la mano. Hanno un odore dolciastro, le mucche, caldo come quello delle donne. Non muori mai di freddo quando ne hai.
La colombella tardiva si è parecchio distanziata. Le altre adesso stanno recitando i misteri; faranno tempo a dirli tutti prima di arrivare.
Le nostre ombre si distinguono già meno bene sulla neve, appiattite fra quelle degli alberi. Ormai la colombella è più vicina a noi di quanto lo sia al suo stormo. Ha paura, si capisce dalla rigidità del collo, il velo finisce dentro la giacca a vento senza scaldarla.
Noi cominciamo a canticchiare, non le lodi ma le canzoni del vino rosso. Ci scappa da ridere, come quando il vino lo facciamo bollire con la cannella e i chiodi di garofano.
La ragazza si immobilizza, poi si volta lentamente – anche a lei lacrimano gli occhi – e riprende a camminare veloce alzando le ginocchia, i suoi stivaletti fanno splat splat, i veli delle altre colombelle che biancheggiano lontani. Uno stivale le si sfila e rimane nella neve come il ceppo di un albero, lei fa per tornare indietro ma ci ripensa e prosegue col piede nudo.
Allora noi rallentiamo e riprendiamo fiato: non farà molta strada. Eccola infatti che prova a saltellare col piede sollevato. Scivola ma si rizza subito, grida qualcosa – tanto le altre non la sentono – poi si volta verso di noi e dice: scusate, non è che potreste darmi una mano? e intanto torna indietro, appoggiando il piede nudo nella neve. Si guarda intorno circospetta, sempre più diffidente e poi terrorizzata. È quello sguardo – come il maiale, quando lo leghi per le zampe e urla con una voce da castrato che ti devi coprire le orecchie con le mani – che me la fa vedere per quella che è: una donna troppo poco vestita.
Sorella, dico, hai perso la strada.
No, dice lei esitante, le mie sorelle – e così dicendo mi guarda e annuisce – sono laggiù.
Si infila lo stivaletto.
Vuoi una mano? dico piegandomi e prendendole la caviglia.
Fa di no col mento e io le stringo un po’ meglio lo stivale.
È una scarpa ridicola, dico, può andare bene in città ma non qui.
Ha ragione, dice lei. Adesso piange.
Io la sollevo fra le braccia. Trema come un agnello appena nato, dico agli altri.
Vi prego, dice lei.
Ti dovresti scaldare, dico, c’è un capanno di caccia poco più in giù.
Ma è nella direzione opposta, prova a dire dibattendosi e cercando di scendere.
Noi ci siamo già incamminati. Si può accendere un fuoco, dico.
Chissà come sono donne così quando si spogliano, se hanno i peli sulle gambe, o i capezzoli scuri, o magari dei nei. Mi viene da immaginarle sempre pallide, come la panna del latte.
Lei urla, prova a pregare – noi, le sue sorelle, Dio – poi si abbatte contro il mio petto. È svenuta.
Ci incamminiamo verso il capanno che è ormai in un cono di ombra, ci dobbiamo orientare col rumore dei passi.
Le orecchie sono gli occhi del buio, nessuno di noi è mai caduto nei boschi e quello che è successo al fratello del Giai è stato una di quelle cose che dipendono da forze più grandi. Nella scala della montagna, quella umana è una delle potenze inferiori. Non abbiamo certo la velocità dello stambecco – una volta ne ho visto uno sfuggire a una valanga – né la possibilità di nasconderci come gli ermellini, la forza dell’acqua o la longevità degli abeti. Abbiamo un tempo breve e il fratello del Giai il suo l’ha finito sul fondo del ghiaione; quando l’hanno trovato si stava sgelando il torrente Surgon e il suo odore aveva già richiamato gli animali. Sarebbe bello fosse rimasto nel ghiaccio per sempre, ha detto il Giai, giovane anche quando noi saremo dei vecchi. A volte il Giai ha delle uscite del genere.
Cosa dobbiamo fare? chiede ora. Da quando i pastori hanno bussato per dire che avevano trovato il corpo di suo fratello, non è stato più lo stesso Giai di prima. È diventato lento.
È una donna, gli spiego.
Lo so, dice il Giai.
Gli altri non dicono niente e ciascuno guarda avanti nella luce fioca del crepuscolo. La piccola suora respira piano contro la mia giacca.
In realtà non ho in mente niente di preciso, principalmente sono curioso di vedere come sia una donna che vive appartata dagli uomini. Le nostre donne non si pensano mai sole, fra la suora e loro c’è la stessa differenza che c’è fra un animale che vive allo stato brado e uno che passa la vita nei nostri recinti. Le suore, in un certo modo molto strano, sono libere.
Appena arrivati al capanno, ancora prima del fuoco, tolgo la giacca a vento alla ragazza. Lei è sveglia ma non piange più e ci fissa con occhi imbambolati. Le sfilo entrambi gli stivali. Le chiedo di togliersi il velo, gli altri trattengono il respiro. Lei lo fa senza dire una parola, ha il capelli tagliati cortissimi, non avevo mai visto una donna con la testa così piccola. Non è una bella ma non è nemmeno brutta, la sensazione di spreco mi assale di nuovo. Ci sono degli uomini, al paese, come il Sacarlot o il Frai, che sarebbero contenti di avere una donna così che gli scaldi le lenzuola.
La suora ha le ginocchia fredde, anche le cosce. Le stringe un attimo, attorno alla mia mano.
Dai, mi dice uno degli altri. Non è il Giai. Il Giai sta guardando dalla finestrella del capanno anche se fuori è tutto nero tranne una manciata di luci giù a valle. Le labbra della donna si muovono febbrilmente senza emettere suono.
Stai pregando, sorella? chiedo, non ti preoccupare, non ti faccio del male. Con le dita sento il cotone delle mutande, tiepido e liscio.
Vuoi farlo tu? chiedo gentilmente. Lei se le sfila.
Adesso basta pregare, dico guardandole. Tutti le guardiamo. Sono bianche, piccole come quelle di un bambino. Hai qualcos’altro? chiedo, la canottiera, il reggiseno?
Fa per porgermi la collana con la croce.
No, quella tienila tu, dico.
Il Giai invece si avvicina e prende la croce di legno fra le dita e la osserva tutto concentrato. La ragazza alza verso di lui il viso a punta come quello di uno scoiattolino.
Il Giai tira ma il laccio non si rompe e improvvisamente lui alza il braccio e le dà una manata in faccia. La donna crolla.
Io mi addosso alla parete del capanno. Tutti urliamo: ma che fai, ti è dato di volta il cervello?
Lo Scalet ha imbracciato il fucile e lo punta su tutti a turno. Bastardi, grida, è una donna di Dio!
Il Giai si guarda la mano con un sorriso scemo.
Non le facciamo del male, dico rivolto allo Scalet, domattina la riportiamo giù. Le compriamo il pane al forno, ma lui continua a fissarmi da sopra il fucile.
Non sentirà male, continuo cercando di smuovere col piede il corpo della ragazza. Il suo velo giace a terra come una testa mozzata, mi chino a raccoglierlo senza smettere di guardare lo Scalet. Lui punta verso la finestra, spara, poi abbassa il fucile.
Come riscossa la ragazza si tira su da terra appoggiandosi al mio ginocchio. Faccio segno al Taufer che mi porga la fiaschetta.
Tieni sorella, dico, adesso passa.
Lei accosta le labbra tremanti al collo della fiaschetta senza toccarla con le mani e io la abbevero.
Brava, dico, non devi aver paura.
Quando ero piccolo ho nutrito così un cucciolo di pastore tedesco senza la mamma. Faccio una carezza alla donna e le porto via col pollice il sangue da sotto il naso. Sta tremando come il mio vecchio cucciolo.
Potresti farci vedere qualcosa di più? chiedo.
Lei comincia a spogliarsi, è impacciata, mi fa segno di aprirle il vestito sulla schiena. Tiro giù la cerniera, il silenzio nel capanno è quello delle mulattiere, quando senti solo il tuo respiro e quello del vento. Si sentono anche i denti della donna, perché fa freddo. Ora è completamente nuda, ingobbita con le braccia attorno alla pancia. È una donna normale, forse un po’ più magra delle nostre, col colore blu di quando stanno tanto sulla neve. Ha i seni piccoli, piccoli.
È a scena più triste che abbia mai visto. Fra tutti, solo il Giai si sta divertendo, in ritardo sulla tristezza come al solito. Lo Scalet è appoggiato al suo fucile.
Non ti dispiace non avere bambini? chiedo.
Lei alza su di me gli occhi chiarissimi, senza nessuna ombra di dispiacere.
Secondo te Dio ci perdona? chiede il Giai. Sono le prime parole che dice da quando siamo qua dentro e le uniche che abbia rivolto alla donna.
Sono le ultime parole prima del tuono. È come se fosse rotolato sul tetto del capanno e rimbalzasse da una parte all’altra fra le montagne; adesso sembrano dieci, cento, diecimila tuoni che esplodono uno dopo l’altro.
La donna non muove un muscolo. Lo Scalet comincia a sparare contro il soffitto come un forsennato urlando Dio! Dio!
Io spalanco la porta e cerco di capire da che parte stia crollando la neve –l’aria, l’odore – ma non ci riesco.
Fuori! grido, anche se so benissimo che non c’è riparo dalle valanghe.
La donna ha ricominciato a pregare, a voce alta stavolta, con gli occhi aperti, accesi.
Anche il Giai prega seguendomi, anche lo Scalet che però grida: non ci salva. Dio non ci salva. E sembra quasi felice di non essere salvato. Torna indietro, si rinfila nel capanno.
Io corro verso valle col Giai e il Taufer dietro ma a un certo punto mi accorgo di averli persi e di esser rimasto solo. Nel capanno forse lo Scalet sta aiutando la donna a rivestirsi. Lei gli mette la mano sulla testa, dice Dio ti perdona. Insieme aspettano la neve e la grazia di Dio mentre io procedo, a tentoni, nel buio.

Racconto e immagine di copertina di Sara Gambolati

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C’era una volta un libro di favole della buonanotte. Poi Piccole donne edizione integrale, Anna Frank per la tesina di terza media, d’amore per non impazzire dietro l’aoristo, di qualsiasi cosa pure di mettere giù i codici. E giù a leggere scrivendo la tesi, vagliando i bandi di concorso e scorrendo le graduatorie. Coi piedi sul cruscotto in viaggio di nozze e con l’ecografo sulla pancia di quarantadue settimane; anche con la bimba sul petto, testina a destra libro a sinistra, poi cambio.Quando strilla al lavoro:il prossimo! e pensa a cosa leggerà in pausa pranzo. C’è sempre  un libro a tenerle compagnia. E allora perché non provare a scrivere?
Alcuni suoi racconti sono comparsi su Treracconti, Spaghetti Writers, Altri Animali, Senzaudio, Yawp e Carie.

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