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Cavi verdi

Il cartello affisso sul portone avvisa che oggi cominceranno i lavori di cablaggio. Dal terzo piano, il mio. Anche perché il primo e il secondo sono deserti. Assicurano che mancherà la connessione con la rete solo per un giorno, al massimo due, sperano di non creare disservizi. Non credo ci saranno problemi. Dubito che qualcuno usi internet per lavoro, qui da noi.
Sono in questa palazzina da dieci anni. Prima ero nell’edificio principale e avevo la scrivania in una grande stanza, insieme a tante altre persone. C’era sempre troppo rumore: gente che entrava e usciva, rideva, e soprattutto parlava. Le parole, quando sono troppe e ravvicinate e a voce alta, diventano piccoli spilli che mi si conficcano in testa. Ne provo a volte un dolore fisico. E così da quella stanza ogni tanto dovevo fuggire. Mi chiudevo in bagno con la testa tra le mani; prima o poi però qualcuno protestava, dovevo uscire, e lo strazio ricominciava. Un giorno mi ha chiamato il capo del personale. Magari vogliono licenziarmi, ho pensato. E invece mi hanno trasferito alla palazzina. Qui ho una stanza da solo e ne ho addirittura la chiave. In tutto siamo in dodici, ognuno con il suo ufficio, sei da una parte e sei dall’altra di un lungo corridoio, con in fondo il bagno. Non ho idea di cosa facciano gli altri; se ne stanno tutti chiusi nelle loro stanze, e se passo davanti alle porte, è raro che senta una voce, o il ticchettio di una tastiera, o il rumore di una stampante che sputa fogli. Se c’incontriamo in corridoio, un cenno di saluto è più che sufficiente. È un posto silenzioso. Chissà se anche gli altri soffrono per il suono delle parole.
La storia del cablaggio, non posso negarlo, mi preoccupa; in questa palazzina, dove non succede mai nulla di imprevisto e il silenzio è interrotto solo dalle porte che si aprono e si chiudono, arriveranno delle facce nuove, che entreranno nelle nostre stanze, occuperanno i nostri spazi e parleranno con noi. Questi dieci anni di silenzio e solitudine saranno all’improvviso stravolti. Non so come reagirò. Non so come reagiranno gli altri.
Il mio incarico, qui nell’Istituto, è andare in giro per i vari uffici a raccogliere i documenti diventati inutili, che devono comunque essere archiviati. Percorro i corridoi di questi uffici in lungo e in largo e carico su un carrello i faldoni che gli altri impiegati mi lasciano sul pavimento, fuori delle porte. Non entro mai nelle stanze, e se incontro qualcuno in corridoio, un cenno di saluto è più che sufficiente. Finito il giro, porto le carte al deposito documenti, al piano terra della palazzina, dove passo gran parte del mio tempo. Ho creato un sistema di catalogazione un po’ rudimentale, che consiste nel datare i fascicoli che dispongo uno dopo l’altro sugli scaffali. Non che me l’abbiano chiesto, ma se qualcuno venisse a cercare i documenti che ha lasciato, non so, l’8 luglio del 2012 non ci metterei molto a trovarli. Anche se nessuno è mai venuto a cercare nulla. Ma io continuo a incollare le date sul bordo degli scaffali, non si sa mai. Le scritte sulle etichette più vecchie cominciano a scolorire e da un po’ ho preso a ripassarle con la penna. Ogni tanto, mentre ricalco i numeri con la biro, cerco di ricordare cosa è successo quel giorno di tanti anni fa, quando ho scritto per la prima volta quella data. Non ci riesco mai. Forse perché non è accaduto nulla di speciale.
E quindi oggi la grande novità: il cablaggio. Entro e sulle scale, di fianco all’ascensore, già c’è qualcosa di strano: l’estremità di un cavo verde. È spesso e flessuoso, e tratti rettilinei si alternano a curve armoniose. Incuriosito, salgo a piedi, per guardarlo meglio e alla fine della prima rampa eccone un altro, e poi un altro ancora; al secondo piano sono ormai un fascio, a volte si intrecciano, a volte si sparpagliano sui gradini. Pensavo che il cablaggio consistesse nella posa di un filo elettrico, forse due, invece sono una miriade. E poi li pensavo neri o grigi, e invece sono di un bel verde brillante.
Arrivo al terzo piano e nel corridoio, dove in genere non vola una mosca, oggi c’è una gran confusione. Le stanze sono quasi tutte aperte, con i fili verdi che entrano dalle porte spalancate, si arrotolano lungo i pavimenti oppure escono a ciuffi dalle canalette e da sportelli nel muro che non avevo mai notato; in fondo al corridoio ce n’è addirittura una cascata che scende dal soffitto; mi ricorda quando a casa delle zie, a carnevale, tiravamo le stelle filanti sul tubo del gas, che passava in alto, e correndoci in mezzo ci sembrava di fare una doccia di carta colorata. Dappertutto ci sono scatoloni, matasse arrotolate, attrezzi da lavoro, e persone estranee che si muovono, parlano tra loro, a volte scherzano, alcune in piedi, altre su scale a libretto. Ma hanno un modo di fare tranquillo e le loro parole non sono frecce affilate, ma palline di gomma che non mi feriscono. È una scoperta per me. Dev’essere la presenza dei cavi penso, e tutto questo colore, che normalmente mi disturberebbe, oggi mi mette allegria. Verde speranza, mi dico.
Entro nella mia stanza e un operaio mi segue. Mi saluta e io faccio un cenno col capo, cosa che mi sembra più che sufficiente. Comincia ad armeggiare con la sua cassetta degli attrezzi. Poi si ferma.
“Potremmo avere la chiave del suo ufficio, quando va via? Cominciamo a lavorare presto, la mattina”.
Lo guardo attonito. La mia stanza è il mio rifugio, e chiudendola, la sera quando vado via, mi sembra di custodire il guscio di silenzio che in questi anni mi ha protetto. Che la porta rimanga aperta, mentre qualcuno è in giro nell’edificio, mi preoccupa. Domani lo ritroverò integro? Se si incrinasse? L’impiegato mi guarda perplesso. Per convincermi dice:
“Tutti gli altri ce la lasceranno”.
D’altra parte ora uscirò per il mio giro con il carrello e poi andrò in magazzino: devo comunque lasciare la porta aperta. E poi l’operaio ha un aspetto così gentile e parla a voce bassa: le sue parole sono batuffoli di ovatta. Alla fine mi faccio coraggio e faccio cenno di sì.
Quando torno dal deposito, a fine giornata, trovo che anche nella mia stanza c’è stata un’eruzione verde che stravolge tutte le linee e tutti i piani. Questo disordine mi dà un po’ alla testa, ma è uno stordimento piacevole, come se avessi bevuto del vino. All’uscita, consegno la chiave e poi scendo, accompagnato da metri e metri di plastica verde filiforme.

L’indomani entro e mi avvio lungo le scale, ma i gradini oggi sono sgombri; nel corridoio le porte sono quasi tutte chiuse, gli oggetti estranei impilati in un angolo, ordinati, le scale chiuse e appoggiate al muro. Dei cavi verdi non c’è più traccia. Mi affaccio al mio ufficio, un uomo sta rimettendo a posto un pannello del controsoffitto.
“Sto andando via, abbiamo finito”.
Mi guardo intorno e tutto è tornato com’era due giorni fa, la ventata di colore sembra non aver lasciato segni.
“Non ho potuto controllare se internet funziona, perché non ho la password, ma se vuole accendere il pc…”.
Faccio cenno di no. Lui mi guarda paziente.
“Come vuole. Questa è la sua chiave”.
La poggia sulla scrivania e se ne va.
Nel frattempo gli operai hanno portato via tutto. Esce anche l’ultimo, si tira dietro la porta, e il corridoio ritorna lo stesso di sempre: porte chiuse su tanti silenzi privati. Ma lungo le pareti e sotto i pavimenti, nascosti dagli intonaci e dal linoleum, so che ci sono i cavi verdi, avverto la loro presenza. Chiudo gli occhi e li immagino che si dipanano lungo i muri, a volte si curvano per seguire gli angoli, a volte scendono per passare sotto le porte, e alla fine ognuno trova la sua destinazione nel congegno a cui darà un’anima; se ascolto con attenzione mi sembra di avvertire il lieve fruscio della linfa che scorre dentro di loro, fatta di qualcosa di misterioso, ma che sento amico e rassicurante. Guardo la chiave che mi è rimasta in mano e la rimetto in tasca; non credo che avrò più bisogno di usarla.

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Illustrazione di Carlo Vianello

Fiorella Malchiodi Albedi vive a Roma, è un medico e ha sempre lavorato in un ente pubblico di ricerca. Da alcuni anni scrive racconti, alcuni dei quali sono stati pubblicati su riviste online (L’irrequieto, Verde, Inkroci, Narrandom, Risme, Malgrado le mosche, Salmuria). Nel 2015, un suo memoir è stato selezionato per una serata di 8×8. Il racconto Caldo cosmico è stato tra i primi 15 al premio Zeno 2019. La sua prima raccolta, Caldo cosmico e altri racconti, è uscita nel 2018 per Eretica edizioni

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