Capolinea

Capolinea

Non credo sia possibile evitarlo.
E infatti eccolo qui, rosso, lucido, arriva puntuale come ogni volta che non ho fretta. Oggi decido di prenderlo quest’autobus, almeno per arrivare da Sara posso pensare a tutto tranne che alla strada.
Mentre spero di trovare un posto a sedere, eccolo che si materializza. Buon segno.
Dal sedile in fondo potrei godermi tutte le piccole scene. Potrei soffermarmi sulla signora con le buste della spesa che mangia bruscolini buttando le bucce sul pavimento senza troppi rimpianti. Potrei farmi trascinare dai risolini squillanti e incoscienti dei ragazzini eccitati per la libera uscita del sabato sera.
Potrei.
Invece mi infilo le cuffie e taglio il mondo fuori.

 

Waiting, watching the clock it’s four o’clock it’s got to stop.

 

La prima volta che ho visto Sara eravamo in una sala da biliardo. Doveva essere una normale serata tra amici, da passare con in mano una birra e nell’altra una stecca, ma Dario non la pensava così. Il suo coinquilino, nostro quarto fisso a biliardo, doveva lavorare e Dario si era presentato con Sara.
Io e Paolo rimanemmo un po’ interdetti: donne e biliardo non ci sembravano un’accoppiata vincente. Dopo i primi tre giri fu evidente che ci sbagliavamo. In barba ai luoghi comuni, Sara aveva già regalato a Dario due buche e non aveva nessuna intenzione di smettere. Decisi di prenderla sportivamente, mettendo da parte l’orgoglio di uomo ferito, e approfittai del suo lungo turno di tiro per osservarla. Non aveva nulla di particolare, né alta né bassa, né magra né in carne, capelli castani né lisci né ricci. Ma di tutto questo credo di essermene accorto solo molto dopo.
Quando Sara mi guardava negli occhi era impossibile che riuscissi a mettere a fuoco altro. Era capace di sostenere lo sguardo con una fermezza che raramente avevo visto in altre donne. Lei stava lì, mi guardava e aspettava. Difficile capire cosa.
Da quella sera, io e quegli occhi non ci siamo più persi di vista.

 

Tell him, take no more, She practices her speeches…

 

Siamo appena partiti e già mi viene da vomitare. Mi torna in mente di colpo il motivo per cui non sopporto questa specie di carri bestiame. La coppietta che è seduta davanti a me non la smette di scattarsi selfie. Avranno tredici anni, io alla loro età passavo le serate ad attaccare figurine Panini e a smadonnare per ogni doppione.
Sara mi aspetta al capolinea. Forse dovevamo prenderlo come un monito il fatto che un’intera città ci dividesse. O forse no, ci sono storie che si tengono in piedi malgrado abbiano in mezzo continenti interi.
E’ lo stesso tragitto che ho percorso quasi ogni giorno, per anni, ma certi posti mi pare di non averli visti mai. Sarà che farli in macchina è tutta un’altra cosa, mi ricordo bene giusto la successione dei semafori. Quei semafori che secondo le teorie cospiratorie di Sara diventano appositamente rossi per farle fare sempre tardi. Per lei c’è una telecamera che da lontano vede l’auto avvicinarsi e fa scattare il rosso, soprattutto se da lontano si accorge che la macchina in questione va di corsa. E’ cosa certa. A nulla è valso spiegarle che i semafori durano sempre 30 secondi, a prescindere da chi guidi e dalla fretta con cui esca di casa. Ma ormai nemmeno ci provo più a rispiegarglielo. Quando lei si mette in testa qualcosa non la smuove nessuno. Lo so bene dopo mille anni che le sento ripetere sempre le stesse cose.

 

She dreams in color, she dreams in red, can’t find a better man

 

Non aspettai nemmeno un giorno, le scrissi quella sera stessa per chiederle di uscire. Lei accettò e ci vedemmo per un aperitivo, che diventò una cena, una notte, una colazione e 8 anni insieme. Di quei primi mesi mi ricordo che non riuscivo a staccarmi dai suoi occhi determinati che cercavano. E non riuscivo a smettere di ascoltarla tratteggiare storie improbabili, aveva una fantasia che superava ogni limite. C’era una teoria per tutto, mi apriva gli occhi di fronte a cose a cui mai avevo dato peso. Lei parlava, spiegava, costruiva mondi, e io mi ci perdevo. Passavamo ore, distesi a letto con i nostri corpi intrecciati, a chiederci il significato nascosto delle cose più strane, come del fatto che, in qualsiasi parte di Roma si girasse, alzando gli occhi, c’era puntuale un cartello che indicasse la strada per l’Auditorium. Immaginavamo segnalassero punti di ritrovo per sette segrete o codici tra spacciatori avallati dal Comune. Lei tesseva trame e io la seguivo, le bastava prendermi per mano e non opponevo resistenza.

 

He opens the door and she rolls over, and pretends to sleep as he looks her over…

 
Ma come mi è venuto in mente di salire su ‘sto coso? Nemmeno le cuffie a tutto volume mi salvano dal casino del traffico. Per non parlare del caldo. E della puzza. Guardando fuori mi sembra che manchino più o meno una ventina di fermate. Speravo fossero di più. Già me la sento, Sara direbbe che se desideri fortemente qualcosa, questa si avvera. Un’altra delle sue teorie del cazzo. Ma magari stavolta funziona e al capolinea non ci arrivo.
 

Once divided…nothing left to subtract… Some words when spoken…can’t be taken back…

 

Bastarono poche intense settimane e mi lasciai travolgere dalle sue voglie, mi innamorai dei suoi infiniti mondi possibili, dei suoi capricci, di quella smania di fare subito tutto ciò che le passava per la testa. Mi ricordo le lunghe serate estive passate a Lavinio, se le andava un gelato alle tre di notte non c’era verso di dormire. Due minuti per infilarci calzoncini e maglietta e si era in strada a cercare una gelateria.
“Non sarai mica incinta!” scherzavo io. Lei si faceva tutta seria e mi rispondeva con voce sicura e pacata “Certo che no. Lo sentirei”. Giusto, come avevo fatto a non pensarci prima.
Anni magici quelli. Una cazzata dopo l’altra, le sessioni d’esame saltate a piè pari, il cellulare che squillava per le chiamate degli amici lasciate puntualmente senza risposta. “Pensa che belle le cascate delle Marmore in questo periodo…” riflettevo io ad alta voce, facendo zapping tra i canali in tv. “Andiamo a vederle” rispondeva lei con un’alzata di spalle, guardandomi fisso negli occhi, e la mattina dopo eravamo lì. Ormai vivevo con uno zaino pronto in macchina, in cui convivevano scarponi e costumi, in buona compagnia di cartine di mezza Europa. Non so come riuscii a laurearmi. Quel giorno, naturalmente, lei non c’era.

 

She once believed…in every story he had to tell… One day she stiffened…took the other side…

 

Stiamo per superare il Tevere e tra una manciata di fermate potrò finalmente scendere. Purtroppo. Sento la sirena di un’ambulanza che si avvicina e mi scopro incuriosito. Che morbosità. Come quegli annunci di Isoradio “Incidente in A24. Rallentamenti dovuti ai curiosi”. Ma la mia non è curiosità, è peggio. Con un ferito, tardo un po’. Se poi c’è il morto, guadagno un sacco di tempo. Va a vedere che Sara per una volta ci prende.
Ci ho messo quasi sei anni a capire che quegli occhi che cercavano e aspettavano, e guardavano e cercavano, non avrebbero mai trovato niente. Stavano lì, a scrutarti dentro, fagocitando un’emozione dopo l’altra. Un attimo erano lì a divorarti, a toglierti anche l’ultimo lembo di pelle dalle ossa, e l’attimo dopo già guardavano altrove, alla prossima tappa di quella folle corsa. L’insaziabile Sara.
E’ stata mia madre, due anni fa, ad aprirmi gli occhi.
“Fabié, ma ‘sta casa allora l’avete trovata oppure ne devono ancora costruì una su misura pe’ voi?” Bastò a far cadere il sipario. Quel periodo ne avremmo viste almeno cinquanta: troppo buia; troppo in alto; senza ascensore; “ma è uno scantinato!”; troppo in campagna; “mamma mia quanto smog!”; i muri sottili no che si sente tutto; “ma scherzi? Senza balcone non si può vivere!”. E intanto io stavo con mammà e lei da sua sorella. Ma gli alberghi, quelli dove ci rintanavamo nei lunghi e incessanti pellegrinaggi, erano sempre perfetti.

 

Empty stares… from each corner of a shaped prison cell… One just escapes… one’s left inside the well…

 

Sono due anni che provo a fare quest’ultima corsa. Due anni che mi avvicino sempre di più alla meta senza raggiungerla. Mancano tre fermate e ancora non so se scenderò a quella giusta.
Chiudo gli occhi e provo a rilassarmi. Cerco la saggezza nascosta nelle parole altrui, un appiglio, un ulteriore segno che mi indichi la strada da seguire.
La signora accanto a me mi tocca un braccio, deve scendere e mi sposto per farla passare. Lei mi guarda e muove le labbra, ma io non la sento. Mi tolgo le cuffie:
“Giovanò siamo arrivati, che vòi ripartì?”
Guardo fuori, la signora ha ragione. Mi giro di nuovo verso di lei, le sorrido e mi rinfilo le cuffie.

 

And he who forgets… will be destined to remember…

Foto originale di Alessia “Stamp” Damiani

2 pensieri su “Capolinea

  1. bel racconto, bella la scrittura, netta, asciutta con una paratassi incalzante come dicono oggi vada per la maggiore, bella la storia e
    belle le stringhe dei Pearl Jam.
    bello anche lo strappo finale, ogni capolinea può essere un a ripartenza, almeno io ci ho letto questo.

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