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Biscotti della fortuna

Stavolta la scusa per restare sveglio me la danno le auto. Sono seduto a vedere la replica di un quiz alla TV nel seminterrato quando attirano la mia attenzione. Non che riesca a vedere un granché da qui sotto. Le sento filare con le loro marmitte, passano a pochi metri dalla mia finestra livello marciapiede. Le automobili sono diverse dalle persone. Noi siamo più colorate dentro, loro invece hanno la carnagione verniciata da un arcobaleno.

Neppure mi accorgo di essere uscito di casa. Fa freddo. Sopra sono coperto dal giaccone, sotto ho i pantaloni del pigiama e le ciabatte.
Passo davanti alla macchina ereditata da mio padre; ha la carnagione scura, come la mia famiglia. Era già vecchia all’epoca delle corse casa-scuola scuola-casa. Allora ai semafori mi spiaccicavo con il viso al finestrino del sedile posteriore e contavo le macchine dello stesso colore, poi raggiungevo il finestrino opposto per ripetere la stessa procedura. Non c’era un vincitore. Era il mio modo creativo di impiegare il tempo. Papà era concentrato. Toglieva le mani dal volante solo per incazzarsi con i lavavetri e non sentiva la mia conta: «3 blu, 5 rosse!» Una volta ho provato a gioire con lui per una sestina di macchine verde pisello imbottigliate nel traffico, ma lui era lì ad additare lo straniero attraverso il vetro, con i tergicristalli a mulinare sul parabrezza come katane in una lotta sterile. Scattato il verde dava di acceleratore e biascicava qualcosa all’indirizzo del lavavetri; era al contempo infastidito e fiero di quella scaramuccia. Spesso guardava nel retrovisore cercando in me uno sguardo complice ma io fissavo i tergicristalli che continuavano a muoversi in una giornata primaverile.
Apro il bagagliaio e chiudo i ricordi. Infilo le calosce e la divisa del vecchio lavoro; c’è anche del veleno per topi in bustine sigillate. Sembrano le pasticche della lavastoviglie. Ne ho tirate alcune al rimorchio quando è venuto a mettermi il fermo amministrativo all’auto. Sono rimbalzate sulla carrozzeria e finite nel canale di scolo.
A stare da soli in una strada buia che sembra continuare all’infinito ci si sente pieni di possibilità. La si sente propria. Ti puoi mettere a ballare sull’asfalto o a tradurre i graffiti sui muri stando certo che sopra di te nessuna tapparella verrà alzata.
Immaginare di contare le pecore mi sa di porno allora conto gli sfarfallii del lampione sdraiato sul cofano di una BMW: uno, due, tre, quattro…
“Perché chi vive nelle catapecchie ha le Mercedes? Se solo il 5% della popolazione mondiale è sorda, sono io l’unico sfigato a trovare sempre vicini con l’Amplifon?” penso e conto: Quarantuno, quarantadue, quarantatré…
Passano una moto e la nettezza urbana. Niente pedaggi amici, quello che è mio è vostro, ricordatevelo la prossima volta. Mi lacrima l’occhio però resisto e continuo a contare: centosessantacinque… no, era centosettanta, vabbè fa niente, ricomincio.

Il camion mi interrompe a millequattrocentosedici. Ha scritte cinesi e un gattino d’oro stilizzato con la zampetta alzata in segno di saluto. Fa un rumore d’inferno; con i fanali rotti e strisce di smog sulla fiancata modello zebra mi meraviglio non sia finito preda di un posto di blocco. Accosta sotto il mio lampione del sonno e il motore cessa di brontolare. Il gatto è replicato sul retro del furgone in versione gigante. Il guidatore scende e apre il portellone. Inizia a scaricare scatole. Gli passo vicino per dare un’occhiata e mi sento chiamare da dentro.
«Troppo ritardo! Io aspetta da mezz’ora.» dice il tizio del camion.
Faccio per accelerare il passo e squagliarmela, invece dico: «Veramente sei arrivato ora.»
«Bene, bene, tu prendi scatole e porta sotto.» Esce dal ventre del camion un ometto mingherlino dal naso inesistente con in braccio un sacco trasparente di germogli di soia più grande di lui.
Mi squadra da cima a fondo.
Io sto zitto. La zampa del gatto disegnata sulla parte sinistra del portello, in un gioco di prospettive, è attaccata alla schiena del cinese e saluta ancora.
«Tu sei Agapito del ristorante?»
«Esatto.» mento.
Poggia lo scatolone e raccoglie un piede di porco: «Via, va via, no guai!»
«Non riesco a dormire, fammi lavorare.» Ho l’occhio ancora in lacrime per il lampione. «Guarda, abito qui.» mostro la carta d’identità.
«Tu allontana da me.» dice l’ometto. «Ora io chiama a She-Shan.» continua a puntarmi il piede di porco mentre telefona al cellulare. Per apparire meno minaccioso metto le mani in tasca e curvo un po’ la schiena.
«Agapito senza permesso soggiorno, tu hai permesso soggiorno?» dice il cinese dopo aver concluso la chiamata.
«Ti ho fatto vedere il documento, sono italiano.»
Si accarezza il mento imberbe e riflette.
Insisto: «Senza Agapito ti servirà una mano per trasportare tutta questa roba.»
«Vero.» poggia il piede di porco e riprende i germogli. «Io sono Chang-Mi Wang. Tu aiuta me e She-Shan pagare te 20 euro.»
«Ci sto.» dico. Saranno quintali di merce però a contrattare faccio schifo.

Entriamo subito in confidenza. Io lo chiamo Chang, lui mi chiama “Negro”. Non penso sia razzista, trova semplicemente il mio nome troppo complicato da pronunciare.
Il lavoro è così ripartito: Chang scarica il camion, io prendo gli scatoloni ammassati sulla strada, li trasporto nel magazzino interrato, risalgo, prendo altri scatoloni.
Ecco com’è in realtà: Chang passa tutto il tempo al telefono all’interno del furgone e non scarica un beneamato cazzo, così sono costretto a fare da solo. Quando sono sul camion mi dà piccole spinte e gomitate d’incoraggiamento. Nell’ultimo viaggio mi chiede: «Tu hai portabatterie?» Sullo schermo del suo cellulare l’ultima tacca di vita artificiale segna 19%. «No Chang, ho solo le chiavi di casa appresso.» Penso sia una mossa furba per costringerlo ad aiutarmi. Mi sbaglio.
Chang è la goffaggine fatta uomo. All’infuori del cellulare, qualsiasi cosa finisca nelle sue mani ha vita breve: pochi secondi e gli sfugge. Quando finisce per terra l’involtino primavera o il ramen di turno fa una faccia stupita, meravigliandosi di come possa succedere a lui un guaio simile. Con l’intento di aiutarmi sta seminando mezza Pechino sulla Tuscolana.
«Chang.» gli blocco le mani prima dell’ennesimo omicidio di funghi e bambù. «Facciamo così. Tu prendi le cose piccole, però scendi giù con me e mi fai vedere dove va messa tutta questa roba ok?»
«Ok.» dice Chang. Non ha neanche le mani sudate.
Al settimo viaggio di scendi/sali l’unica costante sono le spalle tese. È incredibile quanto si possa ignorare il proprio vicinato. Prima mi sentivo il re della strada e adesso mi accorgo che a 50 metri da casa mia, nel ventre della terra, ci sta un magazzino di centinaia e centinaia di metri quadrati zeppo di cibo esotico. Dall’esterno l’entrata può essere scambiata per quella di un box. Nei primi viaggi ammassavo tutto in un angolo, brancolando nel buio con l’odore di prefritto degli alimenti a suggerirmi la via. Chang, con in braccio le confezioni mignon, cambia la mia politica da basso profilo. Palpa le pareti alla ricerca spasmodica di ogni interruttore. Molti sono collegati ai neon, altri a frigoriferi o che so io. Li cerca, li snida e li preme tutti. Assisto al risveglio dell’enorme magazzino. Le turbine d’areazione esalano rochi respiri, le pareti a buccia d’arancia e cemento armato si tingono di luci e rumori. Lo si potrebbe catalogare come open space se non ci fossero scaffalature in metallo, alte il triplo di me e profonde il doppio, che formano fitte intersezioni dove si è costretti a passare di lato. Sul soffitto, ci sono drappi di vari colori con richiami ai draghi o altre bestie alate.
Chang, trovandomi con il naso all’insù, dice: «Molti ristoranti ha She-Shan.» e comincia a pronunciare le varie scritte mentre io depongo i sacchi o sposto carrettate di bacchette cinesi.
Trovo cataste di legna e schiere di fuochi d’artificio.
«Chang, i ristoranti cinesi hanno il forno a legna?» chiedo. «Il capodanno cinese non è passato?» Continuo a chiedere.
«Altri affari, tu no impiccia.» risponde lui.
Sarà l’atmosfera e la concezione sbagliata che ho del misticismo orientale ma sento dentro di me lo Yin e lo Yang. Non distinti e separati come nel loro simbolo caratteristico, si mischiano e mutano a seconda del momento. Passo dal caldo-umido del magazzino al soffio freddo della strada, dal buio rischiarato dai lampioni della città ai fuochi fatui al neon del deposito. Poggio una paletta di grappe alle prugne e penso: “Perché sono qui?” Sbuco fuori dal tunnel sotterraneo con lo sguardo rivolto al palazzo in cui vivo e mi dico: «Ma sì! Se non riesco a dormire tanto vale sfruttare il tempo.»
Finisco con i piedi in una pozza d’acqua vicino a un freezer rotto; acciacco una merda sul marciapiede, cotta dopo giornate di sole.
Yin e Yang o mancanza di sonno? Perso nelle mie fantasie smetto di controllare il campo minato del magazzino e inciampo. L’istinto ha le sue priorità e antepone me al cibo: mi muove le braccia, abbassa il bacino e allarga le gambe per farmi ritrovare equilibrio lasciando alla mercé della gravità i contenitori sigillati. Devono ancora cadere a terra e già mi sento in colpa. Temo dal rumore del tonfo che si tratti di vetro invece è un suono secco e ovattato.
Naturalmente i contenitori si rompono e Chang vede tutto: «Tu mani di pastafrolla.» dice ridendo.
Viene ad aiutarmi e cade in trappola. Calpesta e scivola su zampe di maiale e, nel tentativo di restare in piedi, urta una delle torri in metallo ricolma di merci mandandola fuori asse. Cadendo, lo scheletro della torre emette un barrito da elefante. Lo schianto è assordante, l’effetto domino è anche peggio. Si tira dietro bancali, lampade e un rotolo di damascato rosso. Tento di schivare quella slavina di cibo e bulloni. Chang resta immobile con la faccia stupita.

Ho le gambe intrappolate fra lamiere e volantini di menù all you can eat. La luce superstite è a chiazze di leopardo e mi sembra di aver subito un bombardamento. Il clangore è finito.
Di muoversi non se ne parla. Per il resto sto bene, nulla di rotto.
E Chang?
Puntello i gomiti e allungo il collo alla sua ricerca. Tra le macerie, al centro del cataclisma, un buco lascia intravedere parte di uno zigomo e una sopracciglia sottile.
«Chang, Chang? Stai bene?»
Rumori dai frigoriferi superstiti.
«Chang, rispondi!»
Cerco un sostegno per strisciare fuori e trovo il suo cellulare. Ha lo schermo rotto.
Premo l’ultima chiamata. Suona. Rispondono! «Pronto. Aiuto sono con Chang al magazzino, c’è crollato tutto addosso…»
«Zhè shì shuí? Cháng zài nǎlǐ?» dice una voce femminile dall’altro lato.
«Non parlo cinese, mi capisci?»
«Wǒ bù míngbái.»
Merda. «Ehm, do you speak english? Help, hurry up! Silos She-Shan.» farnetico.
«Dille Cāngkù Tuscolana.»
È Chang! Il suo occhietto vispo sbatte la palpebra da sotto le macerie. «Sei vivo allora!» gioisco.
«Dille Cāngkù Tuscolana.» ripete Chang.
«Zzankùu?» ripeto io.
«Sì, tu dì quello.»
Riavvicino il cellulare alla bocca: «Zzankùu Tuscolana.» dico fiducioso.
Nessuna risposta. Schermo nero.
«Cristo! Il tuo cellulare è scarico! Se ti fossi messo a lavorare anziché chiacchierare la stronza della tua capa…»
L’occhio di Chang è chiuso.
«Dai sto scherzando! Mica è colpa tua. Capito Chang?»
L’occhio resta chiuso.
Dal contenitore che mi è scivolato dalle mani fuoriescono dei rettangoli di plastica dorata. Sopra c’è scritto “Fortune Cookie.”
Ne prendo una manciata e li lancio come freccette contro il volto di Chang. Alcuni biscotti mancano il bersaglio, altri sbattono sulla tempia e la palpebra.
«Piove.» dice Chang.
«Sì Chang piovono biscotti! Guarda quanto piove!»
L’occhio resta chiuso ma c’è almeno un lamento.
«Chang devi restare sveglio. Non so se questa cosa sia vera ma è l’unica procedura di soccorso che sento sempre dire alla TV, quindi resta sveglio. Riesci a muoverti?»
«No.» bisbiglia.
«Non importa. Verranno presto a prenderci. Ho detto Zzankùu con due z e due u, l’ho detto bene sono già per strada.»
Sorride con le labbra. Sembra sbiadire.
Strappo con i denti l’involucro di un biscotto.
«Sai Chang. Mi sa che ho dei problemi alla vista, perché non mi aiuti a leggere cosa c’è scritto qui?»
Spacco a metà il biscotto ed estraggo il messaggio:

Tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine.

Appallottolo e scaglio via il messaggio di sventura; apro altri biscotti:

Anche l’ora più nera ha solo 60 minuti.

«Chang? Cosa c’è scritto qua?» Spiego il cartoncino e lo isso in alto come una teenager al concerto della sua band preferita. «Chang apri quell’occhio e leggi!»
Lo apre. La pupilla si espande e si ritrae trovando la sua messa a fuoco. «Dice: Ora più nera ha 60 minuti.»
«Più o meno, ci sei andato vicino. E questo?»

Gli ostacoli sono fatti per essere superati.

«Noi siamo sotto a ostacoli.»
«Giusta osservazione. E qui cosa leggi?»

Se hai ragione non hai bisogno di gridare.

« Io ho ragione e voglio gridare.» Tossisce. «Basta biscotti.»
Grido io per lui: «AIUTATECI! C’È NESSUNO? SIAMO QUA SOTTO!» Tremo e mi viene da piangere. «Hai ragione Chang, basta biscotti, ne avrai fin sopra i capelli. Chissà quanti ne hai dovuti mangiare in Cina quando eri piccolo.» Tiro su con il naso.
«Nessuno.» sussurra.
«Hai detto qualcosa Chang?»
«Mai mangiati. Biscotti della fortuna idea di americani. No cinesi.»
Una risata nervosa sgorga fuori dalla mia gola. «Chang ma è vero che avete sempre gli stessi cognomi perché vi appropriate dei documenti dei defunti? Dai rispondi, svelami il segreto.»
Tutto inutile, è svenuto e io lo seguirò a breve.
Uno stridere di gomme mi riporta in Yin. Ho una sete fottuta e sarei capace di scolarmi una bottiglietta di salsa agrodolce se l’avessi a tiro. Uno scalpicciare di tacchi rimbomba sulle scale dello scantinato.
Una donna irrompe nel magazzino, la seguono due omoni. Lei indossa il caratteristico vestito tradizionale dei ristoranti cinesi. È interamente coperta se si escludono due spacchi laterali a cui vorrei appigliarmi.
«Siamo vivi.» dico. «Tirateci fuori.»

Ho azzeccato la previsione. Chang se l’è cavata. Ho appreso da uno dei due gorilla, nonché traduttore, che probabilmente il suo svenimento è dovuto a una crisi ipoglicemica, Chang si è scordato l’insulina nel camion. È arrivata una specie di ambulanza privata e il dottore all’interno mi ha fatto un check-up completo. She-Shan mi ha offerto 200 euro per aver salvato Chang e per tenere la bocca chiusa sul piccolo incidente. Avrei voluto chiederle: “E i 20 per il turno di lavoro?” ma notando quanto sono attillate le giacche dei due Yakuza all’altezza dei bicipiti, ho glissato. Così dopo quattro ore di lavoro mi ritrovo completamente imbrattato di salse e grassi saturi e con i soldi per levare il fermo amministrativo dalla macchina.
Mi avvio verso casa. Pregusto una doccia calda con tanto sapone quando mi sento chiamare.
«Signor Alexander.»
È la matriarca She-Shan con il suo seguito.
«Se ne va senza salutarci?» dice She-Shan attraverso la bocca del traduttore.
Alzo le spalle: «Credevo ci fossimo detti tutto.»
«Cháng ràng wǒ gàosu…» dice She-Shan. Le sue labbra si muovono nel buio della strada. Ho la sensazione di stare in una sala doppiaggio. Quello scioglilingua non è la sua voce, lei ha una voce calda e mi sta chiedendo di passare la notte assieme. Tento di carpire un movimento delle cosce ma la luce del lampione si ferma al torace.
«Ehi, hai capito?» mugugna lo Yakuza interprete.
«Scusa sono stanco, puoi ripetere?»
«Madame Shan ha due messaggi per lei da parte di Chang.» dice Yakuza, «Il primo è di farsi trovare qui domani sera, ha altro da proporle.»
Annuisco. She-Shan torna all’ambulanza accompagnata da uno dei due scagnozzi.
«Inoltre,» grugnisce Yakuza alzando il tono di voce, «Chang ha la risposta al mistero che lei ha posto al magazzino. Dice: “Quello che hai sostenuto è vero quanto i neri che hanno la musica nel sangue.” Per lei significa qualcosa?»
Sorrido: «Sì, significa qualcosa.»
Ci accomiatiamo con indifferenza, senza inchini o strette di mano.
Nel frugarmi alla ricerca delle chiavi trovo impigliato nella cinta un altro di quei biscotti.
Mi volto.
In lontananza She-Shan parla a Chang disteso su una barella. Apro il biscotto.

Se vuoi vedere l’arcobaleno, devi sopportare la pioggia.

Di pioggia addosso me n’è caduta parecchia.
Guardo il portone d’ingresso con il corpo rivolto all’auto nera. Mi siedo sul sedile appena in tempo per assistere alla partenza della carovana asiatica dal luogo dell’incidente. Alla fine del serpentone c’è il camion con il gatto dorato che saluta. Lo saluto a mia volta. Mi piacerebbe seguirlo, tuttavia se voglio scorgere l’arcobaleno l’ingrediente principale è il sole, e da dove sono parcheggiato io la nascita dell’alba è meglio di un film in 3D.
La sete mi è passata, per quanto riguarda la colazione – stringo il biscotto nella mano – è già pronta.

Fotografia di Pexels da Pixabay

4 pensieri su “Biscotti della fortuna

    1. Se ti riferisci al titolo è roba da connessioni psicoanalitiche! Mentre, per Alexander, ho pensato a un disadattato insonne annoiato e disoccupato. Il suo rimescolare di pensieri vieni interrotto da una nuova realtà a lui sconosciuta. La sua ignoranza in materia di cultura cinese lo porta comunque a esprimere opinioni che rasentano i cliché

  1. Ciao,Marco. Il racconto è di piacevole lettura,perché vivace sia la descrizione dell’ambiente sia la definizione dei personaggi.
    Interessante il tema dell’incontro fra culture diverse,esemplificato, nell’episodio narrato,con l’attenzione ai particolari.

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