amazzone

L’amazzone

Il telescopio era disposto sul treppiedi con il muso rivolto alla finestra. Come un bambino sognante teneva alzato l’occhio verso le stelle; un Polifemo galattico disposto a rampa di lancio: destinazione cosmo. Eppure c’era polvere a spegnere lo scintillio sulla bianca livrea del tubolare. I suoi filtri erano dimentichi in astucci e cassetti di un villino, alla periferia est di Roma. Luca lo mostrava sempre a ospiti e amici. Lo mostrava ma non lo usava mai, né in presenza di terzi né da solo. Per Luca il telescopio era la scusa per piazzarsi davanti alla finestra di notte.
Luca era un voyeur.
Spiare ogni pertugio offerto da una veneziana, scivolare con le iridi sulle tende, aspettando il giusto alito di vento a spalancare la vista su un soggiorno, una camera, un bagno. Era capace di aspettare ore per brevi secondi di esistenze. La sua Via Lattea era il seno di una partoriente; la cometa di Halley un lancio sgraziato di uno slip fuori dalla doccia; la nebulosa del granchio un pube arrossato dopo un’ora di palestra.
Aveva le sue tapparelle preferite. Se le immaginava come varchi dimensionali che affacciavano su atolli di piacere. E la sua isola di Calipso si trovava al terzo piano di un piccolo condominio, racchiuso in un comprensorio immerso nel verde. Lui, la sua lei la chiamava Leila, per la somiglianza con la principessa di Guerre Stellari. Ci vollero pochi appostamenti notturni per delinearla: i libri di anatomia, lasciati aperti lungo l’intera area della scrivania, avevano scritto “futuro medico” sulla copertina; il suo corpo, protetto dalla giovinezza, dichiarava 20 anni. Era molto riservata. Non portava fedine al dito o altri pegni d’amore. Però Luca sospettava avesse una relazione. Clandestina probabilmente. Cosa avrebbe dato per seguirla oltre il riquadro, giù per le strade della vita reale. Ma le tane non hanno zampe per muoversi e inseguire.

Secondo la denuncia, la telefonata alla polizia era pervenuta alle ore 23:18 del 25 aprile 2016.
Luca sentiva i rumori da almeno 20 minuti. Erano forti, invadenti. Lo avevano costretto a distogliere lo sguardo da Leila. Il suo film muto preferito era stato interrotto da una lite. Si trattava dei De Groot, una coppia senza figli che viveva in un villino gemello speculare al suo. Lui era olandese, con la passione per le aste; lei era docente d’italiano, più vecchia di Luca. Il problema non era nell’età anagrafica ma nella vicinanza. Luca si era imposto delle regole per il proprio quieto vivere e la principale era “spiare senza essere spiato”. I De Groot erano i vicini, quindi non esistevano.
Le grida però erano reali.
La luce del soggiorno proiettava il dramma. Un dipinto al centro della parete mostrava una donna nuda, ferita e inginocchiata, levare alto il braccio verso un sole di sangue. Il sangue si faceva reale e passava dalla tela inerte alle carni vive della padrona di casa. Era una danza macabra: Luca la vedeva sostare e indietreggiare, avanzare e sparire dalla finestra. Aveva lo zigomo violaceo e l’occhio pesto. I capelli corvini le cadevano come un drappo teatrale, mascherando un trucco scenico di furia e rancore; braccia esili scagliavano verso l’ignoto di un’altra stanza ogni sfortunato oggetto trovato lì vicino. Luca distinse due nomi tra urla isteriche: Thomas e Orlando.
Scattò verso il telefono. Compose il numero della polizia e denunciò l’aggressione. Si premurò di nascondere il binocolo prima dell’arrivo della volante. Era stato un regalo del nonno, appassionato di birdwatching. Prima di morire cercò di trasmettere la sua passione al nipote dagli occhi vispi.
Ci riuscì, solo a metà.
Rilasciata la deposizione, accompagnò gli agenti all’uscio e vide l’ambulanza abbandonare il villino dei De Groot. Si chiese se la donna stesse bene.
Una notte senza sogni divorò la scena di violenza. Il mattino dopo, mentre andava al lavoro, Luca ripensò a quanto aveva visto giudicandolo un mosaico incompleto.
Passò la festa dei lavoratori nella tenuta di Salvo, suo fratello, assieme a sua moglie e alla figlia.
«Perché non vieni a lavorare nella mia azienda, anziché prendere due soldi in quella fogna di call center?» disse Salvo dopo che le sue donne erano sparite in cucina.
Luca masticava con la testa china sul piatto.
«Sempre la stessa solfa. Ti devo tirare fuori le parole di bocca?»
«Una donna è stata picchiata dal marito, ma io non ho visto nessuno che la picchiasse.» disse Luca infilandosi in bocca uno stuzzicadenti. Puntava lo sguardo verso un pesco in lontananza. «Era sola, capisci? Almeno per me lo era.»
«No non capisco, stai dicendo che era sola in casa?»
«No. La polizia ha trovato il marito riverso sulle scale che conducevano al secondo piano. Non so perché te lo sto dicendo.» poggiò lo stuzzicadenti sul piatto e tracannò birra riscaldata dal sole.
Salvo si passò una mano sulla testa liscia: «Ti ha minacciato?»
«Chi?»
«L’uomo, il marito.»
«È all’ospedale. Lei era ridotta come un sacchetto per la donazione degli organi, lui non aveva un graffio. Ora lei cammina tranquillamente con le sue ferite, lui è disteso in un lettino.» disse Luca.
«Ma tu li conosci bene?»
«Come si possono conoscere vicini a cui si rivolge un saluto, incontrandoli per strada.»
Una risatina nervosa uscì dalla bocca di Salvo. Nei suoi occhi Luca vide la solita arroganza e saccenza.
«Peccato. Fosse finita lei orizzontale avresti avuto l’occasione per fartela.» sghignazzò Salvo.
Luca avvampò. Con il tovagliolo si coprì la bocca.
«Dai fratellino, lo vogliamo cambiare ‘sto segno zodiacale? La vergine dura un mese non trent’anni!»
«Ti ho già detto che ho una relazione…» biascicò Luca.
«Certo, certo.» lo interruppe Salvo «Con “Federica la mano amica.” Dammi retta, vieni a lavorare da me. Trovi sicuro qualche collega che per farsi vedere si scopa il fratello del capo.»
«Sei uno stronzo.»
«Perché dico la verità.» ghignò Salvo.
«Ho solo risposto alla tua prima domanda: non vengo a lavorare con te perché sei uno stronzo.»
«Avete finito di dire porcherie?» disse Anna arrivando con la sambuca e i pasticcini.
«Adesso devo andare. Anna era tutto buonissimo.»
«Luca dai resta ancora un po’. Lo sai com’è Salvo, ti vuole bene.» disse Anna.
«È veramente troppo tardi. Poi si fa buio.»
«Oddio Luca, hanno inventato gli anabbaglianti per le auto.» lo canzonò Salvo alzandosi da tavola. «Vabbè fai come vuoi. Casto, vai a letto come le galline, io fossi in te prenderei i voti. Sei pure sponsorizzato dal nome di un evangelista!»
Moglie e marito risero della battuta. Luca esibì un finto sorriso.

Si lasciò alle spalle la casa del fratello. Seguiva invisibili molliche di pane lasciate da un Pollicino chiamato routine, riavvolgendo con gli pneumatici i chilometri d’asfalto che l’avrebbero ricondotto a casa. Pregustava la serata in solitudine, in compagnia delle sue attrici inconsapevoli.
La torta cambiò i programmi.
Era una millefoglie incellophanata con il marchio di fabbrica “Pasticceria Rusconi”. Sostava sullo zerbino, con un biglietto rosa a mo’ di linguaccia irriverente. Era scritto a mano:

Venga a trovarmi stasera. L’indirizzo lo conosce.
V.

Rientrò in casa sorridendo. Mise la torta nel frigo mezzo vuoto. Poi si chiuse in bagno. Riemerse assieme al vapore della doccia e si preparò ad accettare l’invito.

Viviana batteva con le nocche sulla rastrelliera in cantina. Scelse la bottiglia dal suono più allegro: un Brunello di Montalcino. Sollevò la lunga gonna variopinta e riemerse alla luce del tramonto. Indossava i vestiti della mattina e non era intenzionata a cambiarli: il suo ospite non si sarebbe scandalizzato. Mantecò il risotto agli scampi, richiuse i carciofi nella pentola a pressione e accese il forno per riempirlo di trota all’origano e pomodorini. Sulla tavola apparecchiata per due la vellutata di zucca e patata allo zenzero si stava già raffreddando. Soddisfatta andò in camera a guardarsi allo specchio.
Hai rotto tutti gli specchi, tranne quello piccolo in bagno, si ripeteva Viviana fissando il vuoto lasciato nell’anta interna dell’armadio. Sprimacciò i cuscini del letto a mo’ di scusa e uscì dalla stanza.

Luca arrivò davanti al citofono. Le parole sulla targhetta richiamavano il colore ocra delle tegole, poste sui due differenti livelli del tetto spiovente. Un colore senape acido rivestiva la nudità dei mattoni; i faretti rischiaravano un piccolo giardino ben curato ma spoglio di tonalità. Sulla targhetta c’erano due nomi e due cognomi:

Thomas De Groot
Viviana Lici

Luca suonò e si aprì il cancello. Pochi attimi e si spalancò anche l’infisso sul balcone del primo piano. Viviana lo accolse dall’alto: «Buonasera! Sono lieta che abbia accettato il mio invito. Ho lasciato aperta la porta sul retro, dovrà camminare qualche metro in più.»
«Ciao… cioè Buonasera. Mi fa bene camminare.» Luca fece per indicarsi il ventre, poi deviò la mano nella tasca del pantalone. «La raggiungo sopra?»
«Diamoci pure del tu. Scendo io, ho apparecchiato al piano terra.» Lo disse ma non lo fece. Restò sul balcone e aspettò il passaggio di Luca, conscia delle sue gambe esposte sotto la gonna, sotto di lui. Attese di vederlo svoltare l’angolo e solo allora scese.

Le posate tintinnarono sul piatto in ceramica sbafato di salse.
«Era tutto buonissimo. Abituato ai tramezzini questo è stato un pasto da re.» disse Luca strozzando un rutto in gola.
«Quindi hai apprezzato la cena solo perché ti cibi di schifezze?» disse Viviana inarcando un sopracciglio.
«No, no!» Luca alzò le mani, «Io so mangiare. Voglio dire, so cos’è la buona cucina.»
«Luca stavo scherzando. Sono contenta ti sia piaciuto. Certo metà della cena te la sei sparpagliata addosso.»
Sulla risata della padrona di casa, Luca abbassò lo sguardo: aveva il maglione inzaccherato di salse come i grembiulini dell’asilo. «Cavoli, mi sono tutto sporcato!» si alzò di scatto urtando il tavolo. Il bicchiere di vino rosso annaffiò la tovaglia prima di infrangersi a terra.
«Per carità stai fermo, sei un terremoto!»
«Sono mortificato! Te lo ricompro il bicchiere!»
«Facciamo un set da sei, almeno ho quelli di scorta.»
Dopo un breve silenzio risero assieme.
Luca aiutò a sparecchiare. Si trovava stranamente a suo agio con lei. La scrutò con vivo interesse: i capelli corvini erano ribelli come la sera delle percosse. Gli zigomi pronunciati le davano un senso di nobiltà e di falso distacco, spento subito da uno sguardo guascone che saettava felino, attento a cogliere ogni piccola movenza. Non era vecchia come pensava e aveva belle gambe. Le gambe erano la parte che l’aveva eccitato di più. Pesava almeno la metà di lui. Non era pudica e amava mostrare i movimenti del collo. Il seno era l’eccezione a quelle cadenze naturali. Indossava una veste floreale praticamente estiva, i bottoni sul torace coprivano il décolleté. Sembrava ingessata.
«Il caffè lo prendiamo sopra?» disse Viviana di spalle.
«Va benissimo.»
«Aspettami su, io ti raggiungo subito. Tempo che la moka si riscaldi e arrivo.»
Salite le scale, ad accogliere Luca c’era la donna su tela che aveva visto la notte della lite. La donna del quadro, il petto lo metteva in evidenza nonostante la posa inginocchiata. Con una mano tamponava una ferita sotto un seno, ma a Luca sembrava il gesto di una madre che vuol far uscire il latte per il suo bambino. C’erano delle sfumature che non aveva colto dalla sua finestra: l’addome esprimeva tensione assieme alle cosce e alle braccia. A sorprenderlo maggiormente fu quello che aveva battezzato come “sole di sangue”. Si trattava invece di uno scudo enorme e occupava il centro del dipinto, faceva da confine al caos della battaglia. Supino, ai piedi della guerriera, giaceva un uomo. Luca si avvicinò per osservarlo meglio: non aveva ferite. Il suo collo era indifeso al bordo dello scudo. La guerriera avrebbe potuto calarlo giù in qualunque momento e decapitarlo.
La voce di Viviana lo ridestò dandogli un brivido lungo la schiena.
«E’ L’amazzone ferita di Franz Von Stuck.» disse Viviana. «Quando l’ho vista esposta ho pensato a me, alla mia vita.»
«Perché l’invito?»
Viviana poggiò il vassoio con le tazzine fumanti: «Volevo ringraziarti dal vivo.»
Luca rimase con lo sguardo sul dipinto. «Era anonima la denuncia.» Lo diceva senza crederci.
«Non erano anonime le volanti della polizia. Non era anonimo il tuo corpo stagliato alla finestra quella notte,» Viviana si bagnò le labbra di caffè, «come in tante altre notti.»
Luca girò il collo di scatto: «Cosa intendi dire?»
«Ti ho visto altre volte vicino al telescopio.» Viviana prese la seconda tazzina e, avvicinandosi, la porse a Luca. «Ma a te non interessano i pianeti lontani. Sei affezionato alle bellezze terrestri.»
Luca restò a fissare la tazzina: sembrava sospesa nel vuoto. Il sudore gli inumidì la camicia. Il vapore del caffè gli ricordò la canna fumante di una pistola che aveva appena sparato e colpito.
«Tutti hanno dei segreti Luca. Tu…»
Fu troppo.
Le gambe si animarono. Lungo le scale camminò fingendo decoro; chiusa la porta d’ingresso dietro di sé prese a correre verso il cancello.
“Che cosa significa? Voleva umiliarmi? Chi è Viviana?” Pensieri si accalcavano sullo sterrato della mente formando un selciato di dubbi. Era rincasato da alcuni secondi quando il telefono squillò. Aprì il frigorifero. Iniziò a contare gli strati della torta: uno, due, tre, quattro.
Gli squilli cessarono. Allungò le braccia nell’inverno di luce artificiale e ne estrasse il vassoio con la millefoglie. Fece per morderla subito, ma si calmò. La poggiò sul ripiano in cucina e accese le luci. Prese un coltello e ne amputò un angolo. La crema, come un’emorragia, defluiva lenta a rovinare la perfezione della figura di pasta sfoglia. Restò a guardarla colare. Riaprì il frigo e tirò fuori un cartone di birre. Se ne scolò una. Le restanti cinque bottiglie gli tennero compagnia per il resto della serata.

Era certo fosse ancora notte. La TV accesa su una luna londinese sembrava avvalorare tale ipotesi. Di diverso avviso i raggi solari, che filtravano da tapparelle male abbassate, e il menhir di bottiglie ai piedi del divano. L’orologio segnava le 12:23, per fortuna era il suo giorno libero.
Avrebbe attrezzato il giardino per ricavarne un orto. Era deciso a piantare del basilico con foglie verdi, bombate e rassicuranti. Il telefono squillò nuovamente. Rispose. Era David, del call center. Gli disse che da giorno libero passava a giornate libere, la ditta non gli rinnovava il contratto. Chiuse la telefonata. Uscì e annusò l’aria immaginandola piena dei profumi dell’orto d’infanzia. Sentì invece il tanfo del suo corpo. Il sudore era un vago ricordo impastato sulla pelle. Alzò lo sguardo verso il villino di Viviana. Il disagio sarebbe dovuto rimanere là, dentro quelle quattro mura. Prese le chiavi della macchina e uscì senza cambiarsi.
Rientrando a casa, Luca pensò a quel film in cui il protagonista rivive costantemente lo stesso giorno, mentre è in una piccola cittadina americana per documentare la ricorrenza del “giorno della marmotta”. Il loop ha inizio sempre con una sveglia in un hotel. Così per giorni e giorni.
La sveglia di Luca era commestibile e silenziosa. Ad attenderlo c’era un nuovo bigliettino rosa sotto il vassoio, identico per dimensioni al precedente. Anche la calligrafia era la stessa.

Tutti hanno dei segreti Luca. Tu sei in grado di accettare chi ne ha più di te?
V.

«Per fortuna non è lo stesso messaggio di ieri!» disse Luca al cellophane. Girò il biglietto e vide solo rosa. Lo macchiò con dell’inchiostro blu:

Devo ripagarti il bicchiere. Ti offro una birra Alle 21:00 all’Eden.
Ti lascio il mio cellulare: 356/657880
L.

Depose il messaggio davanti alla porta della destinataria e attese divertito l’evolversi degli eventi dalla finestra di casa sua. La risposta positiva arrivò tramite SMS un’ora dopo.
Arrivarono al pub con macchine diverse, a orari diversi. La prima a sedersi su cassapanche di legno in tinta scura fu Viviana. Trovò l’ambiente molto giovanile, simile a Luca. Si aspettò di trovare l’albero del peccato originale affisso su ogni singola parete, invece non vi era traccia dei giardini idilliaci né di verde. Sembrava una scopiazzatura di un pub irlandese in cui era stata dieci anni prima con Orlando, durante le vacanze estive.
Orlando.
«È molto che aspetti?» chiese Luca sedendosi di fronte a lei.
Viviana aprì la bocca per non emettere alcun suono. Nel vedere il volto di Luca, con la barba gettata a sprazzi irregolari e incolta, sussurrò: «Quarantadue.»
Luca, all’inizio spiazzato, prese a fare una risatina finta battendo il palmo sul bancone: «Giusto! E’ la risposta a ogni domanda! La mia parte preferita del libro è quando Zaphod…»
«Luca, quarantadue sono i miei anni. Quando sei venuto da me, quali domande ti sei fatto?»
La cameriera prese le ordinazioni, dando tempo a Luca per riflettere.
«Ho pensato volessi ringraziarmi.»
«Questa è una risposta. Come mai sei scappato via?»
«Devo dirtelo qui? Davanti a tutti?»
Viviana lo fissò. Poi sorrise: «Mi arrendo. Immagino stasera non potrò cavare da te alcun discorso serio.»
Arrivò una birra doppio malto per lui e un cocktail alcolico arancione per lei.
«Comunque non sono sposata.»
«Oh… giusto! Il tuo compagno come sta?» disse Luca arrossendo.
«Ti interessa davvero saperlo?»
Luca annuì più volte.
«Thomas sta bene. È il suo orgoglio a essere ferito. Era tornato probabilmente per finire il lavoro.» Prese la scorza d’arancia e l’addentò. Il rossetto macchiò la buccia del frutto rendendola unica. «Ma lui non sa, lui non mi conosce.»
Il silenzio che seguì, durò poco: «Purtroppo temo dovrai pagare tu il giro. Ho dimenticato il portafoglio a casa.»
Viviana rise inclinando leggermente la testa in avanti.
«Te l’hanno mai detto che sei un maestro nel rovinare l’atmosfera?»
«Sono abbonato alle frecciate di Salvo, mio fratello.»
La serata al pub si concluse con aneddoti di un Luca liceale. Si salutarono nel parcheggio per ritrovarsi da lì a pochi minuti.
Ancora prima di rientrare, Luca era pronto per il vero incontro. Un appuntamento rubato da dietro una tendina inforcando lenti “speciali” a dispetto dei suoi dieci decimi. Come un presbite, ciò che vedeva a distanza non era mai paragonabile alla finzione di una relazione. Mancava il brivido dell’eccitazione, senza la sicurezza di limiti ben definiti. Spinse sull’acceleratore e la macchina salì di giri come il suo testosterone. Si stupì nel trovare le luci da Viviana già accese. Le finestre al piano superiore erano sgombre da persiane e tende.
Lo aspettavano.
Non ebbe fretta. Si gustò ogni gradino mentre saliva e si avvicinava al telescopio. Prese il binocolo. Mosse un braccio e trascinò la sedia fino alla sua postazione, adagiandovisi sopra.
La trovò subito. Dalle costole in giù era già nuda. Come ultime vestigia di pudore indossava ancora un reggiseno in pizzo dalle sfumature rosse simili al cocktail dell’Eden.
Viviana entrò e uscì dal bagno.
La curiosità di Luca raggiunse livelli di gaudio tormento. Il reggiseno aveva cambiato colore. Da rosso a blu. Sempre nuda e fasciata sul seno da un intimo differente ma ugualmente coprente. Lo sguardo di Luca si arrampicava sul balconcino sintetico, per cercare di esplorarne i recessi più intimi; pago della vista del monte di Venere sognava le curve dei seni, nascosti dall’intimo. Viviana si mise a letto. Spense la luce lasciandolo ad ammirare il quadro nero della notte.
Per tutto il mese di maggio civettarono così: bigliettini nascosti agli ingressi, luoghi pubblici in cui incontrarsi per poi ritrovarsi soli nei propri appartamenti. Lei si mostrava, lui guardava. Al citofono, il cognome De Groot venne esiliato.
A un mese esatto dall’aggressione, Luca le diede un catalogo di intimo. Nel biglietto scrisse:

Scegline uno e indicamelo dalla finestra.
L.

La luce quella sera rimase spenta. Dalla terza notte di oblio, Luca conobbe l’insonnia.
Si slogò un polso scaricando una cassa di pellet e perse anche il nuovo lavoro da magazziniere. Le scrisse diversi biglietti, tutti senza risposta.
La odiava. Non riusciva più a vedere le altre, la desiderava e soffriva per una monogamia imposta dal capriccio. Al quinto giorno di blackout decise di andare a suonarle, ma lei lo precedette: se la trovò alla porta. Lo guardava come fosse uno degli omini sulla segnaletica stradale.
«Quando sei libero?» disse Viviana.
«Ora?»
Lei non sorrise.
«Stasera non ho impegni, mi avevi accennato a una mostra di Cézanne, ci andiamo?» Parlò in fretta, sentendosi sotto esame, sotto accusa.
«Basta luoghi neutrali. Ti aspetto dopo cena da me.»
Ruotò su un perno invisibile e si allontanò.
Luca era contento. Rideva nel sentirsi addosso una nuova certezza. Non l’aveva persa.
Più le ore si consumavano, più desiderava vederla. Arrivò in anticipo di mezz’ora e attese. Trovò tutto aperto. Lo accolse il buio della casa; il contorno degli scalini era vagamente definito da un tenue chiarore. Non toccò interruttori e salì al primo piano. Ignorò il quadro, era l’altra donna a interessargli. Viviana però non c’era. Vide delle piccole modifiche rispetto a un mese prima: il tavolino era stato spostato al centro della stanza, il parquet mostrava lievi segni a testimoniare un trascinamento, c’era un portatile acceso sul ripiano vicino a una sedia. Sembrava un banco di scuola. La lavagna era il quadro. Luca sedette dando la schiena alla finestra. Viviana varcò la frontiera fra buio e luce. Indossava jeans e reggiseno neri. In una mano teneva un paio di forbici.
«Ciao. Stasera vorrei parlarti. Forse fuggirai, ma ho deciso che il nostro gioco deve finire.»
Luca deglutì passando dagli occhi di Viviana alle punte in metallo delle forbici.
«Hai visto il sito?»
«Quale sito?»
«Il sito aperto sullo schermo del PC.»
Luca voltò la testa. Era un servizio giornalistico dell’Huffington Post. Parlava di una ragazza…
“Viviana non ti mostrava mai il petto. Ti sei fatto la domanda giusta? Qual era la risposta?”
Era una ragazza giovane, sorrideva nelle foto. In alcune faceva la scema. La battezzò bionda nonostante fosse in bianco e nero. Aveva una leggera peluria sul viso. Le mancavano i seni, come se si potessero dimenticare, lasciare a casa sul ripiano, vicino alle chiavi del garage.
“Cancro al seno.”
«Tu hai…» si interruppe vedendo la risalita delle forbici verso il reggiseno. Aprendosi come mascelle innaturali si serrarono sulla congiunzione in tessuto che separava le due coppe dell’indumento. L’intimo si aprì a ventaglio, una pozza di solido lattice precipitò sul pavimento emettendo un suono gelatinoso.
«Si chiama Allison Snare, ha 24 anni e ha subito una doppia mastectomia.» disse Viviana. Le mani erano distanziate dal corpo, tese.
Un seno c’era, l’altro no.
«Ammiro il suo coraggio. Però vederla ridere fa crescere in me la rabbia. Io non riesco a deridere un male che mi è cresciuto dentro e, pazientemente, anno dopo anno, ha attestato la sua supremazia.»
Un seno era piccolo, sodo e aggraziato. Combatteva la sua battaglia personale contro l’incedere degli anni mostrandosi ancora turgido e rigoglioso.
Il richiamo del lutto era però più forte di quell’immagine; non c’era alcun rigonfiamento a destra. A ricordo dell’intervento, una cicatrice a mezzaluna. Sembrava una bocca composta da un unico labbro liofilizzato in un aborto di sorriso.
«Io mostro sempre rispetto a chi è in grado di farmi soffrire.» concluse Viviana. Restò crocifissa fra legno e aria respirando convulsamente.
Senza alzarsi dalla sedia Luca cercò le mani di lei e trovandole vi si aggrappò. La fece avvicinare mentre piangeva: «Perché ti sei lasciata picchiare? Tu sei forte, sei più forte.»
Viviana si staccò da Luca e si asciugò le lacrime. L’aria della stanza parve non bastarle e si diresse alla finestra inspirando il cielo di Roma.
«Per capire Thomas, devo dirti di Orlando.» Lateralmente, in un gioco di prospettiva, sembrava avesse ancora i due seni intatti.
«Orlando era la mia ragione di vita. Peggio, era il mio uomo. Quando trovarono una piccola massa nella radiografia mi crollò il mondo addosso. Com’ero ingenua. Spesso si usano frasi fatte senza rendersi conto del loro valore. Hai una sigaretta?»
«No, non fumo. Lo sai.»
«Certo, tu hai un solo vizio.» Si limava le unghie con i denti. «Era autunno, ricordo. Fecero più rumore le foglie caduche sul ciglio della strada che Orlando quando mi abbandonò. Nell’Orlando di Ariosto, il paladino impazzisce di dolore e disintegra la pineta foriera di segni degli amanti. Il mio Orlando era un vigliacco e mi ha scavato il cuore più di quanto abbia mai fatto la malattia. Così scelsi Thomas. Thomas era più facile, più prevedibile. Il dolore con lui sopraggiungeva dall’esterno. Un pugno potevo vederlo. Trionfare sui lividi mi faceva sentire viva.» Indicò il quadro alla parete. «Per ottenere una perfetta tensione dell’arco, alle giovani amazzoni si bruciava la ghiandola mammaria. Rinunciavano a una parte di donna per un’estensione da uomo. La donna del quadro ha entrambi i seni, lei non è un amazzone.»
Scattò verso Luca fermandosi all’altezza delle sue labbra: «Io lo sono.» Respiri consumati da anidride carbonica andavano a riempire lo spazio fra le due bocche. «Ho usato la tua perversione Luca, sapendo che a distanza ti sarebbe bastato ciò che io ti mostravo. Ma ora non posso più continuare così, mi dispiace.» Viviana cedette al divano portandosi le mani agli occhi. Se stesse piangendo o volesse solo nascondersi Luca non riusciva a capirlo. Incerto, avanzò verso di lei alzando e riabbassando la mano. Al terzo tentativo smise di schiaffeggiare l’aria e la posò sulla spalla di lei. Viviana sussultò a quel tocco sulla pelle nuda. «Non farlo, non sei costretto.» La voce le uscì profonda dalla conca delle mani. «Basta falsità. Preferisco un insulto a un falso gesto di conforto.»
«Vaffanculo.»
«Come?» Viviana alzò la testa di scatto.
Luca si morse un labbro: «Il vaffanculo è perché hai pensato ti potessi accarezzare per finta.» Sollevò la mano dalla spalla. «Tieni, o prenderai freddo.» si tolse il maglione e l’aiutò a infilarselo.
«Hai trovato un modo galante per coprire il mio orrore.»
Luca andò alla parete e accese la luce delineando il rossore degli occhi di Viviana: «Mio nonno, da piccolo, mi diceva che per combattere un orrore bisogna innanzitutto accendere la luce. Ricordo mi prendeva per mano e facevamo il giro della cameretta cercando il mostro nell’armadio e sotto il letto, senza trovarlo. Poi spegneva la luce,» disse spegnendola anche lui, «e restava lì, al buio, finché non facevo finta di addormentarmi.» Tornò vicino a lei e si sedette sul divano «Forse il tuo orrore è nascosto dentro di te nel profondo, ma io ho un binocolo per scovarlo!»
«Scemo!» lo spintonò via ma lui resistette.
«Sei sexy con il rosso lo sai?» indicò il maglione.
«Davvero?» disse lei accarezzando la lana dell’indumento. «Me lo regali?»
Luca annuì.
Viviana ridacchiò: «Allora se indossare i tuoi vestiti ti da questo effetto devo provarmene altri.»
«Va bene, ecco le chiavi di casa.» il portachiavi raffigurante il Tardis passò dalle dita di lui a quelle di lei.
«Ma… ora?» tentennò Viviana.
«Certo! Ora.»
«Tu non vieni?»
«Ti raggiungo subito, ormai dovresti saperlo, mi piace l’effetto sorpresa.»
La sentì scendere le scale. Dalla finestra la vide percorre il breve tratto asfaltato che divideva i loro mondi e stette a osservarla mentre lei armeggiava con le chiavi, sorridendo ai suoi falsi tentativi di centrare la toppa. Attese di vedere da una nuova prospettiva le ombre diffuse dal lampadario del salone e dalle plafoniere dell’anticamera. Poi, prima che potesse entrare in camera sua, chiuse la persiana e la raggiunse a casa.

Copertina di William Bersani

Il racconto è stato pubblicato anche sul portale di racconti ReaderForBlind

3 pensieri su “L’amazzone

  1. Ho riletto più volte questo racconto. Ho molto apprezzato il contesto della storia e il modo in cui tutto è stato descritto e raccontato. Complimenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *