Immagine per il racconto "L'altalena"

L’altalena

Nella vita ho desiderato essere tante cose.
Fino a una certa età, quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande avevo la risposta pronta. Era sempre diversa, è vero, ma questo per tutti era sintomo di creatività.
Semplicemente, tutto ciò che vedevo mi affascinava. Ogni singolo evento che vedevo scorrermi davanti aveva il potere di catturarmi, di trasportarmi altrove. Generava traguardi e obiettivi, seducendomi con una forza d’attrazione ogni volta maggiore.
Mi dicevano che avevo del potenziale, un modo di guardare alle cose fuori dalla norma, e che grazie a quello sguardo sul mondo potevo fare tutto. In ogni loro parola emergeva l’allettante idea che avrei potuto trasformare in realtà qualsiasi mio desiderio. Era bellissimo. Di questo erano tutti convinti, soprattutto i miei genitori.
Ma di un’altra cosa andavo convincendomi nel tempo: che un uomo ha bisogno di un ristretto ventaglio di scelte, perché è fin troppo facile smarrirsi nelle infinite possibilità di un labirinto. E non c’è niente di più pericoloso di un incrocio con tantissime strade, per chi non sa dove andare. Si rischia di morire di fame come l’asino di Buridano, immobile all’incrocio, e di finire sbranati dai lupi.
Per cui, quando mi guardo indietro per fare i conti con le occasioni perdute, mi ritrovo spesso con la sensazione di essere stato spettatore passivo di tutto.
Le cose non le ho scelte.
Le cose mi sono capitate.
Ma forse non è neanche così e sto solo vaneggiando. A volte riesco a dubitare persino dei miei dubbi.
Non lo so neanche perché sto facendo queste considerazioni. Non lo so da dove sono partito e dove voglio arrivare. Come spesso capita con amici e colleghi, butto sul piatto argomentazioni, citazioni e sentenze, ne faccio un gran minestrone e alla fine digerisco tutto.
Ognuno ha la propria condanna. Forse questa è la mia.
Eppure non è tutto sbagliato. In fondo, le cose che mi sono capitate mentre sognavo di essere altro mi hanno fatto laureare, mi hanno fatto diventare uomo, marito, padre. Padre di due figli stupendi, sì, ma infelici. Che siano infelici lo capisco dal fatto che sono miei figli, ma anche dall’abisso che intravedo nei loro occhi quando ci incrociamo per casa; quando gli chiedo come va e rispondono tutto bene; quando soffrono troppo e non riescono a nasconderlo.
Spesso, soprattutto in facoltà, la gente mi chiede come va, più raramente come sto. Ma solo mia moglie mi chiede se sono felice, se lo sono veramente. Se, insomma, percepisco quel senso di soddisfazione dei desideri di cui tutti vanno parlando.
Una volta ricordo di averle risposto che la felicità è qualcosa di semplice e complesso allo stesso tempo. Che se uno apre un libro di filosofia si ritrova duemila argomentazioni a proposito, e nessuna mi ha mai convinto fino in fondo a parte quella che i greci antichi chiamavano eudaimonia, e che quello era un sentimento irraggiungibile.
Quella volta discutemmo, lei abbandonò la sua consueta calma, mi urlò addosso tutto l’odio del creato, pianse come mai l’avevo vista fare e io ci misi una settimana per capire perché.
Semplicemente credo che ognuno abbia la propria condanna ma che ce ne sia una che appartiene a tutti, e prende il nome di infelicità.
Sono sempre stato cieco davanti alle scelte. I progetti a lungo termine li ho schivati come la peste, perché per perseguire qualcosa di eterno ci vogliono delle convinzioni che non ho mai avuto. Solide fondamenta su cui costruire.
Io invece mi ritenevo uno spirito libero. Amavo le vette delle montagne che si perdevano fra le nuvole: non sapere cosa ci fosse lassù mi spronava a raggiungerle. Tutto il percorso che c’era in mezzo erano piccoli passi necessari per arrivarci. Piccoli, essenziali passi.
Mi contraddico, lo so. Ma non perché sono grande, non perché contengo moltitudini.
Mi contraddico perché sono piccolo. Un piccolo uomo con una piccola vita. Un grande potenziale che non ha mai raggiunto il proprio atto. Un’entelechia mai realizzata.
Volevo volare ma non ho mai spiccato il balzo. Sarà che ho dubitato delle mie capacità.
Nella mia vita ho sempre dubitato di tutto, tranne di due cose.
La prima è stato l’amore assoluto e spiazzante che ho provato per mia moglie, una fiammella che oggi provo in tutti i modi a non far estinguere.
La seconda è il momento in cui tutto è cambiato. Almeno questa è la favola che mi racconto, anche se oggi mi puzza molto di teogonia e comincio a guardarla con sospetto.
Avevo sei o sette anni, e sognavo di essere come uno di quei passerotti che si posavano sul davanzale di casa e che scacciavo via con la mano. Ogni volta mia madre mi rimbrottava, convinta che lo facessi per cattiveria. In realtà mi affascinava vederli aprire quelle loro minuscole ali e gettarsi nel vuoto. Le prime volte mi aspettavo che si schiantassero al suolo – e quella sì che forse era la malvagità dei bambini – ma poi avevo imparato che gli uccelli sapevano come volare.
Erano tempi di certezze, quelli. Non esistevano dubbi ma solo domande alle cui risposte non avevo ancora accesso. Ma non era un problema: sapevo a chi rivolgermi.
Per cui, dato che morivo dalla voglia di sapere che fine facessero i passerotti quando scomparivano dietro i palazzi, una sera a cena lo chiesi ai miei. Mi risposero che i passerotti volavano via, in cielo.
Strane connessioni si fanno da piccoli. Una cosa che ho imparato è che le parole non sono soltanto importanti, come ha detto Moretti: sono fondamentali. Spesso sono tutto ciò che abbiamo, come ha sostenuto Carver. E sarebbe meglio evitare di confondere un bambino di sei o sette anni utilizzando un termine che ha già sentito in un altro momento, collegato a un altro evento.
Altrimenti poi quel bambino arriva a porre domande strane, da cui è difficile tirarsi fuori senza intoppi.
Ma in cielo insieme ai nonni?
Lo chiesi col tono di chi ha appena compiuto una scoperta miracolosa. Forse lo stesso tono usato da Archimede – sempre che la storia sia vera – quando fece la sua scoperta.
Dopo essersi scambiati uno sguardo che non compresi mi dissero di no ma poi, assediati dalle domande, optarono per qualcosa di meno impegnativo. Forse erano tornati esausti dal lavoro. Chissà che gli passò per la testa quando mi dissero che sì, Filippo, era proprio lo stesso.
Una cosa fondamentale che mi ha insegnato Simona è che i bambini tendono a considerare sacrosanto ciò che un genitore gli dice.
Una cosa fondamentale che ho insegnato a mia moglie, d’altro canto, è che i bambini non si accontentano. Proprio come gli adulti, i bambini non si accontentano di niente.
D’altronde cos’è l’infelicità se non l’incapacità di sapersi accontentare?
Comunque.
A quel punto, dopo quella risposta, volli sapere perché i passerotti andassero nello stesso posto dove si trovavano i nonni. E perché continuassero a tornare da me, mentre i nonni era più di un anno che non li vedevo.
I nonni non mi vogliono più bene?
Ma certo che te ne vogliono, tesoro, rispose mia madre.
E allora perché se ne sono andati in cielo? Perché non tornano?
Quando non sapeva più che inventarsi – oggi lo so – mia madre di solito tirava fuori qualcosa di rassicurante. Lei cercava sempre di rassicurarmi, come quando diceva che se fallivo non era per colpa mia. E poi ribadiva, in qualche suo modo particolare, che le mie potenzialità erano infinite.
Perché lì sono felici, disse, con uno sforzo che io non potevo neanche concepire.
E perché sono felici in cielo?
Perché le persone buone sono felici, intervenne mio padre, che nella sua vita si è arricchito speculando sui fallimenti della gente. Da grande lo capirai, Filippo. Ora finisci il pesce.
Quella sera mangiavamo filetto di sogliola.
Quanti dettagli inutili si conservano nei momenti importanti.
Quantomeno avevo scoperto che c’era un posto, da qualche parte in alto, in cui la gente era felice. Ora però dovevo scoprire come arrivarci. Ma sapevo che solo i grandi erano a conoscenza dei segreti dell’universo, e diventarlo era cosa lunga. Nelle foto, i miei lo erano sempre stati.
Un giorno, durante l’ora di religione, alzai la mano e di quel misterioso cielo domandai a suor Lucia, l’unica altra persona che riusciva a darmi risposte nette, chirurgiche. Diciamo pure: caustiche. Come tutte le altre volte, tirò fuori la Bibbia. Ci parlò a lungo del paradiso, un luogo magico – ricordo che usò proprio questa parola: magico – il più felice di tutti i posti, a cui si giungeva solo comportandosi rettamente e seguendo la parola di Cristo.
Cristo, l’avevo imparato tempo prima, era quell’uomo sofferente raffigurato sulla croce in classe e sul letto dei miei; era anche quell’uomo dall’aria buona e misericordiosa che trovavamo disegnato su alcuni libri in classe, che parlavano di parabole, agnelli e mercanti.
Una cosa fondamentale che mi ha insegnato Simona è che i bambini non vanno trattati da idioti. Bambini allevati come idioti diventano adulti disperati. Ne abbiamo tanti esempi oggi, di questi figli cattolici della prima repubblica.
A nessuno dovrebbe essere tolto il diritto di ricevere risposte concrete, punti da cui partire.
Invece quella volta, quando chiesi per quanto tempo ci si dovesse comportare bene per accedere a questo misterioso paradiso fatto di angeli e figure arcane, mi venne risposto che andava fatto per tutta la vita.
Per tutta la vita.
Per Dio, che razza di risposta è da dare a un bambino che va alle elementari? Come si può pretendere che un ragazzino sappia aspettare?
La pazienza è qualcosa che si conquista col tempo. È una cosa che non ho mai preteso dai miei figli. L’hanno imparata sulla propria pelle questa lezione.
Come io imparai sulla mia.
Poiché quel cielo volevo vederlo subito, architettai un piano. Non ero sicuro potesse funzionare, ma valeva la pena provarci. Non m’importava nulla di lettere e numeri, né di quali mari bagnassero l’Italia, eppure per diversi giorni studiai come mai avevo fatto prima e mi comportai con estrema diligenza. Fu così che convinsi mio padre a portarmi più spesso al parco sotto casa dove, fra le poche giostre rimaste in piedi, c’era l’altalena. Mi sarei sollevato da terra, anche se solo per qualche secondo. Però forse, mi dicevo, se avessi continuato a sforzarmi e a comportarmi bene, presto sarei arrivato lassù, fra gli stormi d’uccelli neri. Magari giusto il tempo di abbracciare i miei nonni e raccontargli che avevo smosso mari e monti solo per rivederli. Ogni giorno tornavo a casa esausto, ma sentivo di essermi avvicinato un pochino di più al cielo.
Finché un giorno incontrai Lucifero. E nonostante tutti gli ammonimenti, fu proprio lui a gettare luce sul mondo che avevo intorno.
Quel giorno l’attesa per l’altalena trascorreva come al solito fra un’occhiata alla fila che si esauriva e tutta una serie di sguardi a mio padre, seduto sulla panchina a leggere il giornale. Era immobile e perfetto come la divinità di cui suor Lucia parlava sempre.
Quando arrivò il mio momento, ancora una volta mi ritrovai le mani sudate per quell’emozione originaria che domina i momenti essenziali. Afferrai la catena, convinto che quella sarebbe stata la volta buona. Mentre già pregustavo i dolori al collo che sarebbero sopraggiunti per lo sforzo di alzare lo sguardo oltre il muro di cemento dei palazzi, mi si accalcavano in testa le solite domande: cosa si provava a volare? Cosa avrei visto da lassù? I miei nonni avevano anche loro le ali come gli angeli nella parrocchia dove andavamo la domenica?
Ero a un passo dal traguardo, la gola inaridita e il cuore in fibrillazione.
Ero pronto.
Però, invece di salire sull’altalena, mi ritrovai in un fango di foglie e terra. Ci misi un secondo per vedere quel bambino comparso dal nulla – più grande, più forte, più cattivo – che ora sedeva al mio posto.
Allungai la mano verso di lui ma subito la feci ricadere, umiliato.
Di tutte le domande che mi ero posto poco prima, solo una restava appesa: perché?
Perché non aveva aspettato il suo turno? Non glielo avevano insegnato?
Esistevano delle leggi, per quanto ne sapevo io: norme fondamentali, codici di condotta a cui non si poteva sfuggire, e che in quel momento un ragazzino pieno di hybris stava sfidando apertamente.
Eppure doveva aver chiare le conseguenze del suo gesto.
Tempo addietro infatti mio padre mi aveva esortato a non dire bugie e a rispettare le regole. Chi non lo fa finisce all’inferno, così aveva concluso, agitandomi il dito davanti al naso. Avevo annuito come si fa al cospetto di chi si teme e si ama.
Che poi, sempre in base a ciò che suor Lucia ci aveva detto, ai malvagi capitavano cose orribili già in questa vita – tipo il diluvio universale – e allora perché Dio consentiva l’esistenza di quel bambino tremendo? Perché non lo puniva?
E soprattutto: ero diventato malvagio io stesso a desiderare che Dio lo punisse? Mi ero precluso per sempre la possibilità di rivedere i nonni?
Domande che i bambini non si pongono, me ne rendo conto. Io invece ero invaso dalle domande, e negli anni sarebbero solo aumentate. Il tarlo del dubbio si era insinuato ormai e, visto che nessuno avrebbe preso sul serio ciò che avevo da chiedere, quel maledetto insetto avrebbe roso le mie certezze – quelle poche che avevo – fino a far crollare la mia cattedrale.
Una cattedrale mal progettata e ancor peggio costruita, lo ammetto.
Perché?, balbettai. Che ti ho fatto?
Niente, disse lui, pestando la pozzanghera e schizzandomi. Mi va così.
Mi guardai intorno: Dio o mio padre dovevano aver visto tutto e di sicuro erano già pronti a punire colui che si era ribellato.
Ma la panchina era vuota. Dovunque fosse andato, mio padre non era lì. Neanche Dio sembrava essere intenzionato a salvarmi. Eravamo solo io, piccolo e sporco, gettato nel fango e incapace di rialzarmi, e lui.
Lui, che con enormi occhi neri mi osservava dall’alto.
Lui, che si beffava di me con il sorriso di chi può.
A salvarmi non fu mio padre, e nemmeno Dio. Fu un altro bambino, comparso anche lui dal nulla. Nei miei ricordi ha i capelli biondi come il Cristo così poco ebreo nei disegni del libro di religione.
Non so da dove fosse sbucato, ma si avvicinò e ordinò al bambino malvagio di scendere e lasciarmi il posto. Aveva una voce seria, qualcosa di grottesco nei miei ricordi.
Quell’altro, già a mezz’aria e forse pronto a spiccare il volo, in risposta gli sputò addosso.
E io non ero preparato a quell’ulteriore gesto di arroganza: scoppiai in lacrime. Ero impotente di fronte a un’oscenità che non avrei saputo neanche replicare.
Ma il mio Cristo no: afferrò la catena e fece finire Lucifero nel fango, accanto a me. L’equilibrio era tornato, la giustizia si era manifestata sotto forma di violenza.
E questo era totalmente contrario a tutto ciò che mi avevano insegnato fino a quel momento.
Possibile che i miei genitori mentissero? Questo mi sarei chiesto, dopo. E no, mi sarei anche risposto: i miei genitori non potevano avermi mentito.
L’unica alternativa allora era che si fossero sbagliati. Possibile che mio padre e mia madre errassero su una cosa fondamentale che concerneva la giustizia e la punizione?
Questo era il dubbio che si era insinuato in me.
Di quello che accadde dopo ricordo solo una zuffa, capelli, mani, fango. Ricordo degli adulti, delle urla. Mio padre che mi trascina via, mi chiede come sto, cosa è successo.
Non ebbi modo di salutare il bambino buono, di ringraziarlo, di chiedergli un nome. Ma che importanza aveva un nome, dopo tutto? Lui era ciò che io sarei diventato solo con anni di conflitti con i miei, ormai disadorni della loro aura di perfezione, con altri uomini e altre donne. Quel giorno ebbi un assaggio della vita fatta di terra e sangue che mi avrebbe atteso, al di là di ogni menzogna a cui nel tempo abbiamo imparato a credere.
Tornati a casa chiesi ai miei perché quel bambino si fosse comportato così. Mi risposero che non lo sapevano, che a volte le persone si comportano male senza motivo. Ma non potevo più accettare una risposta come quella, non dopo quell’esperienza.
Quella stessa sera, poi, li vidi discutere a causa mia. Mi rintanai in bagno per far sì che la lavatrice coprisse le loro urla.
Mi sentivo tradito: le mie certezze crollavano e io non potevo farci niente.
Per anni non ebbi più il coraggio di salire sull’altalena. Continuai a osservare i passerotti da lontano, finché un giorno la maestra di scienze ci parlò di nidi e migrazioni, e trovai risposta a uno dei miei perché, ai quali intanto si andavano affiancando dubbi a cui nessuno sapeva dare risposta.
Più o meno in quel periodo scoprii anche cosa accade a chi muore. Allora compresi che i nonni non li avrei rivisti più.

Foto di copertina di Magale

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David Valentini è nato a Roma nel 1987. Scrive per CriticaLetteraria e ha pubblicato racconti per riviste come Carie, Altri Animali, Foga, Pastrengo, Crapula club e sul Spaghetti Writers, il collettivo di cui fa parte

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