Acqua

Acqua

 

Manca poco: minuti, secondi, istanti. Ancora qualche centimetro e l’acqua inghiottirà l’aria. Il sottopassaggio è buio, grattano e stridono i tergicristalli sul parabrezza asciutto. Provo a spingere le portiere, con le mani, coi piedi, le spalle: sono un pesce nella rete. Si alza il livello della marea e fasce di muscoli e nervi guizzano in ogni direzione. L’acqua arriva quasi al petto, che si solleva e si abbassa, in una frenesia che divora l’ultima riserva di ossigeno. I polmoni, due molli sacche spugnose, si gonfieranno come palloncini. 

Due gavettoni, come quelli che riempivamo alla fontanella di vicolo Mazzarò. Quando cadevano a terra, scoppiavano con un rumore sordo e una bolla d’acqua anneriva l’asfalto. Correvamo nei nostri calzoni leggeri; le urla smodate, le croste ai ginocchi, le unghie nere. Mia nonna me le strofinava con forza, con la saponetta pallida del marsiglia, l’acqua si anneriva e vorticava sopra lo scarico. Della casa di nonna ricordo bene un tavolino, con sopra i centrini all’uncinetto, le bomboniere e altre cianfrusaglie. Tra tutte ripenso alla gondola, souvenir che le aveva portato lo zio da Venezia, e che da piccola guardavo con grande inquietudine e sospetto. 

Prendo a pugni la cappotta e risuona nella carrozzeria un rumore secco, esplode un dolore acuto alle nocche e digrigno i denti come un animale in gabbia. Sento uno sciacquio continuo, uno scrosciare di pioggia che non vuole smettere. Da quanto tempo sono qui? Dieci, quindici, venti minuti. Il tempo adesso è verticale, segue il livello dell’acqua che sale e punta alla gola. Acqua dal cielo, acqua dai canali di scolo, acqua dalle fogne. Risale, supera le grate dei tombini, ingrossa. Scorre in rapide e si raccoglie nei sottopassi. Trasporta sacchi d’immondizia, rami secchi, plastica, cartoni annacquati. Qua dentro è un acquitrino di detriti. 

Acqua che ristagna come quella dentro i vasi sulla tomba del nonno. Portavamo sempre gli anthurium, quei fiori di un rosso volgare e carnoso; con il pistillo, giallo e protagonista, e lo stelo intriso d’acqua putrescente. Acqua limpida, come lacrime, stillava invece dalle rocce calcaree, quelle rocce che, al mattino e all’imbrunire, si coloravano come un confetto. L’acqua del monte era il ristoro dopo ore di acchianata, tra calura e sterpaglie, sentieri di terra battuta e sampietrini lucidati dai piedi dei pellegrini. E di sera, le luminarie tra i mori di pietra, il fiume di gente che dal Cassaro scende al mare e i venditori di semenza e mellone. Lo scricchiolio, sotto le suole, dei gusci di babbaluci; il riflesso dei fuochi sul golfo e tutti appresso al carro della Santuzza. “Ovunque proteggi” ci stava scritto sul cruscotto della Panda di papà, insieme all’arbre magique e al certificato di assicurazione. Di domenica andavamo a prendere l’acqua alle fontanelle che sembravano grandi abbeveratoi per buoi e cavalli. Il portabagagli era pieno di bidoni da quindici litri. Imbottigliavamo l’acqua e ce la portavamo a casa; la mettevamo dentro al frigorifero. A volte i rubinetti erano a secco e usavamo quella dei bidoni per lavarci. Purificava. 

Il corpo è attraversato da brividi, batto i denti ma la testa prende fuoco. È una febbre. Arde una vampa, nella penombra di questo tratto sommerso di tangenziale che costeggia la città. Caldo freddo caldo freddo. Tremo e sento bruciare. Pugni e calci, spingo sbatto crollo e ricomincio. Che fine orribile, annegare dentro un’utilitaria. Con il rosso della carrozzeria scrostato dal sole; i sedili sbiaditi e con le forme dei culi che, coi costumi bagnati, lasciano l’alone bianco del sale di mare. Mi guardo le mani, ho lo smalto sbeccato e le dita rattrappite. Così ho sempre immaginato gli annegati: rattrappiti. I vetri si sono appannati, ora tutto è avvolto in una nebbia autunnale. Avvicino la faccia al vetro del finestrino, lascio una macchia informe e delle piccole gocce colano giù.

Il naso, freddo e umido, toccava il vetro appannato della finestra in cucina; gli occhi spalancati guardavano fuori. Aspettavo, tra la pioviggine, di intravedere i fiocchi di neve. Quando alla televisione dicevano che sarebbe arrivato il grande freddo al Sud, impaziente attendevo l’evento magico. Il vento portava il nevischio dai monti vicini ma la neve, a queste quote e a queste latitudini, è una speranza bambina. Come me, che aspettavo tutta la sera, andavo a letto sconfitta e mi rigiravo sognando di trovare il balcone imbiancato. L’indomani, solo sulle colline c’era un timido velo bianco ma il sole si affacciava tra le nuvole, la temperatura risaliva. Questa terra non ci dà la leggerezza della neve. Qui, quando piove, piove soltanto. E quando piove assai, la città diventa un pantano.

Mi sono arresa, sono stanca, mi fanno male le mani, i reni, i polpacci. Non resta che attendere che l’acqua faccia il resto. Morire da sola, dentro un abitacolo che diventerà il mio tabbuto. Raggrinzita e inzuppata, in questa palude di acqua piovana e rifiuti; fredda e rigida, con lo smalto sbeccato alle unghie e un calzino bucato, al piede sinistro. Respiro le ultime boccate d’aria, un respiro famelico, a bocca aperta e occhi chiusi. Sento i polmoni aprirsi, insieme al cuore, e lo sciacquio diventare mare calmo. Né caldo né freddo ma tremo. Il battito accelera, accompagna dei lampi di luce nella memoria. È così che si muore, ripassi a mente la vita in fotogrammi. Mentre l’acqua preme il costato e scendo giù, mi stupisco nel non intravedere i momenti memorabili. Scorrono solo frammenti sfocati: la casa, un vecchio carillon, la maestra delle elementari, il muso umido del cane, la granulosità dei fichi secchi dentro ai buccellati, un pianto sommesso e uno scoppio di risa, l’odore dello shampoo alla mela verde e il gelato alla fragola che cola sulle dita, il riflesso della città sul mare nelle notti d’estate e poi un lampeggiante blu.

Foto originale di Marina Mongiovì

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Marina Mongiovì (1982) è nata alle pendici dell’Etna ma vive a Palermo. Scrive storie e scatta fotografie. 

Ha preso parte a due workshop con Letizia Battaglia e alle relative mostre al Centro Internazionale di fotografia di Palermo. Sue foto sono state esposte in mostre collettive al Wegil e alla Bresciani Visual Art di Roma. Per la Rossomalpelo Edizioni ha curato un racconto fotografico ispirato alle “Storie del Castello di Trezza” di Giovanni Verga, di cui è seguita una pubblicazione e una mostra personale al castello di Aci Castello.

Suoi racconti sono apparsi su riviste come Blam, Pastrengo, Morel voci dall’isola, Tremilabattute e sull’antologia “Sfocature” a cura della rivista Risme. 

Sta lavorando al suo primo libro che uscirà per Kalós Edizioni.

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