Sergio desiderava trovare la causa di tutto ciò. Sergio voleva un nemico. Soppesava la bottiglia di vetro nella stanza buia: era vuota, come lui. Calcificato in casa da giorni era in attesa di risposte; il giogo della rabbia lo sfiniva, lo costringeva a lavorare sul suo dolore, nel campo di sofferenza che era il suo cuore.
Detestava quei tremori alle mani, improvvisi, ineludibili come la decisione di Sara.
Sara che non lo guardava negli occhi mentre lo pugnalava alle spalle con parole di fiele.
Richiamò alla mente le formiche: così esili ma in grado di sollevare 20 volte il loro peso. Malgrado si fosse piazzato davanti alla porta per imprigionarla, Sara era riuscita a scansarlo, senza remore, gettandosi verso un nuovo presente.
La vescica protestò e gonfiandosi lo costrinse ad alzarsi dal letto. Il corridoio era ingombro di oggetti, mutati nel giro di attimi da ricordi a rimpianti. Sua moglie non li aveva presi, lui non riusciva a disfarsene ma non voleva neanche viverli, così li aveva ammassati alle pareti come condannati pronti a essere fucilati.
L’alcol e la scarsa illuminazione non lo aiutarono a prendere la mira. Sergio rideva pensando a lei, al suo volto incazzato nello scoprire l’acquitrino attorno al water. Uscì dal gabinetto e si appoggiò allo stipite. I souvenir accatastati nell’ombra l’osservavano. Lo giudicavano.
Col piede nudo andò a cozzare contro una pila di cornici ai margini del corridoio. Frammenti di vetro e rettangoli d’ottone vennero sospinti verso l’alto dall’impeto del calcio e dalle urla di un cinquantenne, ancora troppo attaccato a un’illusione di “noi” per accettare la sua solitudine.
Il caldo intenso lo fece vergognare e calmare: credeva di essersi pisciato addosso.
Si costrinse ad accendere la luce e trovò conforto nell’osservare come il liquido che gli chiazzava il piede fosse rosso e non giallo. Alcune schegge gli si erano conficcate fra le dita. Si fasciò l’arto con un asciugamano e cercò l’origine della ferita.
La foto l’attendeva sul pavimento.
Nell’istantanea Sergio abbracciava una donna minuta dalle labbra sottili. Gli occhi, ampi, ne invadevano la faccia conferendole un’espressione viva, guardinga. Sara scherzava andando a ricoprire l’alopecia di Sergio con i suoi folti capelli ramati. Rievocava ancora i profumi dell’incontro, il tocco della sua schiena, il peso dell’erba sotto i piedi mentre si abbracciavano. Sullo sfondo l’ampia pineta indicava, in lontananza, il loro paese natio incastonato sulle montagne: Schiavi d’Abruzzo. In un borgo di appena 900 anime era stato facile conoscersi. Poi emigrarono a Roma, con il miraggio della metropoli e delle infinite possibilità. S’inginocchiò a toccare l’interno della fotografia, ora esposto senza la protezione del vetro, e raggiunse con l’indice il volto di lei.
Appariva così distante, ora, il suo sorriso.
Restò lì, gobbo, ad alimentare quella fornace di collera.
Quando si riprese era riverso su un fianco sopra la necropoli di chincaglierie in una posa innaturale. Il piede ferito aveva calpestato la foto imprimendogli il suo marchio scarlatto. Compì alcuni passi schiacciando la felicità in pellicola. Goffamente si chinò a raccoglierla. Il sangue si era fatto colla e inchiostro conferendo alla pineta un velo opaco, stantio. Le piante ora apparivano vecchie, di un’epoca passata mai vissuta. Sergio ne era disgustato e prima di lui il suo corpo, che lo portò a vomitare in bagno. Cessate le ultime contrazioni, si vestì e attraversò l’inutile porta del suo appartamento. La Roma nottambula era stranamente silente; ascoltava il groove delle suole sull’asfalto mentre Sergio raggiungeva la sua auto rossa: il colore del suo piede, il colore della tanica vuota che stringeva in mano.
«Tu sei la mia lampada di Aladino e quando sarai piena scatenerai il Genio.» Urlò Sergio portandosi il capiente fusto alle labbra. Lo baciò e suggellò il patto.
Al primo distributore il ventre della tanica era colmo di 20 litri di benzina. Franz Ferdinand, alla radio, sottolineava il disagio con la sua “Take Me Out”:
“So if you’re lonely
You know I’m here waiting for you
I’m just a shot away from you
And if you leave here
You leave me broken, shattered, I lie…”
«Vaffanculo Franz! Non lo sai come mi sento.» Le accuse di Sergio non ostacolavano il canto:
“I know I won’t be leaving here with you
I say don’t you know
You say you don’t know…”
«Ti sbagli, so benissimo cosa devo fare. Nessuno lo riconoscerà più come parco. E ora chiudi quella fogna!»
Sradicò il frontalino dello stereo e lo gettò dal finestrino nell’oblio della notte. Per le restanti due ore i suoi unici compagni furono i cartelli autostradali e i suoi pensieri.
Parcheggiò la macchina in uno spiazzo naturale trasformato in discarica, distante qualche chilometro dal suo obiettivo. Abbracciò la tanica e iniziò la marcia. I brividi non lo avevano mai abbandonato, si intensificarono con la complicità del freddo, dell’altitudine e dell’alcol in corpo. Si avviò sullo stretto pendio di un sentiero montano che aveva conosciuto la sua infanzia. Dovette cambiare percorso a causa di un campeggio di turisti e proseguì per una pendenza ancor più ripida.
Ogni passo lo innalzava fisicamente e lo faceva sprofondare interiormente.
La pineta si trovava alla fine di una sporgenza delimitata da una discesa impervia. Il fitto degli alberi divorava la porzione di luce offerta dalla luna e Sergio non aveva torce ma solo un unico accendino, infilato nella tasca dei jeans.
Un uomo privato di ogni certezza accoglie l’imprevisto senza apparente stupore.
Così il suo volto non mutò espressione quando il piede arpionò l’aria invece del terreno; il suo corpo non si oppose alla caduta disarticolata, solo le braccia si ammutinarono e irrigidirono tenendo ancor più stretta la tanica. Furono anche le sole che si spezzarono, andando a impattare contro il tronco dell’albero.
Sollevò le palpebre e ascoltò il suo respiro: il corpo era un flipper e il dolore la pallina. Non riusciva a stargli dietro. Aveva le gambe disperse nel vuoto come bandiere senza vento. Le braccia erano incastrate fra i rami dell’albero, l’ampio addome faticava a ogni fiato. Fissato sul tronco a metri dal suolo cercò aiuto con lo sguardo e le grida: vide il buio, poi solo l’eco della sua voce. Torturò le corde vocali fino a quando non gli restarono solo sussurri. La tanica fu inghiottita dal sottobosco, assieme al cellulare.
«E così hai impedito che bruciassi la tua schifosa pineta.» bisbigliò Sergio alla corteccia.
La pineta distava solo pochi metri, era riuscito a renderla reale eppure, come nella foto, non poteva toccarla.
«La cosa peggiore è non aver capito che sarebbe finita. Il giorno prima c’era solo futuro, il giorno dopo c’era solo lei.»
Iniziò a piangere, aveva sete ma voleva continuare a parlare al custode di linfa. Odorava di foglie e resina.
«Ho consumato i suoi baci, i suoi sorrisi, i suoi orgasmi. Ho ingabbiato un amore che avrebbe continuato a dare gioia a entrambi,» riprese fiato, «Perché anche tu non mi parli? Perché non mi fai capire?»
Il sole, con deboli pennacchi di luce, si destava al nuovo giorno svelando l’ampio crepaccio ai piedi dell’albero.
«Io me la sono presa con te e tu mi hai salvato.» sorrideva Sergio, mentre le ultime forze lo abbandonavano.
«Devo dormire. Tu avvisami se arriva qualcuno.» Sentenziò in attesa del sonno eterno.
Arrivò invece il responsabile del campeggio con una squadra di soccorso. Imbracarono Sergio e lo deposero su una barella. Mentre riceveva i primi medicamenti vicino alle radici dell’albero, tornò cosciente.
«Signore mi sente? Sono del pronto intervento, la stiamo portando all’ambulanza, ha fratture scomposte alle braccia e una possibile commozione…»
Sergio smise di ascoltare, ciò che vide dalla nuova prospettiva lo colpì: c’era un cuore intagliato nella corteccia. Batteva da oltre trent’anni.
Due S alloggiavano nello spazio protetto.
«Non sono mai stato bravo a incidere.» disse Sergio chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra.
«Eviti di parlare, ha subito un forte shock. L’albero la imprigionava e abbiamo dovuto…»
«No!» interruppe Sergio. «Mi abbracciava. L’unica prigione l’ho costruita io. Le chiavi sono sempre state con me a prendere polvere.»
Il volto tondo del soccorritore annuiva bonariamente, senza capire.
Sergio era cullato nell’imbracatura. Prima di perdere nuovamente i sensi focalizzò le sue ferite. Il nuovo presente lo attendeva, lui doveva solo guarire.
Copertina di William Bersani
Un racconto molto intenso che sottende una sofferenza provata in prima persona, almeno questo è quello che mi è arrivato da lettrice. Ho trovato una certa musicalità nelle frasi a parte alcune parole troppo studiate, per creare l’effetto, che rompono appunto l’armonia dei periodi. Mi è piaciuto l’elemento natura cioè l’albero per riportare il protagonista alla vita. L’albero lo abbraccia, non gli permette di compiere una sciocchezza che rovinerebbe irrimediabilmente la sua vita. La natura che salva che riporta noi umani alla dimensione originaria dove scegliere è ancora possibile.
Ciao Roberta.
E’ stata una piacevole sorpresa leggere il tuo nome nei commenti!
C’è sempre un vissuto personale o un sottinteso profondo in ogni scritto, almeno io è così che vedo uno scrittore. L’arzigogolo, le metafore e le frasi auliche mi sgorgano spontanee ma, come hai giustamente notato tu, devo raffinare questo aspetto per evitare l’allontanamento del lettore dal foglio. Ci proverò già dai prossimi.
La visione simbolica che dai del racconto la sento molto affine alla mia.
Spero continuerai a seguirci e a leggerci.
Un abbraccio.
Caro Marco,
grazie della possibilità, che ci dai,di leggere i tuoi racconti e auguri di altri ancora,quando vorrai.
“L’abbraccio” è costruito con una forte tensione narrativa,che raggiunge il suo acme nel momento in cui si ha un ribaltamento:la natura,che il protagonista vorrebbe distruggere,diventa invece la sua salvezza; questo potere salvifico è come depositato “nel cuore intagliato nella corteccia
dell’albero”.
La brevità delle frasi risponde bene all’incalzare del ritmo della narrazione.
Ma grazie a te! E il ringraziamento è doppio sapendo che sei venuta a leggermi su una piattaforma su cui non ti trovi a tuo agio.
Qui, più di Ananas, l’effetto salvifico-catartico ha una connotazione strutturata e definita.
La brevità delle frasi (se escludiamo i dialoghi) è, al momento, il mio modo di espressione narrativa. Vedrò se nei prossimi racconti tenterò altre sperimentazioni.
Un abbraccio e alla prossima.
Bellissimo raconto, ricco di particolari e sentimenti, tra passato, presente… brillante inserimento della canzone, le contaminazioni mi piacciono molto,
gli avvenimenti nel finale sono molto romantici, essere salvato dall’albero su cui erano state, in un tempo passato e felice, incise le iniziali sue e di sua moglie, sembra il tocco dell’artista, geniale.
Buon proseguimento e che il mondo Le sorrida sempre.
Renata Marcella Capriz.
Sulle contaminazioni la pensiamo allo stesso modo. A volte lo scritto richiama mondi artistici differenti e io cerco di mostrarli nella loro veste originale, sia il testo di una canzone o un omaggio.
Grazie per i complimenti, però dammi del tu la prossima volta!
Un saluto e alla prossima.