Un verosimile caso di dimenticanza

Un verosimile caso di dimenticanza

Lucio Cascavilla ci racconta di mascherine e multe a Freetown, Sierra Leone, dove vive e lavora con i deportati, immigrati della Sierra Leone rispediti in patria dall’Europa e da altri paesi, nei quali cercavano di crearsi una vita migliore.

Pubblicazioni: Punk road in Cina (Robin, 2012), racconto dell’avventura decennale di Lucio come rock star degli Smegma Riot in Cina; L’utopia del rispetto (Lettere Animate Editore, 2016), romanzo di fantascienza; Sogni, segni e sintomi. Racconti dalla Cina (Morlacchi, 2019), racconti sulla gente conosciuta da Lucio nella sua lunga permanenza cinese, tra Kunming, Canton e Pechino.

***

E io adesso che faccio?
Nulla; non mi resta che seguire i due uomini in divisa, dopotutto a Freetown sono uno straniero.
Ero uscito dal mio guscio di aria condizionata, avevo indossato gli occhiali da sole e avevo solcato il marciapiede che ribolliva sotto il cielo terso, rischiarato dai raggi biancastri. L’asfalto che conduceva in collina rilasciava calore; un uomo, davanti a me, camminava senza scarpe.
Avevo portato la mano alla tasca, c’erano le chiavi di casa, i soldi e avevo, volontariamente, lasciato il telefono a caricare. Eppure quella sensazione di aver dimenticato qualcosa non mi aveva abbandonato.
Cristo!
E la mascherina?
Mi ero guardato indietro.
Dovevo stare fuori solo qualche minuto per acquistare il pane; due baguette, da duemila Leoni, la moneta locale: venti centesimi l’una. Nonostante la Sierra Leone non sia stata una colonia francese, per fortuna le baguette si trovano a ogni angolo.
Non valeva la pena rientrare per raccattare la mascherina; tanto non la indossa nessuno; né la vecchietta che vende le banane all’angolo della strada, né la bimba che sulla testa porta il contenitore di arachidi bollite per rivenderle.
Inquadro il mio rivenditore di fiducia. Vendere il pane, in questo paese è una faccenda da maschi. Frutta e verdura da femmine, ma il pane, non so perché, è da maschi.
Saluto l’uomo che è seduto all’ombra di una tettoia in alluminio arrugginita, indico le due baguette e pago.
Le inserisce in una busta di plastica, nera.
Lo saluto senza stringergli la mano e torno sui miei passi.
Alzo lo sguardo mentre sono alla ricerca della strada meno impervia, cercando di evitare contatti umani, tenendo le distanze di sicurezza: due poliziotti mi fissano.
Il primo mi rivolge la parola, ma io non capisco; sorrido, come un imbecille, e gli chiedo di ripetere quel che ha detto.
“Dov’è la mascherina?”
La porto tutti i giorni, è diventato un elemento imprescindibile del mio vestiario, come le mutande, eppure oggi l’ho dimenticata.
Balbetto qualcosa.
“Deve seguirci in commissariato.”
Mi altero, vorrei avere l’opportunità di rientrare a casa, all’ombra dell’aria condizionata. Non sono mai stato una spia, un giuda, ma mi guardo intorno a trecentosessanta gradi. Il tassista ha la mascherina bene agganciata sul mento, per proteggere la barba dall’incontro con pericolosi parassiti; il panettiere sull’orecchio, come gli auricolari del telefono; e l’uomo con la ventiquattr’ore stabilmente legata al gomito, per evitare l’insorgere della sindrome del gomito del tennista.
Il resto della popolazione locale presente in quella strada non ce l’ha perché non può permettersela.
Li indico ai miei accusatori: se sono colpevole io, allora lo sono tutti i filistei che mi circondano e che devono seguirci in commissariato.

***

Fisso le sei mattonelle alle spalle del piantone seduto alla scrivania. Verde pistacchio.
Non mi ero sbagliato. Una macchia verde nell’oceanica uniformità del muro color crema sporco.
Dovevano aver finito le mattonelle, non c’era altra spiegazione.
Attendo da circa trenta minuti il fio da pagare. Senza il telefono e la connessione è un’attesa interminabile.
Un ufficiale con dei gradi sulla spalla si è affacciato nella sala d’attesa, mi ha additato come il delatore (“Era lui che accusava gli altri.”) e si è defilato.
Il vecchio ventilatore grigio è sparato sul piantone di polizia e ho come l’impressione che a ogni giro che compie riduca la sua velocità.
Mi guardo attorno.
Un uomo entra ammanettato, senza la mascherina.
È colpevole del mio stesso reato?
Il vecchio orologio posizionato sopra al piantone è fermo. Deve essere un residuo di prima della guerra civile, a cui nessuno ha pensato di cambiare la batteria.
Mi sento come se fossi rimasto chiuso in bagno, in seguito a un violento attacco di dissenteria, ma senza essermi portato nulla da leggere.
Sudo.
Non posso nemmeno abbandonare quella sedia per andare a comprare qualcosa da bere. E temo al solo pensiero di chiedere un bicchiere d’acqua: dove potrebbero mai andare a pescarla?
Gli uomini in divisa passano e mi sorridono.
Cosa ho fatto per trovarmi lì dentro?
Cosa ho da nascondere?
La porta di fronte alla mia sedia si apre. Un graduato si dirige verso di me a lunghi passi, incede impetuoso, come se dovesse punirmi per la mia condotta irrispettosa. Si ferma a qualche centimetro dalla mia gamba, quasi la sfiora.
Ha il naso schiacciato, la fronte spaziosa e i capelli rasati; mi osserva per un attimo, poi sorride e mi invita a seguirlo. Io ricambio il sorriso, essendo straniero ed essendo in torto, e gli vado dietro, nell’ufficio: una scrivania, una sedia, un ventilatore spento e qualche montagna di carta.
“Eri in giro senza mascherina” dice facendo un cenno, invitandomi a sedere. Io mi accomodo e spazzo via ogni possibile polemica, tacendo.
“Ma noi non siamo razzisti e non ti permetteremo di pagare una cifra diversa da quella che pagherebbe un qualsiasi cittadino della Sierra Leone.”
Mi consegna una circolare, vidimata, timbrata e confermata dallo stesso presidente in carica. Osservo il foglio.
Il sudore non si ferma, non so se la temperatura all’interno della stanza sia più elevata di quella che c’era nella sala d’attesa.
Appoggio il foglio sul tavolo e chiedo quant’è. Voglio terminare questa pantomima e chiedere il conto, come al bar, dopo aver dimenticato quante birre ho ordinato, perché l’ultima è arrivata rovente al tavolo e l’ho mandata indietro.
Spero che a casa ci sia ancora la corrente e se non c’è accenderò il generatore: ho bisogno di immergermi sotto lo scroscio dell’aria condizionata e sentire le gocce di sudore cristallizzarsi sulla pelle e cadere al suolo solidificate.
“50.000 Leoni.”
Sono salvo. Avevo paura di non avere il contante e dover chiedere all’agente di accompagnarmi a casa a prelevare il malloppo. Cinquantamila sono solo cinque euro, per mia fortuna, li ho in tasca.
“Però non puoi pagarli a me. Ti farò un verbale e poi ti recherai in banca a pagare quanto devi allo Stato, però…”
È quel però che mi indigna.
Qual è la sua pena?
Qual è il suo problema?
Qual è quella virgola che cambia il momento in cui potrò fuggire via, sperando di non incontrare nessun’altra pattuglia che mi riporti all’interno della sauna del commissariato?
Correre al riparo, all’ombra delle fresche frasche tecnologiche.
“Però al momento non abbiamo il libro dei verbali. Abbiamo finito tutte le pagine e dalla sede centrale non hanno mai pensato di inviarcene uno nuovo.”
E allora?
Resto qui a rosolare sino a che dalla sede centrale, si spera, prima della fine della giornata, riescano a mandarne uno nuovo e io possa finalmente rientrare?
Voglio andare via.
“Vista la situazione di emergenza, potrai pagare me, in via del tutto eccezionale e poi provvederò io a riversare il denaro nelle casse dello stato. Ti faccio questa proposta, solo per evitarti il disturbo di dover rimanere nostro ospite sino a data da destinarsi.”
Mi alzo in piedi e in un afflato di affetto mi lancio per stringergli la mano, per ringraziarlo; ma poi ricordo il morbo, il distanziamento e la multa che arriva per la mancanza di protezione e mi fermo.
Infilo la mano in tasca e commetto il secondo errore della giornata. Prelevo una mazzetta di denaro voluminosa. Conto le cinque banconote che servono per arrivare all’ammontare previsto e gliele consegno.
Il suo sorriso si è ingolosito, l’acquolina cresce nella sua bocca. Io infilo i soldi restanti nella tasca e mi avvio verso la porta. Lui si schiarisce la voce e io, malgrado sia di spalle, sono costretto a voltarmi al suo cospetto. Ha la mano stretta a pugno, dinanzi alle labbra: un’estrema forma di gentilezza per evitare di contagiarmi?
Lo guardo senza parlare, ma anche con gli occhiali da sole, i miei occhi gli chiedono: dimentico qualcosa?
Lui si avvicina. Sa che all’interno di quella stanza ha ancora potere. Comanda lui. Io non ho ancora smesso di sudare e so che non lo farò nei prossimi minuti, sino a che non arriverò a casa.
“Mi chiedevo se non sia il caso di lasciarmi festeggiare il Natale in maniera più allegra, cosa ne dici? Trentamila basteranno… non ti preoccupare, non voglio spennarti…”

(I fatti e i personaggi di questa storia sono volutamente verosimili, ma gli accadimenti smaccatamente falsi.)

Copertina: foto di Lucio Cascavilla

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