Avevo intuito che la scorsa estate, per me indolente e di attesa, fosse il momento migliore per immergermi nella Trilogia delle pianura di Kent Haruf. E avevo ragione. Ci tenevo ad aspettare il momento giusto, per dedicarmici completamente, senza distrazioni. Non me ne sono pentita, soprattutto alla luce della recente notizia dell’uscita di Vincoli, il romanzo d’esordio di Kent Haruf, che grazie a NNEditore dal 5 novembre avremo anche in Italia. Leggere tutta d’un fiato la Trilogia e averla ancora addosso mi ha messa in una comoda posizione di attesa e trepidazione per l’evento. Quando si dice il tempismo.
Ho affrontato i tre libri, che hanno una trama autoconclusiva e quindi possono essere letti anche singolarmente – malgrado alcune storie proseguano negli altri volumi intrecciandosi con nuovi personaggi –, scegliendo un ordine casuale dettato dalle circostanze.
Ho iniziato da Canto della pianura per finire con Benedizione, passando per Crepuscolo, seguendo l’ordine temporale in cui si svolgono gli avvenimenti. E benedico la scelta, perché se avessi fatto diversamente non mi sarei perdonata di aver saputo in anticipo qualche esito, seppur condensato, riferito ai libri precedenti. Per qualcuno potrà essere un dettaglio trascurabile, e forse lo è davvero, visto che l’evolversi della trama è solo uno degli elementi di un libro (e neanche il più importante nel caso di Haruf), però consiglio fortemente questa scelta a chi ama lasciarsi trasportare dagli eventi mantenendo la curiosità della scoperta.
La narrazione di Haruf mi fa pensare a uno spettatore davanti al grande schermo: è come essere seduti al cinema a guardare le vite degli altri scorrere, senza altra chiave di comprensione se non i loro comportamenti. Nessun accenno a movimenti interiori, nessun conflitto emotivo, niente incursioni nei pensieri. Solo movimenti, azioni, fatti e parole. Dialoghi che si amalgamano nel testo fino a mimetizzarsi, anche graficamente, pur riuscendo a tratteggiare con abilità personaggi e dinamiche, tanto da far avere al lettore l’impressione che i capitoli siano molto più lunghi di quanto non siano in realtà. L’autore, infatti, in poche pagine racchiude una gran densità di narrato con una prosa asciutta, senza frasi superflue, preamboli o giri di parole. Haruf va dritto al punto, narra e descrive, senza desiderio di stupire (anche se, almeno in un caso, con me c’è riuscito). In questo senso, il colpo più grande l’ho avuto proprio in Crepuscolo, quando in poche pagine ho sentito un pezzetto di mondo sprofondare e provarne un dispiacere sincero, più reale che letterario. Un distacco a cui non ero preparata e che ancora oggi, al pensiero, mi suscita malinconia.
In Haruf c’è una distanza che lascia sempre aperte possibilità: mi è capitato di credere di aver inquadrato un personaggio, per poi dubitare del mio giudizio qualche capitolo dopo. E’ quella distanza che abbiamo nella vita reale con le persone, che crediamo di conoscere, ma basta un qualche evento per mostrarci facce prima nascoste, solo a noi o al resto del mondo.
Il suo sguardo esterno però non toglie nulla alle emozioni del lettore, che non può far altro che affezionarsi ai personaggi, tifare per alcuni di loro e apprezzarne le contraddizoni (come è accaduto a me per i fratelli McPheron e a Victoria Roubideaux, tanto per dirne alcuni).
Parlare della trama o delle vicende che si alternano in questi tre romanzi sarebbe inutile: Haruf avrebbe potuto scrivere altre storie, di altre cento persone diverse, e non sarebbe cambiato nulla, perché il punto non è di cosa parla, ma come lo fa. Che il protagonista sia il proprietario di un negozio di ferramenta, un insegnante di liceo o un’assistente sociale, nulla cambia: sotto lo sguardo di Haruf le persone comuni, anche banali se si vuole, riescono a brillare nella loro autenticità. I veri personaggi principali sono i legami semplici tra le persone e la forza che racchiudono, i piccoli gesti, le scelte che cambiano il corso delle vite, la capacità di accogliere l’altro senza paura di farsi invadere, il coraggio di ricominciare, di dire le proprie verità anche a costo di perdere lavoro e famiglia. Piccole persone capaci di grandi gesti. E senza il bisogno di un pubblico ad applaudire, solo per la convizione che fosse giusto farli. Perché sono sicura che se chiedessi a uno degli abitanti di Holt perché ha fatto del bene a un vicino, alzerebbe le spalle e direbbe che “era giusto così, ho fatto quello che andava fatto”.
Questo credo sia il cuore della Trilogia: l’apertura al prossimo, il mettersi a disposizione di qualcuno che fino a ieri poteva essere estraneo ma che, dal momento in cui entra nel mio campo visivo, diventa qualcuno di cui occuparmi, a cui aprire la casa e la vita. Nessuno è solo a Holt, a meno che non lo voglia. C’è sempre un paio di occhi a vegliare su di lui, ed è rassicurante tuffarsi nella realtà di Haruf, soprattutto in un momento storico in cui viviamo l’esatto opposto, fatto di rigidità e chiusura verso il prossimo.
In Haruf c’è speranza, affetto, calore ma anche solitudini, attenzione all’altro, verità taciute, separazioni non del tutto elaborate, fragilità che separano, duro lavoro, inadeguatezza genitoriale, amicizia, amori giovani e scoperti quando non sembrava più possibile farlo, lutti e perdite, aiuto reciproco, distanze geografiche o interiori. Condensando tutto in una frase direi che nelle pagine di Haruf c’è umanità, un’umanità semplice e istintiva che arriva dritta al cuore del lettore e lo conduce attraverso emozioni autentiche, facendo sentire anche lui parte di quella comunità che ormai sembra appartenere solamente a Holt.
Per leggere ancora qualcosa che scrissi sul mondo di Holt: “Dal libro al film: Le nostre anime di notte“