Il sacchetto congolese

Il sacchetto congolese

Lucio Cascavilla torna a Spazinclusi per raccontare le esperienze romane in preparazione per una partenza per Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo.
Le sue pubblicazioni: Punk road in Cina (Robin, 2012), racconto dell’avventura decennale di Lucio come rockstar degli Smegma Riot in Cina; L’utopia del rispetto (Lettere Animate Editore, 2016), romanzo di fantascienza; Sogni, segni e sintomi. Racconti dalla Cina (Morlacchi, 2019), raccolti nella Terra di Mezzo durante la sua lunga permanenza cinese, tra Kunming, Canton e Pechino; Tre storie per non morire (Morsi Editore, 2022), graphic journalism scritto da Lucio Cascavilla e illustrato da Marco Vesco, Assia Ieradi e Riccardo Mattia.
È inoltre regista del documentario The Years We Have Been Nowhere, realizzato in Sierra Leone.

***

– E lei ha accettato?
Rimasi perplesso, come su un treno fuori orario bloccato in galleria, rapito a osservarne le pareti attraverso i finestrini. Avevo l’impressione che l’oggetto del contendere, un sacchetto di carta, bianca e spessa, con dei ghirigori a decorarla, non fosse nelle mie mani.
Sì, avevo accettato e, nel momento di accettare, avevo capito che quella era una cazzata.
– E perché ha accettato? – chiese il carabiniere.

Mi ero arrampicato con il fiatone sulle scale di marmo ocra scuro, così larghe che avrebbero permesso la discesa o la salita a un plotone di soldati. Giunto alla porta bussai, dall’altro lato una voce borbottò in italiano, poi dei passi lenti e pesanti si avvicinarono. Attesi senza spazientirmi.
Un uomo corpulento, sulla cinquantina, aprì la porta di quel tanto che bastava a inserirvi la testa per squadrarmi da capo a piedi, con sufficienza.
– C’è il campanello, perché ha bussato?
– Chiedo scusa, – risposi confuso, trasformando il mio sorriso di cortesia in una smorfia indefinita tra il timore, la paura e il cercare di compiacere il mio interlocutore. – Pensavo che non funzionasse.
– Che cosa c’è?
– Sono Rambaldi, devo ritirare il passaporto, sono venuto a chiedere il visto, qualche ora fa…
– Ah sì! Adesso mi ricordo di te…
– È pronto? Mi avete detto di ripassare intorno alle 14…
– Certo che è pronto. Ma…
L’uomo si guardò intorno, a trecento sessanta gradi, per essere sicuro che la nostra discussione avvenisse senza alcun orecchio indiscreto, poi mi fissò con gli occhi dilatati, e il sorriso complice.
– Ma…?
– Non hai niente per me?
L’uomo con la testa grossa, gli occhiali di corno nero e una prominente pancia, si sporse in avanti e spinse in fuori la mano sinistra con il palmo all’insù, mentre con la destra si appoggiava a un bastone di bambù, che lo faceva sembrare più male in arnese di quel che in realtà fosse.
Ci fu un rapido scambio di sguardi. Infilai la mano destra nella tasca, sperando di pescare la banconota del valore giusto. Avvicinai alla sua mano cinque euro e lui con un sorriso spalancò l’uscio, invitandomi a entrare.
– Siediti qui! – ordinò mentre arrancava verso uno degli uffici per annunciare la mia visita.
La sede dell’ambasciata congolese a Roma era un appartamento al secondo piano di un antico palazzo aristocratico, ristrutturato negli anni sessanta.
L’uomo si allontanò e lo sentii parlare in una delle lingue tradizionali del Congo. Poi tornò indietro, si affacciò nel piccolo atrio e mi fece un cenno con la testa, del tipo: puoi andare.
Mi incamminai nel corridoio senza finestre. L’unica luce accesa del passaggio funzionava a intermittenza, illuminando le mura spoglie, ricoperte di carta da parati invecchiata male, e oscurandole all’improvviso.
Mi affacciai sull’unico ingresso che non era sbarrato e bussai, lieve, sulla vecchia porta spalancata, con il vetro opaco al centro, contornato da truciolato marrone, scurito dall’usura.
Alla scrivania c’era un uomo che non sorrideva e che mi fece il gesto secco, con l’indice e il medio, di avvicinarmi. Gli consegnai la mia ricevuta e lui scartabellò tra i vari faldoni impilati sulla scrivania e il mobiletto che si trovava alle sue spalle. Da una cartellina rosso scuro tirò fuori il mio passaporto.
– Dove va?
– A Bukavu…
– Mi dovrebbe fare un favore…
Deglutii in silenzio.
Avevo accettato di fargli il favore, avevo impugnato il sacchetto bianco con i ghirigori ed ero tornato indietro.
Eddy mi stava aspettando appoggiato al tronco di un albero, con uno stuzzicadenti infilato tra le labbra, al posto della classica sigaretta. Non lo utilizzava per togliersi dagli interstizi piccoli frammenti di cibo, ma perché diceva che lo aiutava a smettere di fumare. Io avevo notato, e avevo fatto a meno di dirglielo, che aveva aumentato il consumo sia delle sigarette che degli stuzzicadenti. Mi aveva atteso in silenzio e mi aveva introdotto nel portone accanto a quello dell’ambasciata.
– Sapevo che doveva esserci una ragione, per avermi chiesto di venire, – aveva blaterato.
Io, ancora intontito, avevo seguito il suo consiglio. Non era a questo che servivano gli amici?

– E perché ha accettato? – ripeté il carabiniere con un sorriso superficiale, giocherellando con il telefono tra le mani.
Perché hai accettato, e soprattutto sei venuto qui a rompere le palle che, anche se siamo una forza di pubblica sicurezza, non abbiamo voglia di fare un cazzo? Questo era quello che avrebbe voluto dire, e che non disse.
Io contai fino a dieci. Eddy che mi scortava, avrebbe voluto intervenire, biascicò qualche parola, appellandosi alla costituzione, ma l’uomo scrollò le spalle.
– In pratica cosa volete che io faccia? – Citò la bibbia.
Il piantone aveva avuto un’intuizione: se si fosse messo a disposizione e avesse ascoltato le nostre richieste, noi avremmo imboccato la porta e ce ne saremmo andati.
– Per fare un piacere a quell’uomo, ho accettato di portare il suo sacchetto in Congo. Visto che è un paese in guerra ho accettato per evitare problemi con l’ufficio immigrazione del paese in cui vado e con chi mi deve rilasciare il visto per entrarvi. Quindi, sapendo di arrecarle un grave disturbo, volevo chiederle se per caso fosse possibile passare questo pacchetto sotto uno scanner, per capire se all’interno vi è qualcosa di illegale…
Arrivai alla fine della frase senza fiato. L’avevo pronunciata senza interruzioni, per paura di dovermi pentire di quel che dicevo.
Il carabiniere al di là del vetro mi guardò perplesso, socchiuse gli occhi, e la bocca assunse una forma strana ed emblematica che sembrava dicesse: Ma non potevi rifiutare? Così avresti evitato problemi a te stesso, al tuo amico, e anche a me che adesso avrei potuto finire di leggere Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.
Eddy si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli sulla maglia a mezze maniche che indossava sotto al maglioncino di cotone a V.
Il carabiniere si schiarì la voce, tossicchiando, al di là del vetro:
– Non facciamo questo servizio, anche perché qui, in questa sede, non abbiamo il macchinario… Quindi non so cosa dirvi…
– E la polizia invece?
Il carabiniere si illuminò di immenso: sembrava il Mosè biblico che aveva appena parlato con il roveto in fiamme.
– Le forze di polizia e di sicurezza non forniscono questo genere di servizio. Benché io comprenda quel che dite, non posso aiutarvi in nessun modo.
Eddy rimettendosi gli occhiali sul naso, stava per rispondere, ma si zittì. Io sbuffai, prendendomela con me stesso. Perché avevo deciso di fare un favore a uno sconosciuto che, per l’emissione di un regolare visto, era stato lautamente pagato?
– Però…
Entrambi ci fermammo.
– Potete aprirlo oppure andate in aeroporto e spiegate quel che avete spiegato a me, ai miei colleghi… Sempre che abbiano il tempo di potervi aiutare. E non abbiano intenzione di arrestarvi, dopo aver scoperto cosa c’è all’interno di quel sacchetto.
Il cielo era terso. Inspirai il profumo della donna che approfittava della porta aperta da noi per entrare e seguii Eddy all’esterno della stazione dei carabinieri.
– Cosa potrà mai esserci in questo pacchetto?
Frammenti di verità, diamanti, oro, droga, coltan, uranio, fotografie compromettenti, materiale politico per l’opposizione, strumenti di ricatto, proiettili in titanio irrintracciabili, materiale pedo-pornografico, semi e bulbi per distruggere la fauna congolese, uova di insetti che avrebbero alterato l’ecosistema.

Aeroporto di Goma, Congo orientale, zona di guerra: il mio aereo atterra, di fianco agli elicotteri della forza di pace dell’ONU, il pacchetto ben occultato all’interno della valigia. La sicurezza dell’aeroporto si stringe intorno all’unico nastro che trasporta bagagli.
Un tintinnio di manette, una voce stridula e autoritaria che scandisce in francese.
– C’hai provato, uomo bianco, hai provato a importare questa roba proibita e adesso sei fottuto. Finirai in prigione!
Le prigioni del Congo sono quelle che se ne tocchi i muri, muori; prendi l’AIDS, il colera, il tifo, la malaria e l’ebola, tutto assieme.
Quattro di loro mi immobilizzano, mi ammanettano e mi sollevano di peso.
– Ma ho dei soldi! – mi ostino a urlare ai miei carcerieri. – Posso corrompervi!
Il gruppo di militari, con le divise blu scuro, mi trascina fuori dalla stanza per il recupero dei bagagli. I muri bianchi, incrostati di umidità dalla stagione delle piogge, il soffitto basso, con le luci al neon, algide, malate.
– Non c’è tempo per la prigione, eliminiamolo qui e ora.
Un capitano sorridente guida il gruppo all’esterno e mi posiziona dinanzi a un muro bianco, candido, immacolato. Cerca la posizione giusta, come se dovesse mettermi in posa per una foto.
Poi ordina a dieci dei suoi sottoposti di imbracciare i fucili. I soldati semplici obbediscono: appoggiano il calcio sulla spalla e prendono la mira. Sento un mancamento e scivolo all’indietro, lo zaino con cui viaggio, del peso di ventiquattro chili, ferma la mia caduta contro il muro, lasciandomi in piedi, ma in diagonale. Mi muovo come una tartaruga che si è rovesciata sulla schiena cercando di raddrizzarmi, senza riuscire a trovare appigli.
– Non sono stato io, non è colpa mia, non sapevo cosa ci fosse in quel maledetto sacchetto che ho accettato. Sono una vittima in questo complotto!
Il militare sorride mentre si aggiusta gli occhiali da sole a specchio.
– La legge non accetta l’ignoranza.

Sentii il rumore di una sedia. Era Eddy che mi invitava a sedermi, osservai un tavolino, dalla foggia vetusta. Ci eravamo accomodati in un locale romano che aveva voglia di far tornare di moda un incrocio tra la belle époque e il futurismo.
Riascoltai nel cervello la voce del responsabile dell’ambasciata congolese, in italiano chiaro e sintetico con lieve accento straniero:
– Due biberon e delle medicine, sai perché? Perché in Italia costano meno. Mi hai detto che ti ci vogliono quaranta ore per arrivare dalla casa dei tuoi genitori a Foggia a quella di tua moglie a Bukavu, giusto? Allora atterri a Goma, poi arrivi in barca a Bukavu, ti riposi il primo giorno, ti riposi anche il secondo giorno e poi chiami questa persona che arriva a casa tua e si prende questo sacchetto.
– E tu non le portare queste cose! – disse Eddy tranquillo, sfogliando le pagine del menù. – Arrivi al primo bidone e butti tutto, senza nemmeno porti il problema.
– E dici che quando devo rifare il visto, quello non si ricorda?
L’uomo che mi aveva dato il sacchetto era un pubblico ufficiale, che avrebbe sempre potuto rifiutarmi il prossimo visto per entrare nella Repubblica Democratica del Congo. E questo mi avrebbe lasciato a piedi, con una moglie ferma al di là della cortina d’ebano.
Un posacenere centrale, abbondante per poter spegnere sigarette e sigari, un porta zucchero giallorosso, saliera e pepiera classici. Mi guardai intorno e mi accorsi che il bar non aveva rinnovato il mobilio da alcuni lustri.
Intravidi uno specchio, di quelli che sarebbero piaciuti alla mia bisnonna.
– Ma come cazzo fai a sapere che la tua bisnonna, avrebbe apprezzato il mobilio? – mi chiese Eddy.
Trasecolai. Avevo parlato a voce alta, come se avessi a che fare con una giuria che avrebbe potuto condannarmi alla lapidazione in pubblica piazza.
Il bar era pieno zeppo di persone, e tutti avevano ascoltato il mio comizio: condanna a morte, prigione a vita, fine della vita.
Poi un’iniezione di ottimismo: poteva un addetto all’ambasciata congolese consegnare a me, uno straniero, che andava a visitare la moglie, che lavorava per la cooperazione internazionale, del materiale compromettente?
Sarei atterrato, avrei passato l’ufficio immigrazione, che mi avrebbe chiesto cosa cavolo fossi arrivato a fare in quello sperduto angolo di mondo, avrei raccolto i miei stracci e le sue medicine e sarei passato oltre. Avrei imboccato l’auto, mi sarei diretto al minuscolo porto, preso il battello e dopo quattro ore sarei finalmente giunto nella città nella quale risiedevo. Mia moglie sarebbe arrivata a prendermi, avremmo affrontato il traffico dell’ora di punta, e saremmo arrivati a casa e avrei composto quel numero.
E poi?
Qualcuno sarebbe venuto al mio cancello per elemosinare il dovuto. E nell’aprire la porta per lasciarlo entrare quel qualcuno avrebbe studiato il giardino, ispezionato il patio e con occhio clinico sarebbe arrivato a smontare, pezzo per pezzo, tutto quello che vi era accumulato e, in conseguenza di ciò, sarebbe arrivato per derubarmi di tutto.
Elencai tutto quello che avrei potuto rubarmi se fossi stato ladro di me stesso: tre computer, tre telefoni cellulari, incluso quello satellitare, la macchina fotografica, gli hard disk, la moneta contante che era nascosta, ma non troppo, e le zanzariere per proteggerci dalla malaria.
– Scusa, – disse Eddy. – Per quale motivo un gruppo di criminali dovrebbe ricevere aiuto da un basista che vive in una capitale europea, ti sta chiedendo un favore, e potrà sì e no fregarti due computer di scarso valore?
Si avvicinò la cameriera con il corpo decorato da centinaia di piercing e da svariati anelli sul collo che ne promettevano, come per gli alberi, l’attestazione dell’età.
– Ci penso io, non preoccuparti, – proseguì Eddy, conscio che i miei gusti erano quelli di un campagnolo, servo della propria gola.

Aeroporto di Goma, Congo orientale, zona di guerra.
Passaggio della frontiera, polizia:
– La valigia l’ha preparata lei, Rambaldi?
– Certo!
Avrei dovuto mentire mentre il poliziotto in servizio alla frontiera si divertiva a esaminare tutto quel che avevo riposto nel bagaglio, e lo immaginavo che, con fare liturgico, avrebbe estratto quel sacchetto, sigillato con scotch da pacchi marroni, e lo avrebbe mostrato a tutto l’aeroporto, ostentandolo sulla testa, come il prete con il corpo di Cristo: E questo cosa cavolo è?

La cameriera, nascosta dalla foresta di piercing che le occludevano le narici e parte della bocca, era tornata indietro e disponeva le posate sul tavolino, avvolte in un paio di tovaglioli dal colore immacolato.
– Passami il sacchetto, – mormorò Eddy.
Impugnò il coltello e lo infilò rapido nello scotch, mentre una goccia di sudore gli percorreva il naso.
Mi defilai verso il bagno, lasciando il mio amico in attesa che l’illegalità eruttasse dal sacchetto. Chiusi la porta alle mie spalle e mi ci appoggiai, per riprendere fiato. Ripensai a tutto in un nanosecondo: arresto, sequestro, rapimento, ricatto, tassazione, violenza, sopraffazione, abigeato e omicidio.
Mi avvicinai al lavandino, mi lavai il viso e le mani, come fossi Ponzio Pilato.
Uscii e giunsi al mio scanno, dove mi sedetti giusto in tempo per osservare Eddy che, concentrato come se stesse preparando dei preziosi documenti, aveva deposto il sacchetto sul mio trolley e ne aveva analizzato il contenuto.
Nel sacchetto c’erano tre pacchetti. Il primo conteneva due biberon: uno più grande da trecento centilitri di latte, e l’altro da centocinquanta. Nel secondo c’era un hard disk da quattro terabyte, che era stato tenuto aperto, di modo che potessi constatare che non ci fosse materiale pericoloso, propagandistico e contrario a qualsiasi tipo di governo.
Eddy, impugnando il coltello argentato che, a seconda dei movimenti, rifletteva la luce solare, si stava dedicando alla terza perla della collana: un misterioso agglomerato formato da più pezzi, ricoperto da scotch marrone per pacchi che rendeva impossibile la lettura delle incisioni sul pacchetto. Il coltello vibrava rapido, mostrandosi e nascondendosi intorno allo scotch.
All’improvviso la cameriera tornò, e dispose i piatti dinanzi a noi. Eddy controllò che l’ordinazione giunta fosse quella giusta e proseguì, con un sottile filo di sadismo a infierire sul pacchetto.
– E allora?
– Allora non c’è problema! O meglio…
Osservai quel che avevo dinanzi e capii che avevo sbagliato a fidarmi del suo ordine. Lui era a dieta, non io: insalatina verde per entrambi e bottiglia d’acqua liscia.
– Di questa roba non ti devi preoccupare. Sono strumenti per misurare la glicemia.
– Ah!
– Sicuramente li sta inviando a qualcuno che è malato.
– Posso rilassarmi?
– Devi solo controllare che l’hard disk sia vuoto.
Mi guardai intorno.
– Eddy, ma il sacchetto?
– Quale sacchetto?
– Quella che conteneva tutta questa roba?
– Ti serviva?
– Certo che mi serviva!
– Mi sa che se n’è volato via.
Mi alzai e cercai in giro, infastidendo qualche cliente, poi tornai sui miei passi. Eddy si guardò intorno, mentre con la forchetta raccattava altra insalata nel piatto e la portava alla bocca.
– A che ti serviva?
– C’era scritto il numero della persona da chiamare una volta giunto in Congo.
– E adesso? – Eddy riprese a mangiare.

Salutai Eddy alla soglia dei binari e mi allontanai sul numero quattro, quello che mi avrebbe riportato a casa. Acquistai una bottiglia di acqua naturale, fresca, e mi affrettai, ansioso di accomodarmi sul mio sedile. Salii sul treno e deposi il trolley sulla cappelliera e lo zaino al mio fianco; lo aprii e tirai fuori il libro che stavo leggendo. Un attimo di indecisione: era opportuno togliermi le scarpe, dopo aver camminato tutto il giorno per le strade di Roma?
Estrassi il passaporto dalla borsa dei documenti e osservai il visto con un sorriso. Aveva gli stessi colori della bandiera congolese e diceva che sarei potuto entrare nel paese dopo il 21 settembre del 2024 e che ci sarei potuto rimanere sino al 20 febbraio del 2024. Non il 2025, ma quello dell’anno trascorso da almeno sei mesi.
Estrassi il telefono dalla tasca, feci una foto al visto e lo inviai all’addetto che mi aveva riconsegnato il passaporto e mi aveva affidato il sacchetto. Mi alzai in piedi e indossai di nuovo lo zaino sulle spalle, pronto a scendere, mentre le porte si chiudevano.
Lui mi inviò un gentilissimo messaggio di risposta.
– Ha ragione, mi spiace, è stato un errore come tanti.
– Posso tornare adesso, così la risolviamo?
Il treno si mosse con un soffice rollio e io maledissi me stesso, le porte e il treno. Vidi il segnale del freno d’emergenza.
– Adesso non sono in ambasciata.
– E quando posso venire?
– Quando deve partire?
– Il 24 settembre…
– Allora che fretta c’è? Venga la settimana prossima… o quella dopo ancora…

Copertina: foto di Lucio Cascavilla

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