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Seconda parte del racconto di Lucio Cascavilla sulle sue disavventure nella realizzazione del documentario The Years We Have Been Nowhere. È ancora attivo il progetto di crowdfunding per il completamento del documentario.
4- L’altera
Un’altra goccia di sudore scivola sulla fronte. Si inserisce tra la montatura degli occhiali da sole e il naso. Brucia.
Un altro movimento nello stomaco. Ho resistito in momenti peggiori, posso farcela anche oggi.
Sono in mezzo alla strada, nudo, senza telecamera e senza cameraman. Ancora una goccia. Adesso ne ho la fronte imperlata.
Spero solo che Ross non si trasformi in Fatima Sheriff, la professionista della fregatura.
Si era presentata chiedendomi una camionata di soldi per sbraitarmi la storia del fratello, emigrato, sfruttato, deportato e abbandonato.
Eravamo giunti all’accordo: un carrettino di danaro, locale, dopo che lei aveva ululato al cielo, alla terra, alle persone e alle bestie che veniva davanti alla telecamera per evitare al resto dell’umanità il dramma che suo fratello aveva vissuto.
Era animata da nobili sentimenti eppure, nonostante fosse disoccupata, non poteva perdere la giornata di lavoro, e aveva preteso un emolumento che le avrebbe garantito il salario dell’intero mese.
Fatima dopo un lungo tira e molla, aveva deciso quando farsi intervistare: 2.30 del pomeriggio del giorno prima.
Il caldo era appiccicoso, la luce accecante, l’umidità elevata. Respiravamo la polvere sollevata dal vento che scendeva dalle colline.
Io continuavo a bere; l’acqua causa dipendenza e contiene almeno sedici sostanze cancerogene.
Alle 13 le avevo fatto uno squillo, ma lei non aveva risposto. Non mi ero preoccupato. C’era ancora un’ora e mezza prima delle riprese.
Dopo tre ore e ventuno minuti, ventisette telefonate a cui non aveva risposto, tredici messaggi e quattro Whatsapp, avevamo abbandonato il luogo dell’appuntamento ed eravamo rientrati a casa.
Le sue scuse erano arrivate sette ore e trentaquattro minuti dopo.
Era rimasta senza benzina? Aveva una gomma a terra? Non aveva i soldi per prendere il taxi? La tintoria non le aveva portato l’abito da sera? C’era il funerale di sua madre? Era crollata la casa? C’era stato un terremoto? Una tremenda inondazione? Le cavallette?
Non era stata colpa sua!
Era stata dal dentista e non aveva potuto rispondere a nessuna delle ventisette telefonate. Con il suo messaggio, di vaghe scuse, elemosinava un’altra opportunità: non era stato un gesto volontario.
Non rispondere a ventisette telefonate?
Involontario.
Evitare tredici messaggi?
Involontario.
Prendere un appuntamento col dentista, mentre io l’attendevo sul set?
Involontario.
Adesso ne ero certo: non conosceva il significato di quella parola.
Le avevo chiesto di ridursi l’ingaggio. Aveva rifiutato, sdegnata. Perché lei non aveva fatto nulla di male. E non si sarebbe presentata neppure oggi.
Mi sbagliavo. Le cose erano già crollate.
5- La sbronza
Un’altra goccia di sudore. Il mio intestino comincia a tirare calci come un mulo. Non è lo stomaco e non è l’intestino.
Cos’è?
Il piloro?
Cristo!
Millicent.
Ci si era messa anche lei di mezzo nel crollo e non per aiutarmi a sostenere le travi della casa, ma per distruggerle.
Millicent è una mia amica. E ci vediamo spesso per bere innumerevoli birre assieme. Tutte nella stessa giornata. Tre giorni prima l’inizio delle riprese, l’unica testimone donna del documentario aveva iniziato a chiedere soldi, un camerino riservato, una bottiglia di champagne quotidiana, del caviale, prima e dopo le riprese, il red carpet, una cuoca personale, perché era a dieta, e un’acconciatrice che la rifornisse delle migliori parrucche.
Dopo averle procurato tutto, aveva smesso di rispondere al telefono, e si era eclissata.
Era un segno?
Credevo nei segni?
Millicent era stata la soluzione: le avevo fatto imparare la parte a colpi di shottini di whisky ed ero pronto a scagliarla davanti alla telecamera.
Sarebbe stata la mia salvezza.
L’unica che non mi avrebbe fatto perdere la faccia, dinanzi ai donatori che avevano sostenuto il progetto.
Alle cinque di mattina mi ero alzato per andare a pisciare, al buio. Mentre richiudevo gli occhi, il telefono aveva vibrato. Avevo blaterato e imprecato e sperato che non fossero pessime notizie. Perché quelle non arrivavano mai sole. E se il messaggio avesse annunciato l’arrivo di un tornado, il giorno successivo si sarebbe concluso con la consegna di un container di merda.
Millicent era andata a dormire alle cinque e aveva bisogno di tempo.
Cristo!
Il tempo era proprio quel che ci mancava. Millicent non poteva svegliarsi alle otto, ma abbisognava almeno altre quattro ore di sono, per essere performante sul set.
Adesso sentivo la maglietta zuppa di sudore. Avrei avuto bisogno di cambiarmi, ma restavo fermo in strada. Con la mano tesa, in attesa di un tre ruote che mi portasse all’appuntamento.
Le cose erano crollate, ma la nebbia mi impediva di poter osservare oltre l’orizzonte.
C’era un futuro, per me?
6- Il gonzo
Di nuovo una goccia, questa volta scivola lungo la tempia, sfiorando l’orecchio e lanciandosi sulla maglietta.
Impugno il telefono e cancello la prenotazione del bar dove avremmo dovuto girare; il cameriere che aveva preteso un extra per aprire il locale in anticipo, avrebbe ricevuto lo stesso il denaro.
Io sono fermo, immobile. Ogni movimento potrebbe aggravare la situazione. Il bagno più vicino è a novecento ottantasette metri di distanza.
Cosa posso aver mangiato che mi ha fatto male?
Il pesce secco che galleggiava negli ettolitri di olio di palma preparati dalla cambusiera?
O le uova con cui farciva il panino al pollo che doveva servire da colazione e che in molti casi fungeva da cena perché non avevamo il tempo di fermarci?
Oppure avevo semplicemente appoggiato le labbra sulla lattina sbagliata, quella che era stata utilizzata come parco giochi da mamma ratto, per insegnare ai suoi piccoli come procacciarsi cibo e scappare?
Ho bisogno di Dissenter: la pastiglia che ti vieta di andare in bagno, anche quando Gesù Cristo scende dal cielo e ti ordina di farlo.
Casa o bar?
Forse il bagno del bar, appena aperto, rischiava di essere più igienico del mio, in cui non c’era acqua, non c’era luce e non c’era un cazzo.
Sento ancora il telefono che ronza. L’unica cosa che sarebbe potuta accadere concerneva Dio. Io sono agnostico, ma anche lui avrebbe potuto chiamare per dissociarsi. Ciao regista di quest’opera del cazzo, io sono Dio e il tuo futuro film o documentario, fa schifo e allora lo boicotto, in quanto creatore del mondo.
Afferro il telefono nella tasca e temo, ma stando bene attento a non temere troppo, perché altrimenti, senza la doccia a casa, quello sarebbe stato l’ultimo gesto della giornata.
Sollevo il braccio, lento, mentre il sudore si dà appuntamento sulla mia fronte. Scruto il telefono con un robusto grado di sufficienza. In genere sono i whatsapp che danno fastidio e contengono imboscate e sorprese.
Rileggo il messaggio incredulo per la seconda volta. Nonostante abbia avvisato il mio consulente finanziario, la mia Banca europea mi avvisa che, visti gli strani traffici intercorsi con la Sierra Leone, le mie carte di debito e di credito sono state bloccate, fino a quando non riuscirò a contattare uno dei responsabili della filiale per spiegare la stranezza di cui sopra.
Sono immobile e nudo. Senza telecamera e senza cameraman. Senza attori e senza attrici. Sono un viso pallido in Sierra Leone, dove tutti si aspettano che regali soldi agli affamati e invece non posso accedere al mio conto in banca.
Potrebbe andare peggio?
Ah sì, potrei cacarmi sotto, da un momento all’altro.
Copertina e foto interne di Lucio Cascavilla