Racconto di Jerilynn Aquino
Pubblicato su Passages North
Traduzione di Rachele Salvini
A ventisei anni lavoravo per il servizio clienti di ScoopSavior, “La Prima Toilette Felina al Mondo”. Nei video delle istruzioni, il funzionamento della toilette sembrava facile come nelle illustrazioni del ciclo dell’acqua sui libri di testo: naturale. Ma la toilette s’intasava spesso, e, nei casi peggiori, allagava tutto il bagno. Durante i turni serali più fiacchi fumavo nel parcheggio e rispondevo al telefono con le cuffie, facendo lunghi tiri dal bong che avevo costruito con un adattatore e un tubo di scarico preso da una delle toilette per gatti. Per i clienti ero una figura autoritaria, una che aveva le risposte pronte. Se fossi stata sincera, avrei detto a tutti di tornare a usare le lettiere.
Vivevo in un monolocale a Germantown con il mio ragazzo, Jon. Le sbarre di ferro sulle nostre finestre sembravano quelle del cancello di un giardino, cosa che un tempo consideravo carina. Jon prendeva il treno per il centro di Philadelphia, dove lavorava in un negozio di alimentari, mentre io guidavo per quarantacinque minuti fino a Phoenixville per i miei turni da ScoopSavior.
Durante il viaggio di ritorno ascoltavo Delilah, una stazione radio indipendente che seguivo dal liceo, quando mia madre era partita per Atlantic City per un weekend e non era più tornata. Prima di andarsene faceva la barista da Pete’s e intratteneva i clienti con le sue battute e il suo accento del New Jersey, finché un cliente regolare non si era innamorato e l’aveva convinta a lasciare tutto. Mio padre era un elettricista e un rigido conservatore. Dopo che mia madre l’aveva lasciato, la sua capacità di intrattenere rapporti sociali era durata al massimo quanto i suoi turni di lavoro.
Una notte io e mio padre stavamo guardando una serie sui video amatoriali più divertenti d’America. Una tizia grassa era rimasta incastrata in una di quelle altalene a forma di pneumatico, e la cosa aveva fatto sghignazzare mio padre come non avevo mai visto – occhi chiusi e bocca aperta, coi pezzetti di patatine spappolate incrostati tra i molari come otturazioni. Esasperata dall’idea di essere rimasta sola con lui tra quelle quattro mura, non ero riuscita a fare a meno che urlare: “E stai zitto, cazzo!”.
Mi era saltato addosso all’istante; la busta di patatine che si era riversata sul pavimento, e il dorso della sua mano si era avvicinato pericolosamente al mio viso prima che lui si fermasse e gridasse: “Chi diavolo ti credi di essere?”. La minaccia mi aveva quasi fatto pisciare addosso dalla paura, nonostante non mi avesse mai picchiato prima. Se avesse cominciato, non sarei potuta scappare. Al contrario di mia madre, ero sola.
Da allora avevo passato tutto il tempo in camera mia, addormentandomi mentre ascoltavo Delilah e tutte le storie di gente che si era reinventata, famiglie che si erano finalmente riunite.
Ora la voce di Delilah riempiva i miei viaggi di ritorno a casa da ScoopSavior. Le parlavo nel buio e le dicevo di volerle bene. Delilah diceva ai suoi ascoltatori di volersi bene l’un l’altro. Ci chiedeva: “Ascoltate davvero i vostri compagni?”.
Io e il mio ragazzo non ci ascoltavamo per niente. Volevamo avere una famiglia, ma ci urlavamo addosso e ci lanciavamo oggetti che finivano per colpire la parete o il pavimento, perché miravamo sempre a mancarci. Non volevamo essere violenti, lasciando la discussione in sospeso, ma se ci fossimo davvero ascoltati avremmo sentito solo il rumore dell’odio che crepitava tra noi. Non solo le urla, ma anche i singhiozzi che spesso le interrompevano.
Gridavo e dicevo che il suo cazzo era il peggiore che avessi mai visto; gli dicevo di tornare a Kensington da quella tossica di sua madre. Lui mi chiamava troia. Una volta l’avevo guardato spaccare il telefono. Lo aveva lanciato a terra e ci era saltato sopra più volte, gridando – Ahhh! Ahh! – a bocca spalancata, con la pelle violacea che pulsava come organi sotto la pelle viva, come se i miei bisogni, le mie stronzate, lo avessero rivoltato completamente su se stesso.
Ci eravamo conosciuti a una festa cinque anni prima, un’amicizia ubriaca e affamata e confusa mutata in una relazione. Nella coppia, Jon era quello che si occupava di tutte le responsabilità che mi mettevano ansia, come le bollette e le tasse. A volte lasciavo che mi svegliasse di notte con un’erezione mentre bofonchiava parole d’amore avanzate da un sogno, parole che altrimenti non mi avrebbe mai detto.
Un giorno ho chiamato Delilah perché volevo ascoltare “Have I Told You Lately” di Rod Stewart. Gli ascoltatori avevano bisogno di buone ragioni per fare delle richieste specifiche, quindi ho cercato di convincerla: “Il mio fidanzato parte per il militare domani. È sempre stata la nostra canzone”. Delilah sosteneva le nostre truppe al fronte.
La canzone non è andata in onda finché non sono arrivata a casa, quindi sono rimasta ad aspettare nel parcheggio del nostro condominio. La mia voce alla radio era dolce, un raggio divino che splendeva dal cruscotto, e per un attimo sono davvero sembrata una ricca brava ragazza di Philadelphia. Avevo dovuto mentire, ma la versione di me che era andata in onda esisteva, almeno durante quella chiamata, una dichiarazione trasmessa in tutta la Pennsylvania e poi registrata per tutto il paese.
*
Di notte, io e Jon sentivamo l’inquilino del piano di sopra muoversi da una parte all’altra del monolocale. Il tipo doveva essere anziano, perché accompagnava ogni passo con un forte grugnito.
Ho incrociato il vicino un fine settimana, dopo un’altra discussione con Jon, mentre cercavo di calmarmi fumando una sigaretta fuori dall’entrata principale, seduta su uno sgabello di fianco a una montagnola fangosa di mozziconi. Il vicino è uscito dalle porte di vetro rinforzato e si è trovato di fronte al nostro squallido cortile, strizzando gli occhi verso il cielo grigio accecante. Mi ha chiesto una sigaretta. Ha detto: “Grazie, tesoro. Mi chiamo Claude”.
“Teresa.”
“Ma che fumi a fare? Sei una bambina.”
Claude era sorprendentemente alto. Si è messo a lamentarsi della progettazione del cortile mentre espelleva nuvole di fumo, con la tuta color candeggina che gli conferiva un’aria di saggezza quasi glaciale. Alla fine della sigaretta, mi ha chiesto: “Mi daresti una mano tornare di sopra?”.
Abbiamo salito le scale come bambini, un passo alla volta. Mi teneva il braccio intorno alle spalle e i suoi lamenti facevano eco tra i corridoi unticci del condominio.
Claude viveva in un monolocale con la stessa pianta del mio, solo che il suo era ancora più squallido. Era una stanza buia e disordinata con un divano a sezioni dello stesso colore del sangue secco, con lenzuola aggrovigliate sul letto e un secchio di plastica sul pavimento, vicino al cuscino.
“Vieni dentro e siediti per un po’.”
“Mi spiace, devo andare.”
“Dai. Solo un minuto. Giusto per farmi un po’ di compagnia.”
C’era una certa autorità nella sua stazza; avevo sentito gli angoli duri del suo corpo contro il mio mentre salivamo le scale. Avrebbe potuto lasciarsi cadere e intrappolarmi sotto il suo peso, ma si aspettava che fossi una ragazza piacevole e accondiscendente che riuscisse a riempire il suo vuoto con ogni premura. Se fossi tornata nel mio appartamento, avrei passato un’altra serata a fumare erba e guardare Jon tutto preso coi suoi videogiochi. Allora ho acceso una lampada e mi sono seduta all’estremità del divano, vicino alla porta.
Claude si è lasciato cadere sul divano con un forte lamento di dolore, arreso. Quando ha ripreso fiato, gli ho chiesto dei vinili incorniciati alle pareti.
“Hai mai sentito il gruppo The Gold Notes?”
Gli ho detto che il nome mi sembrava familiare, ma che non li avevo mai ascoltati. Ha cominciato a canticchiare una melodia struggente. Nonostante tutto il mugolare e ansimare, la sua voce era ferma. Si è voltato verso il televisore e ha cambiato canale. “Ero il loro cantante finché non ho cominciato a mettermi nei guai con la droga, eccetera” ha detto, con un gesto di noncuranza verso i vinili. “Erano un gruppo di teste di cazzo in ogni caso.”
“Peccato. Forte, però. Quanti anni hai?”
“Sessantadue, e ho già avuto due ictus. Non dovrei fumare.”
“Mi dispiace. Avresti dovuto dirmelo.”
“Se te l’avessi detto, non mi avresti dato la sigaretta.” Ci siamo messi a ridere.
Sopra il televisore c’era il ritratto incorniciato di una donna dal viso dolce, illuminata da un leggero colore al neon tipico degli anni ottanta. La donna era anche in un’altra foto, questa volta con un bambino in braccio. Sorridevano entrambi a un giovane Claude, che rideva e scuoteva una palma. Chissà dov’erano adesso? Probabilmente ovunque in un posto dove crescevano le palme. Ho sperato che Claude fosse stato un buon marito, un buon padre. Forse Claude aveva voluto lo stesso ma non aveva saputo come esserlo, anche dopo tutto questo tempo.
Claude ha messo un film spazzatura mentre immaginavo il tipo di relazione che avremmo potuto avere, la storia che avrei potuto raccontare a Delilah. Avrei potuto dire che avevo fatto amicizia con un cantante in pensione le cui storie mi avevano ispirato a uscire e riprendere in mano la mia vita, lasciare Jon e tornare a studiare. Avrei potuto raccontarle come Claude avesse imparato a ridere di nuovo, come lo avevo aiutato a tornare in contatto con suo figlio. “Mi ha salvato” avrei detto a Delilah. “Non potrò mai ringraziarlo abbastanza.”
Dieci minuti dopo l’inizio del film, Claude si è addormentato a bocca aperta, con la lingua che si seccava sul labbro inferiore. L’ho chiamato e lui ha alzato la testa, guardandomi come se non sapesse neanche chi fossi. “Te ne vai?”
Mi ha fatto promettere di andare a trovarlo di nuovo. Quando sono tornata a casa, ho raccontato a Jon dell’incontro, tralasciando tutta la mia rabbia per il nostro litigio e sperando che lui si aprisse, mi chiedesse più dettagli su Claude. “Interessante”, ha detto al televisore.
*
Ho mantenuto la promessa fatta a Claude, ma ogni volta era sempre lo stesso – mi trovava fuori, mi chiedeva di dargli una mano, e passavamo tutto il tempo a cercare di tornare al piano di sopra. Mi aspettavo che finalmente il filo della storia da raccontare a Delilah si dipanasse, ma quando non succedeva niente, tornavo a casa.
Nel frattempo, ho cominciato a ricevere ammonimenti al lavoro.
Il primo era perché arrivavo tardi e andavo a casa presto. Il secondo era più serio. Avevo risposto alla chiamata di un cliente insoddisfatto prima della chiusura a mezzanotte, e un’ora dopo si stava ancora lamentando. Nessuno avrebbe saputo che avevo attaccato il telefono in faccia a un cliente, se solo non mi avesse sentito chiamarlo “testa di cazzo” un secondo prima di mettere giù. Secondo ammonimento.
Un mese dopo, quando sono arrivata a lavoro, mi sono trovata di fronte un tizio delle risorse umane che mi ha accompagnato fino all’ufficio del caporeparto. Ho capito tutto prima ancora di vedere le sue mani strette sulla scrivania di fianco al bong che avevo costruito con l’adattatore e il tubo di scarico della toilette per gatti.
“Mi hai visto dalle videocamere del magazzino?” ho chiesto tra lacrime di rassegnazione, col sapore di moccio in bocca. “So di non essere stata granché, ma…”
Il caporeparto mi ha allungato un documento che diceva: “Motivo di licenziamento: cattiva condotta e insubordinazione”.
Pensavano che non fossi adatta a lavorare lì. Una brutta persona. Ho firmato il documento. Ero d’accordo: ero una brutta persona.
Eravamo in pieno giorno. Quando ho acceso la radio sulla strada di casa, un DJ stava mettendo del soft rock proprio quando avevo più bisogno di Delilah. Ho pianto a intervalli regolari tra momenti di strano ottimismo: avevo il resto della giornata per fare qualcosa, trovare me stessa. Oppure potevo andare a comprare del vino in cartone. Nessuno si meritava una notte di contemplazione e sobrietà dopo essere stato licenziato. Potevo guidare sulla Dekalb finché non avessi finito la benzina, parcheggiare e cominciare a camminare sulla strada delle mie poche opzioni rimaste. Potevo rendere la sopravvivenza, e non il successo, la mia unica responsabilità.
Una volta a casa, ho visto Claude di ritorno dal negozio all’angolo. Si trascinava in cortile portando una busta di plastica del colore delle alghe. Forse avrei dovuto passare più tempo con lui, aiutarlo con le sue faccende. “Oh, bene, sei qui” ha detto, ansimando. “Puoi aiutarmi a tornare di sopra?”
Siamo saliti come avevamo sempre fatto. Non appena Claude si è seduto sul divano, sono scivolata verso la porta, domandandomi se avessi il coraggio di chiedergli se aveva dell’erba. L’avevo finita di recente.
“Fumi l’erba?” ho chiesto, cercando di sembrare semplicemente curiosa, ma il mio tono era troppo intenzionale, tradiva il mio bisogno.
Lui mi ha guardato con un sorriso caustico che non gli avevo mai visto prima. “Non sapevo che fumassi.”
La scorta di Claude era chiusa in un barattolino per pastiglie con delle cartine sottili arrotolate e fermate con un elastico. La mia canna era patetica, larga e grumosa come un baccello, e ho provato a fumarla mentre Claude si appisolava.
“Claude.”
Si è risvegliato con un rantolo e ha alzato gli occhi vitrei su di me.
Ho lasciato stare la canna e l’ho lanciata nel posacenere. “Mi hanno licenziato oggi.”
“Oh, okay” ha detto. “Non piangere. Sei ancora giovane.”
“Mio padre direbbe: Che tipo di persona viene licenziata da un lavoro in cui risolve problemi con lettiere per gatti?”
“Chi se ne frega cosa pensa la gente? Devi fare ciò che ti rende felice.”
“Grazie” ho detto. “Sei più gentile con me di chiunque altro.”
Abbiamo guardato il telegiornale serale, ma Claude si è appisolato di nuovo. Mi sono alzata e ho detto: “Devo andare”.
“Aspetta. Vieni qui e dammi un bacino.” Claude si è alzato su un gomito e ha provato a raddrizzarsi, avvolto dalla luce dal televisore.
“Per favore?” ha chiesto, implorandomi come un bambino. La conduttrice stava leggendo il gobbo e blaterando dell’eredità di Isaac Hayes.
Mi sono chinata e ho provato a posare le labbra sulla sua guancia fredda. Ma la sua mano si è fermata sul mio fianco, suggerendo un’altra richiesta, mentre l’altra mano afferrava una protuberanza nei suoi pantaloni leggeri.
“Ti prego, fammi un pompino” ha detto, con gli occhi larghi di supplica.
Sono arretrata così velocemente che sono inciampata nel tavolino e ho fatto cadere un bicchiere di latte andato a male. Quasi fuori dalla porta, mi sono voltata, perché l’immagine delle sue dita tese sul poliestere dei pantaloni mi è tornata in mente, come avrebbe fatto occasionalmente per il resto della mia vita.
“Per chi mi hai preso, Claude?”
Si è di nuovo lasciato andare sul cuscino, irritato, come se lo avessi svegliato da un altro sonnellino.
“Una povera disperata” ha detto, afferrando il telecomando. “Come me.” Ha cambiato canale.
Sono corsa giù per le scale, provando subito a dimenticare ciò che era successo e trasformarmi in una persona nuova nel momento stesso in cui avessi raggiunto il mio appartamento. Ma non appena ho aperto la porta, ho detto tutto a Jon – ciò che diceva la lettera di licenziamento, il fatto che fossi andata a trovare Claude, e quello che aveva appena fatto.
“Cosa ti aspettavi?” ha chiesto Jon. Si è voltato per prendere la sua tazza di caffè. “A metterti in certe situazioni.”
“Ora è colpa mia?” ho chiesto, pensando a Claude. “Gliel’ho forse fatto fare?”
Jon si è finalmente rivolto a me. “E senza lavoro come facciamo con le bollette? Come hai potuto essere così irresponsabile?”
Avrei voluto che Jon mi dicesse che ero una persona decente, e che ce la saremmo cavata. Avrei voluto che fosse furioso per ciò che era successo con Claude come lo ero io. Sul mio comodino c’era un piccolo vassoio rettangolare dove lasciavo monetine e forcine. Me l’aveva dato mio padre, un bruttissimo souvenir dalla sua vacanza in Messico, l’unico regalo in dieci anni. L’ho afferrato e lanciato a Jon di traverso come se fossi una lanciatrice di coltelli, con i soldi e le forcine che sfrecciavano ovunque come piccoli frammenti di proiettile.
È arretrato con uno strillo, tenendosi le mani sulla fronte, sorpreso. Quando le ha abbassate ho visto un bernoccolo che si stava già formando, rosso e gonfio, a forma di boomerang. Jon mi ha fissato ansimando, pieno di collera, come se si stesse trattenendo.
“Vorrei che lo facessi” l’ho sfidato. Mentre aspettavamo di vedere che ne sarebbe stato di noi, Claude si è mosso di sopra. Abbiamo ascoltato i suoi passi pesanti, e poi i singhiozzi ovattati.
Jon ha deciso di non colpirmi. È andato in bagno e ha urlato e spaccato tutti gli oggetti sul lavandino, rimanendo lì per parecchio tempo anche quando aveva finito.
Mi sono seduta sul letto sapendo che l’avrei colpito di nuovo. Volevo già colpirlo ancora. Volevo colpirlo finché lui non mi avesse colpito. Volevo creare abbastanza spaccature da aprirlo e demolire le bugie che ci impedivano di conoscere noi stessi.
***
A Request
At twenty-six, I worked customer service for ScoopSavior, “The World’s First Cat Toilet.” Animated videos made the system look as simple as a textbook illustration of Earth’s water cycle, natural. The toilet often clogged, and in worst cases, flooded entire bathrooms. On slow nights, I’d smoke in the parking lot and take calls through a headset, ripping the bong I’d fashioned from a cat toilet drain hose and a T-adapter. To customers, I was an authority figure, the one with the answers. If I’d been honest, I would have told them to go back to litter boxes. (Il testo completo qui.)
Il racconto originale di Jerilynn Aquino è stato pubblicato dalla rivista letteraria statunitense Passages North, associata alla Northern Michigan University, che pubblica racconti, poesia, saggistica creativa, e scritture ibride dal 1979. Ringraziamo la rivista per aver concesso di pubblicare la traduzione italiana.
***
Commento della traduttrice
“A Request” è stato pubblicato sul numero 41 di Passages North all’inizio del 2020. Passages North è una delle più note riviste accademiche di scrittura creativa negli Stati Uniti, legata alla Northern Michigan University e attiva dal 1979. Jerilynn Aquino, brillante scrittrice e grande amica, ha scritto un racconto vivido, tremendo nei suoi particolari più disgustosi, tra i frammenti mollicci di patatine incastonati tra i denti del padre come otturazioni e lo squallore dell’appartamento di Claude con il suo secchio per il vomito e le lenzuola aggrovigliate. L’esperienza della donna sola, intrappolata in relazioni violente e abusive – non soltanto a livello fisico, ma anche psicologico ed economico – ha bisogno di essere raccontata, soprattutto quando si tratta dell’esperienza di donne non-bianche negli Stati Uniti, schiacciate dal privilegio di razza, genere, e classe sociale. Il racconto è disarmante, il linguaggio preciso e tagliente, la tensione mantenuta con grazia fino all’ultima frase.
***
L’autrice
Jerilynn Aquino ha conseguito la Laurea magistrale in narrativa presso la Temple University, dove è stata editor per la narrativa di Tinge Magazine. I suoi testi sono stati pubblicati in Lunch Ticket e in So to Speak, come finalista del concorso letterario presieduto da Pam Houston. Al momento vive in Oklahoma, dove lavora come freelancer e studia alla Oklahoma State University.
La traduttrice
Rachele Salvini è una studentessa di ventisette anni. Sta facendo il dottorato in English and Creative Writing alla Oklahoma State University. Scrive sia in italiano che in inglese; i suoi racconti in inglese sono stati pubblicati o in attesa di pubblicazione su Prime Number Magazine, Necessary Fiction, BULL, e altri. Ha vinto l’edizione 2020 del premio 8×8, si sente la voce. I suoi racconti e traduzioni sono stati pubblicati o in arrivo su Lunch Ticket, inutile, Narrandom, Pastrengo, Lunario, Carie, L’Inquieto, Spazinclusi e altri. È rappresentata dall’agenzia letteraria Word Link Literary Agency.
Copertina originale di Lavinia Buffa