Romanzo di Miloš Crnjanski
Traduzione di Alessandra Andolfo
Da lì non è lontano dall’ufficio di collocamento.
A quell’epoca, l’intera zona era ancora in rovina, le case erano state incendiate e all’interno si vedevano soltanto resti di mobili bruciati e liquame. Digerendosi verso l’ufficio di collocamento, Repnin sente che si sta trasformando in una minuscola cellula in mezzo a quella terribile folla di persone, che si affrettano ad andare al lavoro, correndo su e giù come formiche in un formicaio. Le persone si affrettano come un tempo si affrettavano gli schiavi, costretti a costruire tombe e piramidi per i Faraoni, o canali in Asia. Mentre ora, dicono, costruiscono per se stessi. «È questo – lo sento mormorare – il progresso? Il progresso dell’umanità? Il grande progresso dell’umanità?».
I passanti, intanto, gli sfilano accanto come riflessi in uno specchio che lo moltiplica. Si è trasformato anche lui in uno di quei passanti muti, che non vedono e non guardano nessuno. Passano, come quel fiume. Lo Stige. Un fiume di operai e di operaie, di impiegati, di lavascale, di negozianti, di spazzacamini. E tutto scorre, gli sembra, attraverso e non intorno a lui. Un fiume composto di innumerevoli volti, di nasi, di occhi, di cappelli, di piedi, che si dissolve, si dissipa, si disfa.
Chissà cosa c’è dietro, che tipo di pensieri, di desideri, di visioni! E così anche lui dovrà marciare in mezzo a loro, marciare, marciare, come se fosse figlio di quella Londra e non della sua lontana Pietroburgo.
(p. 162)
Londra, subito dopo la guerra, non era una città pulita, né luminosa, né bella, né tanto meno sorridente. In particolare in questo primo inverno, che era durato diversi mesi. Era la capitale della nebbia, sospesa su un mare di fuligginose, arse, abbandonate, miserabili case tutte uguali. Una desolazione di mattoni, fango, appartamenti sventrati, cantine inondate e tetti scoperchiati. Dal terreno sporgevano resti di mobili fatti a pezzi, bruciati e carbonizzati. In alcuni punti, dall’humus che si era formato sulle rovine, spuntavano nichel ed erba. Quando il Sole cominciò a splendere in primavera, sulle macerie apparvero alcuni fiorellini rossi e blu. Quando scendeva la notte, nella nebbia, da quelle macerie spuntavano gli occhi verdi dei gatti (del resto, tutto il centro di Londra appartiene al Duca di Westminster).
(p. 164)
London, tu, odmah posle rata, nije bio grad, ni čist, ni svetao, ni lep, a ni nasmejan. Te prve zime posle rata naročito, jer je trajala mesecima. To je bila prestonica Magle, nad morem nekih bezbrojnih, čađavih, izgorelih, napuštenih, uvek istih, bednih kuća. Pustoš cigalja, blata, razvaljenih stanova, podruma i krovova. Iz zemlje su virili ostaci nameštaja, koji je bio ostao, raznet u paramparčad, u podrumima, i sagoreo, ugljenisan. A ponegde je iz blata ruševina, bila već nikla i trava. Kad je Sunce obasjalo s proleća, pojavili su se, iz tih ruševina, i neki modri i crveni cvetići. U magli, i, kad bi pao mrak, virile su iz tih ruševina zelene oči mačaka. (Ceo centar Londona, uostalom, svojina je duke od Vestminstera.)
(p. 110)
Dopo aver ripreso il cammino, Repnin era arrivato all’ufficio in pochi minuti. Lo spediscono al primo piano, dove, in certi locali lunghi e stretti, alcuni impiegati stavano ascoltando dei polacchi che cercavano lavoro. Si siede su una specie di palco di legno, che assomigliava a un confessionale costruito con le assi di una barca. Là, si riempivano i moduli da riconsegnare a chi di dovere. Repnin si è seduto su una panca addossata al muro e aspetta. Sua moglie, con sollecitudine, lo aveva pregato di essere paziente, persino umile, quel giorno. Quindi lui umilmente aspetta.
E mentre aspetta, il suo sguardo si posa involontariamente sui manifesti appesi al muro, dove il Comune di Londra invita ciascun cittadino a essere parsimonioso (mentre legge, il russo ha un sorriso amaro). Il Comune, che ha indetto una sottoscrizione per un prestito di cento milioni di sterline, chiede a chiunque legga l’appello, di contribuire in qualche modo.
Il manifesto trabocca di simboli della sterlina: £ £ £ £ £ £ £ £ £ £ £ £ £.
All’emigrato russo, il simbolo della moneta inglese, sembra avere la forma di un violoncello, che suona anche per lui. Sul suo volto appare allora un ghigno diabolico, perché quel giorno, in tasca, non ha neppure una sterlina, ed è così da oltre un mese. Mentre sta ascoltando un polacco, un impiegato dalla scrivania lo guarda sbalordito. A leggere quelle cifre, per lui astronomiche, Repnin si rende conto che quell’appello al risparmio, in realtà, non è altro che propaganda, una bufala, perché è già da tempo che quel pacchetto da cento milioni di steriline è stato sottoscritto dalle banche, per cui quello è soltanto una sorta di appello morale ai cittadini di Londra e quindi anche a lui.
Ciò che per lui – che è un nullatenente – è stupefacente è la bellezza del carattere calligrafico della sterlina, di quella lettera tanto romantica, agli occhi degli inglesi. Sembra un arabesco musicale, eppure non rappresenta affatto l’iniziale di “Libertà”, “Liberté”, né lo spagnolo “Libertad”, o l’inglese “Liberty”, ma la parola “libra, libbra”. Un’unità di misura.
(pp. 165-166)
Finalmente, giunge il turno dell’eroe del nostro romanzo. L’uomo alto, dal naso aquilino, dalle spalle larghe e la vita sottile, di bell’aspetto, piace decisamente al funzionario, che con fare gentile, gli dice: «What can I do for you? Che cosa posso fare per voi?».
Repnin, questa frase educata – ma ipocrita – l’ha già sentita mille volte, perciò fin dall’inizio è mal disposto. Dice il suo nome. Consegna il suo questionario. Racconta di come sia senza lavoro e senza guadagni da più di un anno, di come sia vissuto di risparmi, di come ora abbia speso tutto, del fatto che abbia una moglie da mantenere, in una parola, che la miseria è grande. Fino all’anno prima era insegnante di equitazione in una scuola di Mill Hill. La scuola è stata chiusa. È alla ricerca di qualunque tipo di lavoro. A queste parole, il funzionario lo interrompe, prende il questionario che il russo ha appena riempito e sparisce, chissà dove, da qualche parte, dietro un armadio, da dove ritorna, dopo una decina di minuti buoni, decisamente irritato. Non è nella lista! Come si pronuncia il suo nome? «Repnjn», risponde allora il nostro eroe, mostrando sulla carta come si scrive.
Gli spiega che è un nome russo, pertanto la lettera iniziale si pronuncia come la “r” inglese, ma non ha valore di consonante, bensì di vocale, mentre la successiva lettera “j”, non è come la “j” di “job”, ma come la “y” di “yacht”, jot, cioè come nelle parole “yard”, “yell”, “yes”, “you”, “young”, “youth”. A questo punto, il funzionario, tutto rosso grida: «Now, now, now», da quale unità dell’Esercito smobilitato dei polacchi proviene?
Repnin allora gli dice che non ha mai servito in nessuna unità di nessun Esercito polacco, ma che era stato aggiunto a una missione diplomatica polacca. Adesso a Londra, dal Ministero del lavoro, dove si era presentato per cercare un nuovo impiego, lo avevano indirizzato qui. È già più di un anno che non guadagna. Miseria. Miseria. A queste parole, le pupille del funzionario si restringono – come sanno restringersi solo agli inglesi, sotto gli occhiali -, quindi gli dice che, per prima cosa, ha affermato di provenire dall’Esercito polacco smobilitato, mentre ora dice di essere un diplomatico. Lo avverte che non può dire quello che gli pare. Bisogna dare informazioni accurate.
Ufficiale? Diplomatico? Che cos’è? Chi è?
Rosso in viso, Repnin ribatte che non ha mai affermato di provenire dall’Esercito polacco smobilitato, né ha mai detto di essere polacco. Lui è russo e a Parigi, presso i polacchi, faceva il traduttore, con il rango di ufficiale. Era un ufficiale russo, durante la Prima guerra mondiale. Alleato degli inglesi. Estrae la sua carta di identità, emessa a Londra, su cui è ancora visibile, anche se cancellata, la firma del Ministro inglese degli affari esteri, e il sigillo. Con un tono appena più cortese, il funzionario gli grida che non si farà certo intimorire dalla firma di qualcuno. Piuttosto, tanto per cominciare, che Repnin gli porti un documento emesso dall’Esercito polacco dislocato, dopo di che non avrà alcuna difficoltà a trovargli un lavoro. Lui sa bene che i polacchi ce l’hanno con loro, perché non sono in grado di pronunciare quei loro nomi in “trš” , “prš“, “mrš”, ma questo non lo autorizza ad alzare la voce. Loro hanno ben altro da fare, lì!
Poi, ricordandosi di sua moglie, Repnin dice, umilmente, che capisce la difficoltà che hanno di trova-re un impiego a loro, gli stranieri, ma che è pronto a fare qualunque lavoro, anche manuale. Muratore, stagnino, postino, autista, pur di guadagnare qualche sterlina a settimana. L’inverno a Londra è terribile. Ha speso tutto. È dura.
Il funzionario gli ribatte che avrebbe potuto trovare lavoro già da tempo, se solo avesse voluto. Sarebbe bastato presentarsi alla polizia di Mill Hill e avrebbe trovato rapidamente un lavoro per lui e per sua moglie. A ogni modo, ecco, vada alla polizia, presso l’ufficio stranieri a Piccadilly e da lì gli telefonino per confermare che i suoi documenti sono in regola e così gli troverà un lavoro. Dal momento che, a quanto ha scritto sul questionario, sa tutte queste lingue, non dovrebbe essere difficile. Solo in questo modo saprà con chi ha a che fare. Che venga domani.
Repnin, allora, per qualche istante tace, stanco; poi dice che verrà, domani.
Uscendo per dirigersi alla polizia, a Piccadilly, era talmente abbattuto che aveva pensato che sarebbe stato meglio presentarsi al Comitato russo di librazione nazionale, che lui odiava e che lo odiava. Meglio lì che alla polizia, dove gli avrebbero trovato un lavoro come a un vagabondo qualsiasi. Se non altro, al Comitato russo lo conoscono. E poi, c’è sempre la lettera di Sazonov.
(pp. 168-171)
Entrando in quel vicolo cieco, Repnin si era ricordato delle mani orribilmente gonfie di una ragazza di strada, che una bomba al fosforo aveva trasformato in un denso miscuglio di guance, gambe e vestiti. Un clown.
Una mano del tutto simile – o almeno così gli pare – è quella che vede ora sulla maniglia che gli sta aprendo la porta, la mano di un usciere dell’ufficio stranieri della polizia, dove si rilasciano le carte di identità, si certificano i documenti e si dichiarano le variazioni di indirizzo.
(pp. 175-176)
Ulazeći u taj ćorsokak, Rjepnin se sad sećao nekih strašnih, podbulih, ruku, jedne ulične devojke, koju je fosforna bomba bila pretvorila u debelu smesu obraza, nogu, haljina. Kao nekog klovna.
Sasvim sličnu ruku, – bar se njemu tako čini, – vidi sad na kvaki vrata koja mu otvara, tu, vratar u policiji, za strance, gde se izdaju karte identiteta, overavaju papiri, i prijavljuju promene stana.
(pp. 117-118)
Lo conduce verso una panca sistemata lungo il muro, su cui sono seduti, in fila, polacchi, francesi, arabi e tedeschi. Mentre dalla parte opposta, seduti sulle sedie, come fossero baristi, ci sono i funzionari. Dietro di loro, si vedono enormi armadi: archivi e schedari. La stanza è simile agli uffici della polizia in Spagna o in Portogallo, che conosce bene. Attraverso le finestre, in cortile, si vede la prigione, con le inferriate. Dopo una lunga attesa, è il suo turno e spiega, rapidamente, perché è venuto e cosa è successo all’ufficio di collocamento in Chadwick Street. Consegna al funzionario il cedolino che gli hanno dato. Il funzionario legge il nome, borbotta qualcosa, si alza e sparisce dietro a un armadio-schedario. Torna poco dopo. Eccolo. Ce l’hanno. È venuto a Londra con un singolo convoglio di polacchi dal Portogallo. E un ex funzionario della Croce Rossa. E residente nel sobborgo di Mill Hill. I suoi documenti sono in regola. Poi il funzionario si interrompe, si avvicina un foglio, come se fosse miope, e lo pulisce con la mano come se sopra ci fosse una mosca morta. «Qui – dice – c’è scritto che siete un Principe». E lo guarda come se avesse una mosca sul naso.
Repnin allora si difende, dicendo che è un errore dei polacchi, quando era impiegato presso di loro, a Parigi, con il rango di Capitano. È parente della famiglia dei Principi Repnin, in Russia, ma non è un Principe. Suo padre era un membro della Duma. Ed era un anglofilo. Lui è un uomo normale. A casa, ha una lettera di raccomandazione dell’Ammiraglio inglese Troubridge. La porterà.
«Perché siete venuto?».
È venuto per ottenere un permesso di lavoro in Inghilterra. È disoccupato da più di un anno. È in miseria. Era insegnante in una scuola di equitazione. Chiede semplicemente che dicano per telefono, all’ufficio di collocamento, che i suoi documenti sono in regola. Sta cercando un permesso di lavoro.
«Perché lo volete? Quale tipo di permesso?».
Repnin allora racconta, rapidamente, che per cinque anni aveva vissuto a Londra, onestamente, contando sui suoi risparmi, che aveva portato da Parigi, e sui suoi guadagni alla scuola di equitazione che però, nel frattempo, ha chiuso i battenti. Ora è senza lavoro. Non vuole essere di peso a nessuno. Quel che vuole è un lavoro. È risoluto ad accettare qualsiasi tipo di impiego. Muratore, stagnino, postino. Conosce le lingue. È andato all’ufficio di collocamento in Chadwick Street, ma lì gli hanno detto che, per prima cosa, deve ottenere un attestato che certifichi che i suoi documenti siano in regola. Chiede un permesso di lavoro. Non ha nascosto nulla. Per tutto quel tempo il poliziotto è rimasto, incredulo, a guardare.
Poi sistema i fogli davanti a sé e dice che ha fatto il suo ingresso in territorio inglese senza alcuna condizione. Ecco, c’è anche scritto: Unconditionally. È sbarcato il 21 agosto del 1941. Ha quindi gli stessi diritti di tutti gli altri. Può lavorare, cioè, se trova un lavoro. Non gli serve alcun permesso.
Per un momento, Repnin rimane in silenzio, sorpreso, ma poi, piano piano, il sangue gli va alla testa. Ribatte dicendo che gli hanno detto che nessuno può ottenere un lavoro, senza permesso. In fin dei conti gli ha soltanto chiesto di fare una telefonata all’ufficio di collocamento per dire che i documenti sono in regola. Non chiede nient’altro.
Il poliziotto sorride e telefona. Ha un telefono alle sue spalle. Repnin lo sente dire che è tutto in ordine, che tutti i suoi documenti sono in regola. La polizia non ha nulla contro di lui. Anzi. È entrato regolarmente, all’inizio della guerra.
Il poliziotto riattacca il ricevitore e gli dice: è tutto a posto. «Domani andate in Chadwick Street. Vi troveranno un lavoro. Non dovete preoccuparsi di nulla. Stop thinking about permit! Potete smettere di pensare ai permessi!», dice.
Come sempre accade, quando dopo tanta sfortuna, si conquista un po’ di fortuna, sia pure piccola, l’emigrato russo rimane seduto per qualche istante, come pietrificato, rosso in viso e non accenna ad andarsene, anche se il poliziotto ha già raccolto i suoi documenti e li ha rimessi in una scatola dietro all’armadio-schedario.
Nella testa dell’emigrato russo, da qualche parte, quel che ha detto il poliziotto rimanda a qualcosa di già sentito – un milione di volte -, qualcosa che conosce, che si ripete nella sua testa e lo colpisce come un martelletto, sulla fronte. Nel cervello, gli appare l’immagine di quell’uccello australiano, l’Emù, che vede ogni giorno nella metropolitana e che ora diventa sempre più grande, e sotto il quale la didascalia pubblicitaria recita: “Stop thinking about shrinking. Smettila di preoccuparti. Prodotti Emù. Non si restringono durante il lavaggio”.
Senza rendersene conto, Repnin lo ripete, sorridendo, e fa per andarsene, come se davvero fosse stato colpito da un’immensa fortuna. Il funzionario, sbalordito, lo segue con lo sguardo, e non si accorge che nel frattempo un arabo obeso, dagli occhi spaventati, si è seduto al posto del russo.
Il russo era uscito come se danzasse.
«Emù», aveva detto all’usciere che lo stava facendo passare. Voleva dire: «Thank you».
(pp. 176-179)
Una volta uscito dall’ufficio stranieri della polizia, Repnin, tutto allegro, non vede l’ora di andare a Mill Hill e gridare alla moglie la fine delle loro sofferenze. Guadagnerà finalmente dei soldi! E lei sa bene come sia stato difficile per lui, che nonostante tutte le raccomandazioni, la conoscenza di tutte quelle lingue, le lettere di Sazonov e dell’Ammiraglio Troubridge, non era mai riuscito a trovare un lavoro, in quella gigantesca città, dove entrano e si agitano quattordici milioni di anime, come fossero formiche in un formicaio di una grande fiaba. Per lui, nonostante tutti i negozi, le fabbriche, le banche, le stazioni, gli ospedali, in una città con così tanto traffico, movimento e bisogni, non c’era posto per lui.
(p. 179)
Kad je izišao iz zgrade Policije za strance, na Pikadiliju, Rjepnin, onako radostan, sad jedva čeka da pođe u Mil Hil i dovikne ženi, da je sad sasvim sigurno došao kraj njihovim patnjama. Dobiće zaradu. A zna, i ona, da je bilo strašno, za njega, da kraj svih njegovih preporuka, znanja tolikih jezika, članstva geografskog društva, pisma Sazonova i admirala Trubridža, on, nikako nije uspevao da nađe posla u jednoj ogromnoj varoši, u koju ulazi, i oko koje se vrti, četrnaest miliona duša, kao u nekom mravinjaku koji je ogromna bajka. Za njega, za njega, i pored tolikih trgovina, fabrika, banaka, stanica, bolnica, u varoši sa toliko saobraćaja, kretanja, potreba, nije bilo mesta.
(p. 120)
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Ringraziamo Mimesis Edizioni per aver gentilmente concesso la pubblicazione dei brani tratti del romanzo di Miloš Crnjanski, Romanzo di Londra, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2019 (traduzione italiana di Alessandra Andolfo dall’originale in serbo cirillico, Miloš Crnjanski, Roman o Londonu; priredio i pogovor napisao Milo Lompar, NIN: Zavod za Udžbenike i Nastavna Sredstva, Beograd, 2004), come pure della “Nota del traduttore” di Alessandra Andolfo e della copertina del romanzo.
Le citazioni in originale, in alfabeto latino, sono tratte da Miloš Crnjanski, Roman o Londonu, Prva knjiga, Svjetlost, Sarajevo, 1989.
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Nota della traduttrice
In Romanzo di Londra, come in altre opere di Miloš Crnjanski, il tempo e la complessa relazione che l’individuo ha con e attraverso di esso sono un nucleo tematico centrale, che si fa stile nella prosa del grande autore serbo. I frequenti passaggi dal tempo passato al tempo presente, la commistione dei due tempi verbali, che il lettore avrà modo di esperire nel corso della lettura del romanzo, sono qui veicolo per accedere alla complessa psicologia del personaggio principale dell’opera, il Principe Nikolaj Rodionovič Repnin, come pure all’individuazione della presenza del narratore esterno, che nella prima parte dell’opera si avverte discreta, per farsi più presente nella seconda parte e, infine ritirarsi gradualmente nella parte finale. Nella lingua serba, la forma verbale maggiormente utilizzata per esprimere il tempo passato è il perfekat, che rispetto all’italiano corrisponderebbe, di base, al passato prossimo, ma che in serbo è assai più versatile, dal momento che funge da imperfetto, da passato, remoto (nonostante in serbo esista l’aoristo, che Crnjanski comunque utilizza nell’opera), da trapassato prossimo, oltre che da congiuntivo. Per il lettore serbo quindi, l’alternanza dei tempi al passato è percepita in maniera un po’ differente rispetto a quella del lettore italiano; vi è inoltre un diverso utilizzo del presente storico. Anche per il lettore serbo, l’uso del passato e del presente in Crnjanski risulti singolare, ma non quanto può esserlo per il lettore italiano. Ciò considerando, si è cercato di restituire questa caratteristica dello stile di Crnjanski anche nella traduzione italiana, rinunciandovi nei soli casi in cui il periodo sarebbe apparso illeggibile, perché eccessivamente agrammaticale.
La densa prosa di Crnjanski, inoltre, è caratterizzata da un particolare uso della punteggiatura, come l’insistito uso delle virgole e del punto fermo, speso inserito per separare anche soltanto singoli lessemi. Una caratteristica. precipua, che talvolta potrebbe disorientare persino il lettore madrelingua rispetto alla lettura dell’originale in serbo, ma che nella traduzione qui proposta, si è cercato quanto più possibile di mantenere, rinunciandovi nei casi in cui, per il lettore italiano, la lettura sarebbe risultata eccessivamente macchinosa, quando non ai limiti del comprensibile.
Infine, come il lettore avrà modo di osservare, sono presenti molte espressioni in lingua inglese, non sempre corrette. È una scelta autoriale, probabilmente ricercata per concorrere a rendere tangibile quel senso di difficoltà, anche linguistica, che incontra chi vive in terra straniera.
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L’autore
Miloš Crnjanski (1893-1977) è uno dei grandi scrittori del XX secolo. Poeta modernista, drammaturgo, romanziere, pubblicista, traduttore e diplomatico, ha contribuito fortemente al rinnovamento della letteratura serba. La tragica esperienza vissuta sul fronte galiziano e poi su quello italiano durante la Prima guerra mondiale è confluita nel suo primo romanzo, Il diario di Čarnojević, pubblicato nel 1920 (in traduzione italiana nel 2014). Ha trascorso gran parte della vita all’estero, elemento biografico che si riflette nella sua letteratura. Fra il 1929 e il 1962, ha pubblicato quello che è ritenuto il suo capolavoro, il romanzo in due volumi Migrazioni (in traduzione italiana nel 1992 e nel 1998). La carriera diplomatica lo ha portato a Berlino, a Roma e a Lisbona. Nel 1940, quando il Regno di Jugoslavia si avviava al declino, si è trasferito a Londra. Dopo il conflitto mondiale, emarginato dalla Jugoslavia di Tito, ha continuato a risiedere a Londra, nonostante la difficile situazione economica. Vi è rimasto fino al 1965, anno del suo ritorno a Belgrado, dove si è spento nel 1977. Romanzo di Londra, pubblicato nel 1971, è il suo ultimo romanzo. (Dal sito di Mimesis Edizioni.)
La traduttrice
Alessandra Andolfo, nata a Treviso nel 1975, si è laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, conseguendo in seguito nel 2009, presso il medesimo ateneo, il titolo di Dottore di ricerca in Studi dell’Europa orientale.
Si è occupata di stampa antica in cirillico a Venezia e in particolare degli stampatori di libri per i serbi a Venezia tra il XVI e il XIX secolo. Accanto a questa linea di ricerca, affianca i suoi interessi per la cultura e le letterature della ex Jugoslavia, con un’attenzione particolare agli scrittori contemporanei in emigrazione.
Appassionata di teoria e pratica della traduzione, ha insegnato come professore a contratto Lingua e traduzione serba e croata presso le università di Torino e Venezia e Filologia slava presso l’università di Trieste.