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Spacciatori di realtà

È tempo di migrazioni. Abiti, imbottiti dall’odore di uffici e redazioni, ripercorrono all’imbrunire i sentieri verso casa. Fari di automobili sfrecciano frenetici, in palio c’è un posto nel traffico tentacolare all’ora di punta. I parcheggi a torre delle multinazionali zeppi di vetture allo zenit, con il fare della sera, diventano Gran Canyon di cemento armato attraversati dall’ululato del vento. Le cacche dei cani ripopolano i marciapiedi, le luci dei forni rianimano porzioni monodose di cibi precotti.
È tempo di illusioni. Vengono ingannati netturbini, metronotte e stacanovisti delle ambizioni altrui, rappresentati da Nives. Nives soffre del “gomito della fotocopista”, il suo trucco preferito sono le occhiaie e dal badge personale zampillano ore di straordinario mai reclamate. Nives lavora nell’azienda, ci vive e non ha una vita perché, ogniqualvolta rientra al civico 15 di Via del Casuario, il silenzio delle scelte inespresse la preoccupa e la schiaccia. Così lei si attarda nell’unico edificio che non la opprime con emozioni sgradevoli e dorme di nascosto sul divano in similpelle del responsabile marketing, al terzo piano; lo preferisce ad altri poiché sa quanto il responsabile alle vendite sia persona a modo e morigerata e non si sognerebbe mai di togliersi le mutande – quando non scorto dai colleghi – e poggiare i testicoli in libertà sui cuscini, lasciandoci per sbadataggine alcuni peli pubici, a testimonianza della trasgressione. Oltre al divano sanificato ci sono altre comodità che inducono Nives a scegliere proprio quella stanza come talamo: la macchinetta del caffè, premendo i tasti 4-2-2 invece di 4-2, eroga un tè al limone gratis; il pavimento nei corridoi è lindo senza essere scivoloso; la TV a parete della sala d’aspetto con il PIN rotto elargisce lungometraggi in pay-per-view; e i condizionatori sono reattivi nel compensare gli sbalzi termici. Tutti i piccoli vizi offerti dai malfunzionamenti elettronici però oggi impallidiranno al cospetto della saponiera, nel bagno degli uomini.
Preme sottolinearlo. Il responsabile marketing – parimenti a modo e morigerato, oltre l’orario d’ufficio – non entrerebbe nella toilette delle donne neanche se l’intero edificio fosse riarso da una canicola sahariana e lo stesso dicasi per Nives sul fronte maschile se non fosse giunta la fragranza del richiamo a solleticarle le narici.
Tutto l’inspiegabile diventa accettabile se si smette di dare importanza a ruoli e strutture, imposti dall’esistenza. I bagni ne sono una riprova. Edificati, nelle menti degli architetti del pudore, a baluardi zelanti dei bisogni celati, sono diventati, con il passare dei CEO, l’ultimo rifugio in cui sfogare lacrime e frustrazioni. Confessionali con sgabelli in ceramica e carta igienica quattro veli, confortano, con il loro spazio protetto, dalla segretaria umiliata al manager silurato. Nives non ha di questi problemi (il suo contratto è blindato dalla discendenza) eppure, tra tutti i dipendenti, detiene il primato di occupazione.
Restando in tema di donne (e anche di bagni), tra le impiegate al terzo piano, il bagno degli uomini ha la nomea di “latrina di Calcutta”. Ciò si deve alla pessima mira delle minzioni, aggravata dalla scarsa lena dell’addetto alle pulizie. Nives annuiva a tali maldicenze ma, in cuor suo, non ci credeva. L’olezzo paventato dalle altre era passato, nell’arco di pochi giorni, da pura inconsistenza a profumo inebriante che la sorprendeva come un mazzo di rose rosse il 15 febbraio. Stanca dello stallo tra mobbing aziendale e curiosità personale, concede il suo voto a quest’ultima e, ultimato il solito rituale della presa del divano, con la scusa della notte insonne, si alza, percorre il corridoio a luci spente e varca la soglia del pudore con su scritto: MEN.
Il bagno è un bagno con il suo corredo in serie di lavandini, specchi, dosatori e ante affacciate sui water. Non che lei si aspettasse altro, però ne resta delusa. È spazioso e stranamente vuoto. Fin troppo pulito. Nives pattuglia l’intera area, poggia i piedi su ogni mattonella, lascia impronte sulle ceramiche di lavandini e sanitari, osserva per tre volte il riflesso occhialuto delle 43 primavere che porta sul volto, alternarsi su altrettanti specchi immacolati. Decide di saggiarli con le dita per renderli partecipi della sua esplorazione. Tamburella sui sifoni, si presenta agli scarichi e ottiene in risposta scrosci d’acqua, acqua che esce anche dai rubinetti ispezionati. Finalmente usa il dosatore.
È tempo di scoperte. Di quelle dettate dal capriccio del caso che si beffa di studio e dedizione. L’evento più inaspettato a cui Nives aveva assistito fino a stanotte era stato Sancioni, suo compagno di liceo, che si incendiava le flatulenze con l’accendino, nell’ora di ginnastica; e ora il sapone le sta risalendo il braccio e si beffa della gravità, come i salmoni la corrente. Nessun EUREKA! Viene esclamato da Nives, giusto un sopracciglio inarcato, la bocca socchiusa a meraviglia e il cuore smanioso di evadere dalla cassa toracica. Il sapone esce a fiotti dal dosatore, senza che esso si svuoti o lei si smuova. Il percorso tracciato con fiducia: polso, avambraccio, un leggero assestamento sul gomito e poi in alto a rivestirle il mento. La fluidità del sapone alle ciliegie e papaia perde d’intensità, appena entra in contatto con la testa. Avendo la possibilità di essere, al tempo stesso, spettatori e protagonisti della strana vicenda si potrebbe affermare quanto il sapone sia vivo e imiti le “matriosche”. Testa dentro testa.
Ma Nives è troppo impegnata a domare l’uragano d’eccitazione che la sferza e le toglie strati di delusioni accumulate negli anni, per avere la giusta visione d’insieme. Però una cosa la nota, il naso è libero di inspirare, come se quel liquido posticcio fosse l’unico a offrirgli aria e la sua fragranza anziché agitarla la calma. Il flusso detergente si interrompe quando le ha completamente avvolto il capo in un casco cremisi. Tutto è fuori posto: una donna nel bagno degli uomini, se ne sta in piedi nell’orario dei ladri con il suo pigiama di flanella e un’enorme boccia calcata sulla zucca. Ma se ciò che è posto al di fuori è oggettivamente ridicolo, lo stesso non può dirsi su quanto Nives stia cogliendo dalla sua nuova dimensione interiore. Lo spesso scafandro gelatinoso attutisce i suoni e trasmette carezze, se lo sfiora con le mani. Gli occhiali galleggiano all’interno del sapone con le stanghette piegate e Nives si accorge di non averne più bisogno; quello che c’era da vedere nella sua vita lei lo ha già visto e ignorato pedissequamente come un soldato al plotone d’esecuzione, preoccupato più di fare il proprio dovere che la propria felicità.
È tempo di decisioni. Di quelle prese dal singolo che influenzano le sorti di altri come nell’effetto domino. Nives lo sa, sa che ha abbastanza energia da spendere e un sorriso tatuato sulla faccia.
Corre fuori dal bagno e perde l’equilibrio, ride mentre urta con il testone il distributore dell’acqua, rimbalza e si spiaccica con la sua nuova impronta cerebrale a ventosa sulla porta della segreteria del capo del personale. La superficie in legno, a contatto con il casco saponato, rivela un nome: Elisa. E, dietro il nome, l’interruzione degli studi e non della gravidanza inattesa, la fatica di una mamma single…
Nives si stacca con forza spingendosi via con le braccia. Lo scafandro ondeggia e ritorna alla sua forma sferica originale. Ansima emettendo bolle. Fosse la Nives di metà mese si crederebbe un’impicciona e avrebbe la scusa di mollare, ma quanto è rimasto di quella lei ora? Ci vede poco, non sente nulla e ha la stabilità di un ubriaco in procinto di far danni. Una zavorra sul collo e le ali ai piedi. Ritenta. Si spiaccica su altre porte e riaffiorano storie, problemi e desideri dei suoi colleghi. In un quarto d’ora i vari web-master, contabili, help-desk, direttori finanziari e generali diventano Mario, Anna, Leonardo, Sergio e l’altro Mario. Le gabbie dei loro uffici sono chiuse, ma non possono impedire a Nives di passarci attraverso, come fosse ella stessa il liquido che le protegge la faccia.
È una palombara. Riporta alla luce i tesori dalle profondità dei mari, mari di incartamenti, di formalità, di oggetti tenuti in bella mostra, a cui nessuno presta attenzione e lei li afferra, li immerge nello scafandro e ausculta le loro pulsazioni, le loro affinità. È una giudice spietata ma onesta. La sua è una missione e si esalta nel portarla a termine. I primi a volare fuori sono i mouse, seguiti a ruota da altre baggianate; poi si occupa delle interconnessioni e delle necessità. Scopre la combinazione della cassaforte dello zio, preleva denaro contante che lui usa per comprare cocaina e lo deposita nella scrivania di Elisa, trasformandolo in 3 mesi di affitto pagato. Prende 8 matite senza punta e le incrocia a due a due in punti strategici, sapendo che Leonardo, quando le solleverà, le riabbasserà percuotendole sugli spigoli e sul cono della lampada, in un groove da vero batterista. Strappa foto di coppie scoppiate a chi ha giurato fedeltà all’amante e ricuce rapporti alla deriva facendo pervenire, alle postazioni dei rispettivi partner, souvenir del loro amore trascorso. Le dolgono i piedi e l’acido lattico le intossica i muscoli ma è sospinta come una pallina del flipper quando si hanno a disposizione monetine infinite e un record da battere.

Il responsabile marketing, uscito dal parcheggio e in perfetto orario sul suo anticipo giornaliero, coglie le prime avvisaglie di stranezza nelle aiuole all’ingresso. Sono addobbate con chili e chili di cancelleria neanche fossero alberi natalizi. È già pronto a rimbrottare quello scansafatiche dell’addetto alle pulizie, quando coglie un movimento al terzo piano, seguito da rumori, sempre provenienti dal terzo piano. Teme il peggio. L’indice di una mano a prenotare l’ascensore, il pollice dell’altra a comporre il numero del capo. Sta per premere il secondo tasto di chiamata sullo schermo del cellulare, quando il dlin acustico accompagnato dall’apertura delle porte lo avvertono che quella è la sua fermata.
Ma non è il suo piano. Non può esserlo. L’aveva lasciato intonso 12 ore prima e ora lo ritrova sconquassato, neanche fosse passato di lì il Diavolo della Tasmania che tutte le mattine vedeva in TV, prima di andare a scuola: il corridoio è intasato da mobili ribaltati, le pareti macchiate da bolle viscose di liquido scarlatto. L’aria intrisa di polvere e aromi. Un brivido gli rizza i peli sulla nuca. Sgambetta trafelato, schivando, ma perlopiù calpestando, plichi di resoconti trimestrali e documenti di dubbia natura, la cravatta lo schiaffeggia nella folle corsa tentando di farlo ridestare. Giunge al suo ufficio. Inviolato. Entra e scatta un sospiro di sollievo. Chi ha perpetrato il vile atto vandalico si è arrestato prima che potesse arrivare alla sua postazione di lavoro. Forse, pensandoci bene, è stato proprio lui ad aver salvato la baracca. In tema di arresti potrebbe essere il testimone chiave al processo che consegnerà i teppisti alla giustizia. Pone le mani sui fianchi e gongola nella sua fantasia, all’arrivo di Nives e del suo incidere sballottante.
«Ciao Emilio, ti stavo aspettando. Ho pensato fosse carino occuparci insieme del rifugio che ci ospita in orari differenti.» C’è gioia nella voce di lei, ma Emilio coglie solo un gorgoglio, diffondersi all’interno di un enorme Chupa Chups, sorretto da un corpo con seni, in pigiama.
«Lo so, ti sembrerà pazzesco e infatti lo è, però…» Nives gesticola di fronte al superiore sbigottito. «Come posso spiegartelo?» Si gratta la sommità del casco e scaglie di sapone cascano sul pavimento come coriandoli. Schiocca le dita. «Ma certo! Che cretina!» Protende le braccia e si slancia verso di lui.
«Stai indietro!» Anche se avesse capito che dietro l’essere alieno c’è Nives e avesse compreso oltre il glu-glu-glu insensato cosa lei gli stesse dicendo, la paura avrebbe comunque preso il comando del braccio che guizza e si serra sul tagliacarte nella libreria.
Nives lo afferra per le spalle e lo porta a sé, avvolgendolo in un bacio senza labbra all’interno del suo nuovo mondo insaponato, mentre lui affonda il tagliacarte nell’addome di lei. Stupore, meraviglia e occhi rotti dal pianto rivaleggiano con lo stupore, il dolore e il perdono, dipinti in quelli di Nives. «Va tutto bene Emilio, non è colpa tua.»
«Oddio, cosa ho fatto.»
«Shhh, non parlare, abbiamo poco tempo, ascoltalo.»
«Ti ascolto, sono qui, però devo telefonare, serve un’ambulanza.»
«Non me, lui, il sapone.» E, sia per calmarlo sia perché le forze le vengono meno, si distendono a terra, fronte contro fronte.
Il sapone parla attraverso le immagini ed Emilio scorge dietro la raccomandata di famiglia, Nives, la donna eccentrica fan del suo tic all’occhio e del modo in cui piega i tovaglioli a mensa, talmente timida da ripiegare su tête-à-tête con il divano e speranzosa nell’attesa di un invito a cena, la compagna che ha condiviso con lui una magia e ha ricevuto in cambio una pugnalata come fosse stata una volgare strega.
Emilio tenta di separarsi dalla stretta senza ferirla ulteriormente: «Smettila, lasciami andare, devo chiedere aiuto.»
«Non posso morire. Io ero già morta finché non l’ho scoperto. E lo stesso sta accadendo a te e…» colpi di tosse si tramutano in bolle all’interno del casco. «E dovrà capitare ad altri. Diffondilo come fosse una peste danzante che risveglia i sani dalla malattia della consuetudine.» I muscoli del volto si rilassano, le palpebre le si chiudono. «Starò bene.» Nives tranquillizza Emilio fintanto che Emilio stesso, entrato in sintonia con il sapone, scopre la prima tappa del suo risveglio. Il primo passo è seguire le orme strascicate di Teodoro, l’addetto alle pulizie, nel loro percorso a ritroso, fino allo scantinato e alla cassetta degli attrezzi.
«Mi raccomando, porta con te il dosatore e nascondilo in un luogo sicuro, ma non adorarlo come una reliquia, permetti a chiunque di essere cambiato.»
«E tu cosa farai?»
Nives arriccia le labbra e scuote la testa per togliere la stanghetta degli occhiali dalla sua visuale. «Aspetterò chi mi troverà e continuerò a respirare.»
I due corpi distesi immersi in un bolla rossastra si separano in due nuove bolle, altrettanto grandi e rossastre tali e quali l’originale. Il casco contenente Emilio si dilegua, Nives giace distesa.

Teodoro, il secondo ad arrivare, in ordine di tempo, all’azienda, pattuglia i piani indeciso se cominciare dal più semplice o far bella figura con il personale dando olio di gomito sulle macchie impiastricciate sotto la macchina del caffè del vice direttore quando, con la coda dell’occhio, coglie di sfuggita lo sfacelo del terzo piano e ne viene attirato, come una mosca nella ragnatela. In una mano ha lo sgrassatore, nell’altra stringe uno strofinaccio ma nessuna arma improvvisata può proteggerlo dal corpo di Nives riverso sul linoleum.
Teodoro, a differenza di Emilio, riconosce la donna dal pigiama di flanella in Nives e accorre a scuoterla, prima ancora di rendersi conto che c’è una pozza scura a tingergli e bagnargli le suole delle scarpe, e una sfera appiccicosa si è sostituita alla testa della futura proprietaria della ditta. Sospetta sia un incubo, quando riconosce nel profumo emanato dal casco piantato su Nives, il nuovo sapone ciliegia e papaia che ha ricevuto dallo strano commesso del centro commerciale, come campione omaggio. Sua nonna, donna di gran cipiglio, gli ha sempre detto che per svegliarsi, l’unica cosa da fare è chiudere gli occhi e lui, in ossequio alle usanze familiari, li chiude e quando li riapre, dopo così tanti secondi che gli sembrano passate clessidre, vede il sapone risalirgli le gambe e beffarsi della gravità, come i salmoni la corrente.

Copertina di Matteo “ShannoSauro” Vettori

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