Appena Maria chiuse la telefonata, Dario capì che la serata era andata. Non avrebbero recuperato né un vecchio film di Kusturica né sarebbero andati finalmente al Picnic Bistrot.
«Sta arrivando Chiara» disse seria. «Deve essere successo qualcosa con Filippo».
«Dobbiamo nascondere quella» si sbrigò a dire Dario, indicando una vecchia sedia di pelle nera dimenticata in un angolo del bilocale. «Non gliel’abbiamo mai resa: è qua da capodanno dell’anno scorso».
«Non mi sembra che ci sia bisogno di nasconderla ulteriormente» disse Maria, riferendosi alla quantità di oggetti ammucchiati sulla sedia che nel tempo avevano sfruttato come temporaneo approdo per qualunque cosa in attesa di una più adeguata collocazione, anche se poi ogni libro, coperta, maglietta, zaino, cacciavite, finiva per prenderci la residenza.
«E comunque non è il momento di pensare alla sedia» continuò Maria. «Chiara non mi ha voluto dire niente ma deve essere successo qualcosa di grave: non l’ho mai sentita così».
«Certo che potevamo sedercisi più spesso» si rammaricò Dario, sfiorando l’unico millimetro libero della seduta di pelle, poi ci appoggiò sopra un portapenne e una piccola stampa senza cornice. Contemplò soddisfatto la catasta di oggetti più disparati che, ammassati in quel modo, ricordavano una piccola piramide azteca.
Suonò il citofono.
Dario si precipitò davanti alla vecchia sedia.
«Non si sa mai» rispose Dario allo sguardo perplesso di Maria.
Le accortezze di Dario si rivelarono inutili perché Chiara entrò in lacrime, in preda a un’agitazione nevrotica. Non si tolse neanche il cappotto né salutò i due amici, si diresse immediatamente verso una delle due finestre e, con prudenza, come se non si volesse far vedere, diede una rapida occhiata fuori. Poi fece lo stesso dall’altra.
«Ragazzi, non è possibile, non ci posso credere» disse con voce rotta.
«Ma cosa stai guardando?» fece Dario, sorpreso ma anche un po’ intimorito dall’atteggiamento dell’amica che continuava a passare da una finestra all’altra, sbirciando fuori.
«Chiara, cos’è successo?» chiese Maria, avvicinandosi.
Chiara le si buttò sulla spalla e lasciò andare due o tre singhiozzi disperati che riempirono la stanza e lasciarono piccole macchie sulla felpa dell’amica. Dario osservò stupito la scena poi scrutò dalle finestre, cercando di capire cosa stesse guardando Chiara, ma fuori c’era soltanto la solita strada.
«Scusatemi» bisbigliò Chiara, in un attimo di calma. «Non sapevo dove andare e ho pensato…» poi sembrò seguire certe sue considerazioni personali e di colpo tornò ad agitarsi, a ripetere sempre più a bassa voce e sempre più ossessivamente: «Forse ho sbagliato a venire qui».
«Chiara, fuori non c’è nessuno» la tranquillizzò Dario, anche se non sapeva se quanto appena detto avesse un qualche senso. Dario sperava di ottenere delle risposte, ma Chiara non gli badò. Si guardava attorno come per orientarsi.
«Mi dispiace essere piombata qui così, ma ho bisogno di sfogarmi con qualcuno… è tutto così assurdo».
«Non ti preoccupare» disse Dario, sfiorandole il braccio. «Ma cosa guardavi fuori dalla finestra?».
Maria, senza togliere gli occhi dall’amica, allontanò le parole di Dario con un gesto della mano. «È successo qualcosa con Filippo?».
Chiara annuì.
A Maria sembrava strano che ci potesse essere qualcosa che non andava con Filippo: li aveva visti qualche giorno prima e tutto sembrava come sempre: pieno di affetto a bassa voce e di propositi mano nella mano. E poi Filippo sembrava un così bravo ragazzo, con quella borraccia termica sempre appresso per mantenersi idratato e il nome di Chiara sempre in bocca anche quando Chiara non c’era.
Dario guardò di nuovo fuori dalle finestre poi incrociò lo sguardo della compagna.
“Chiedile cosa stava controllando dalla finestra” la implorò telepaticamente. Ma Maria non gli prestò attenzione. Si sedette accanto all’amica, stringendole le mani.
«Siamo qui» la confortò. «Dicci tutto».
Chiara indugiò qualche secondo.
«Promettetemi su cosa avete di più caro al mondo che non lo direte a nessuno però».
Dario e Maria si guardarono.
«Lo giuro su venerdì 4 novembre dell’83» disse Dario.
«Lo giuro su Bill Murray» disse Maria.
Chiara per poco non scoppiò di nuovo a piangere di fronte a una tale dimostrazione di affetto. Il giuramento l’aveva chiesto solo per prendere ulteriore tempo dall’ammettere ad alta voce quello che aveva vissuto, secondo l’orologio, esattamente 42 minuti prima, solo per trovare un senso alle parole che stava per dire. Non si aspettava che avrebbero giurato veramente, ma per un momento si sentì protetta, al sicuro.
Dopo un bicchiere d’acqua, raccontò che era rientrata a casa dal lavoro, Filippo era sotto la doccia, e lei si era sdraiata sul letto ad aspettarlo. Il cellulare di Filippo aveva squillato. Era un vocale. L’aveva visto senza volerlo veramente. Avrebbe voluto fare finta di niente, entrambi erano molto rispettosi della privacy dell’altro, in tanti anni nessuno dei due aveva mai preteso un nome dalla suoneria del cellulare dell’altro, ma ormai gli occhi le erano caduti proprio su quella notifica e lo schermo era ancora acceso e non poteva non accorgersi che la conversazione di Whatsapp riportava il nome di una donna. Victoria.
«Non era salvata né come ‘Victoria lavoro’ né come ‘Victoria amica di chissà chi’, appellativi tipici della rubrica di Filippo» spiegò Chiara. «Io non sapevo dell’esistenza di nessuna Victoria, in genere Filippo mi aggiorna su tutte le persone che conosce o che frequenta per lavoro, ma una Victoria non l’ho mai sentita. Non so cosa mi sia preso lì per lì, me ne stavo già pentendo, ma ho premuto play…» e non sembrò più in grado di continuare.
«E…?» Maria e Dario insieme.
«È partita una scorreggia».
Dario non trattene una risata, Maria sì, anche se a fatica. Chiara fissava il pavimento come se cercasse una fuga specifica per la vergogna.
«Anche a me è venuto da ridere» riprese. «Ho pensato che fosse uno scherzo, ma poi ho aperto la chat: erano tutti vocali. Ho ascoltato il messaggio precedente, inviato da Filippo, poi quello prima di questa Victoria, poi quello ancora prima e ancora prima, avrò ascoltato una sessantina di vocali» e guardò i due amici.
«Tutte scorregge» disse.
Dario, con smorfie e gesti, cercò un qualsiasi cenno di intesa con la compagna sull’assurdità di quella storia, ma Chiara, afflitta e imbarazzata, faceva pensare a Maria tutto tranne che stesse mentendo.
«Anch’io sono rimasta scioccata. Insomma, voglio dire, chi cazzo era questa Victoria e perché si scambiavano delle scorregge?» e guardò la coppia di amici per leggere sui loro volti l’effetto delle sue parole. «Poi Filippo è arrivato in camera e, quando mi ha visto con il suo cellulare in mano, con la chat di Victoria aperta e con l’espressione che dovevo avere, ha fatto una cosa che non mi sarei immaginata… Pensavo che iniziasse ad accampare scuse su scuse o che morisse dalla vergogna o che scoppiasse a ridere, dicendomi che era uno scherzo, invece mi ha strappato il cellulare di mano e, con uno sguardo inquisitore che non gli avevo mai visto, ha iniziato a chiedermi: “Chiara, cosa hai capito? Hai capito qualcosa?”. Io non ho risposto, insomma, cosa dovevo capire, cosa c’era da capire? Erano solo dei fottuti peti».
«Solo dei fottuti peti» ripeté Dario.
«Filippo» continuò Chiara «mi si è messo davanti, in ginocchio, tenendomi le braccia ferme ma con la stessa delicatezza di sempre. Mi sentivo a disagio, non ci capivo più niente. Poi, con una serietà che non gli appartiene, mi ha detto: “Chiara, se hai capito qualcosa me lo devi solo dire”. Io allora non ci ho visto più, sono scattata in piedi e mi sono messa a piangere: mi sentivo presa in giro, stupida, e ho iniziato ad avere paura».
«Voleva manipolarti!» fece Maria.
«Lo pensavo anche io» ribatté subito Chiara. «Pensavo fosse una specie di manfrina per non dirmi la verità» si prese una breve pausa per riorganizzare pensieri e parole. «Ma quando mi ha visto reagire in quel modo, ha tirato un sospiro di sollievo. “Meno male” ha detto. “Non sai in che guaio ti saresti messa”».
«Quale guaio?» disse Dario, ma Chiara gli fece segno di aspettare.
«Poi, guardandomi con aria, direi, intimidatoria, si è sdraiato per terra, di fianco, come se fosse la Venere di Urbino, ha messo le gambe tese di lato, muovendosi con il busto finché non era perfettamente perpendicolare al pavimento, ha alzato un braccio sopra la testa, con l’altro ha preso il cellulare, se lo è portato all’altezza del culo, ha avviato il registratore vocale e, dopo una serie di lenti piegamenti del busto, ne ha smollata una e l’ha spedita.
“Ecco” ha fatto poi, tranquillo, come niente fosse. Io lì ho perso completamente il controllo: sono corsa da lui e ho iniziato a urlargli in faccia cosa cazzo stesse succedendo, anche due calci gli ho mollato, ma senza fargli male. Lui per un po’ ha fatto finta di niente: si è rimesso in piedi, ha flesso il collo un po’ a sinistra e un po’ a destra come per finire quello strano esercizio. Io però continuavo a seguirlo ovunque andasse, a non dargli tregua, insomma, volevo delle risposte. A un certo punto Filippo, con insofferenza, ha ripreso il cellulare, ha riaperto la chat con Victoria e me l’ha messa sotto alla faccia. “Sono arrivati altri vocali dopo che ho mandato l’ultimo?” mi ha chiesto. “No, e sai perché?” e, rimettendomi il cellulare sotto la faccia, ha riprodotto l’ultimo vocale. “Ascolta” ha detto. “Sentito? Frequenza cupa e bassa, in gergo si chiama ‘Clarabella’, si ottiene contraendo simultaneamente per tre volte dorsali e la fascia di Waldeyer, sequenza volgarmente detta anche Rettodorsali” e mi ha guardato come per chiedermi se avessi capito. “Significa: Passo e chiudo. Fine delle comunicazioni. Ecco perché non sono arrivati altri messaggi” e mi ha riguardato per vedere se le sue parole avessero assunto un qualche senso. Ma io non capivo e gli ho gridato: “Ma che cazzo stai dicendo?” e lui ha scosso la testa, come se volesse rimproverarmi. “È un sistema cifrato!” ha gridato. “Sono sequenze criptate, hai capito adesso?” e io…».
«Chiara, cosa stavi controllando dalla finestra?» saltò in piedi Dario e si precipitò a sbirciare fuori.
«Chi cazzo ci hai portato sotto casa?» ma fuori, da quello che vedeva, non c’era nessuno.
«È un fottuto agente segreto» gridò Chiara, nel panico. «Mi ha detto proprio così: “Chiara, sono un fottuto agente segreto, sei contenta adesso?”».
Per un attimo, solo silenzio. Poi Dario, in ginocchio alla finestra: «Non ci posso credere: ci hai portato i servizi segreti sotto casa» disse preoccupato, gesticolando per richiamare l’attenzione della compagna. «Ci ha portato sotto casa i fottuti servizi segreti, hai capito?» ma Maria gli dedicò poco più di un’occhiata e si avvicinò ancora di più a Chiara.
«Ti rendi conto che niente ha senso in questa storia? Che sembra tutta una pantomima per non ammettere la verità, qualsiasi essa sia?» disse.
«È quello che ho urlato anche a Filippo, ma lui ha ribattuto dicendo che, negli anni ’50, con la faccenda degli alieni, la CIA aveva fatto la fortuna di Eisenhower; che la Stasi nel ’77, per comunicare allo Stato centrale le informazioni sugli individui ostili e negativi al regime, aveva utilizzato le canzoni di Hotel California; che i vertici dei Servizi Segreti Italiani, come punto di forza per portare avanti il progetto indisturbati, contano proprio su questo: la totale assenza di credibilità; che un certo Silvestrini non ripete altro che una qualsiasi verità copre come minimo due bugie».
«Chiara» le si mise di fronte Dario, cercandole il suo sguardo. «Dimmi che non ti sei fatta seguire».
Maria gli disse di piantarla e lo invitò a calmarsi. Chiara intanto raccontava come Filippo l’aveva supplicata di ascoltarlo. “Due bugie?” aveva detto Chiara ma Filippo le aveva rimesso la chat con Victoria sotto gli occhi. “Guarda” e intanto scorreva i vari messaggi. “Ogni vocale è una sequenza cifrata. E ogni sequenza cifrata ha un nome. Guarda, questa qui, per esempio: 3 secondi, gorgoglio… questa è Topolino” aveva spiegato Filippo. “Sono mesi che le sto studiando. Esistono più di 1000 combinazioni. Sono una variabile di contrazioni, distensioni muscolari e gas. Guarda questa, questa qui: ossigeno ed estensione isometrica lombare: Buzz Lightyear. Nel mondo siamo solo in dieci a testare questo nuovo sistema cifrato. Victoria è la mia equivalente in Russia”.
«A quel punto non ce l’ho fatta più e me ne sono andata» concluse Chiara. «Poi ti ho chiamata…».
«Chiara, capisci che…» iniziò Maria, ma un pensiero la distrasse. «Anche se…» esitò e alla fine riuscì solo a dire: «Ma da quant’è che Filippo collabora con i Servizi Segreti?».
«Non lo so» Chiara, disperata. «Ci ho ragionato anche io mentre venivo qua. Forse quando è andato a fare quella trasferta di due settimane a Roma dicendomi che doveva concludere accordi con dei fornitori per conto dell’azienda, magari in realtà…» poi sembrò perdersi tra le troppe domande irrisolte che le giravano per la testa.
«Io non l’ho mai visto né studiare né fare stretching, cioè, voglio dire, quando può aver trovato il tempo per imparare tutte quelle sequenze» si chiese a un certo punto. «Sono andata anche a fargli una sorpresa in ufficio qualche giorno fa, e lui era lì, alla solita scrivania. Non c’era nulla di strano… insomma, mi sarei dovuta accorgere di qualcosa, no?» continuò, sempre più sconcertata. «Ma io adesso cosa devo fare?» implorò infine a Maria.
«Tranquilla, Chiara» si intromise Dario. «Non ti hanno seguita, là fuori non c’è nessuno, ma la certezza ce l’avrai quando uscirai, perché uscirai, vero?».
«Falla finita!» lo rimproverò ancora Maria. Poi il cellulare di Chiara iniziò a suonare.
«È lui».
Dario scattò in piedi e sembrò volersene andare.
«Cosa gli dico adesso?» fece Chiara inquieta. «Se gli dico che sono da voi, capirà che vi ho raccontato tutto. Sarete colpevoli solo per avermi ascoltato».
«Colpevoli? No, Chiara, non è possibile, non può essere» ripeteva Dario girando in tondo. «Butta via il telefono, non rispondere!».
Chiara indugiò ancora un po’.
Il cellulare non smetteva di suonare.
Maria si passò velocemente le mani sui capelli, studiando la stanza in cerca di un’idea. Quando la trovò, trattenne Chiara dal rispondere.
«Rispondi e digli che sei da noi» le suggerì Maria. «Tanto se quel figlio di puttana è chi dice di essere lo sa già. Digli che ci hai detto che avete litigato ma nessun accenno ai motivi: noi non sappiamo niente, tu non ci hai detto niente!» e guardando Dario parafrasò: «Rivelazione di segreti di Stato».
Dario sembrò ragionarci sopra e annuì.
«Digli che avevi bisogno di distrarti per non pensare per poi pensare meglio, che sentivi il bisogno di stare in compagnia e che, visto che eri qui, hai colto l’occasione per riprenderti quella» e Maria indicò la vecchia sedia di pelle nera ricoperta di roba. «Finché non sappiamo come stanno realmente le cose è meglio se non ti esponi. Sarà il tuo alibi. Ti serve un pretesto e quella sedia è tua, ce l’hai prestata per la festa di capodanno dell’anno scorso, ricordi? E poi “Qualsiasi verità copre due bugie” no?» sorrise, tentando di capire se i due seguissero il suo ragionamento.
A Dario, sentendo nominare la sedia, sfuggì una smorfia insofferente ma non trovò nulla da ridire vista la drammatica situazione.
Chiara sembrò aver afferrato, e Maria la lasciò libera di rispondere.
«Non si sa mai» rispose Maria allo sguardo perplesso di Dario.
La telefonata non fu breve. A un certo punto Chiara bisbigliò: «Sì, sono da loro» condividendo con Dario e Maria la stessa espressione incredula. Poi attaccò.
Fu un’occhiata di Maria a far capire a Chiara che non era il momento di rimuginare su quanto sentito e di sbrigarsi a riferire tutto per filo e per segno.
«Mi ha detto che non è arrabbiato se non gli credo» iniziò Chiara. «Che quando il suo equivalente in Germania ha voluto testare la sicurezza del sistema, riportando tutto alla madre, anche quest’ultima non ha creduto a una sola parola. Ha detto che d’altronde Silvestrini non è mica un improvvisato, che questo sistema è il risultato di anni di lavoro di una delle menti più brillanti dei Servizi, ed è un sistema tutto italiano».
«Ti ha detto questo?» disse Maria.
«Ha aggiunto che mi aspetta a casa, che gli dispiace di aver reagito in quel modo, ma è stato colto alla sprovvista. Ha detto che in fondo se è stato ritenuto idoneo per proteggere gli interessi del Paese è anche merito mio, che non ce l’avrebbe fatta senza di me e, se osserviamo questo episodio dalla giusta angolazione, dopotutto, potrebbe rivelarsi utile, potrebbe diventare l’ennesimo caso di studio sul livello di sicurezza del progetto. Dice che ha altro da mostrarmi e che ha già messo a riscaldare una tisana».
«Va bene» disse Maria, uscendo dal buio in cui l’aveva gettata il resoconto dell’amica. «Tu comunque rimani fedele al piano. Se ti chiede qualcosa digli come stabilito e prendi questa…». Maria corse a liberare la sedia dall’ammasso di oggetti e gliela passò. «Non te la dimenticare. È la tua verità».
Chiara si portò la sedia al petto e la strinse forte, come se volesse farsi coraggio, come se quella stretta potesse far aspettare il tempo ancora un po’.
«Fuori sembra tutto tranquillo» fece Dario da una delle finestre.
«Scrivimi per qualsiasi cosa e ricordati il piano» ancora uno sguardo sincero e caloroso da parte di Maria.
Chiara agitò la testa per dire di sì, ma i suoi polpastrelli, sempre più rossi dalla forza con cui premevano sulla sedia, tradivano tutta la sua agitazione.
«Noi siamo qua» disse Maria ma Chiara era già scomparsa dietro la porta.
Dario corse alla finestra.
«È uscita» disse. «Non è successo niente».
Maria rispose con un cenno per dire che aveva capito. All’improvviso, le era venuta una gran voglia di fumare.
Chiara non incontrò nessuno per strada. Stringeva ancora forte la sedia e, appena voltato l’angolo, l’unica cosa che vide fu una densa cortina di nebbia abbassarsi dai tetti, qualche strada più in giù. Rimase a guardarla. Inghiottiva persiane, nicchie votive e divieti d’accesso.
Chiara sorrise.
Arrivò alla macchina, sistemò la sedia sul sedile accanto al suo. Poi il cellulare squillò di nuovo.
«Amore» disse Filippo. «Stai tornando?».
«Sì, sono uscita ora».
«Il tempismo com’era questa volta?».
«Sempre qualche minuto in anticipo. Ma non ti preoccupare».
«L’hai recuperata?».
«È proprio qui, accanto a me» disse Chiara e accarezzò la vecchia sedia in pelle nera.
foto di Luca Giommoni (particolare dell’opera Deap Swamp realizzata da Tega Brain)
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Luca Giommoni ha pubblicato racconti su antologie e riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, Narrandom, Spazinclusi, Clean, Malgrado le mosche, Il Corriere Fiorentino, ecc.
Il rosso e il blu – Una comune favola di migrazione (effequ) è il suo primo romanzo.