Racconto di Daniela Santoro
La prima volta si era svegliato alle quattro del mattino, sfiorando confusamente la parte di letto rimasta scoperta dal piumone.
Aveva sognato che alla sua sinistra, dove ora sentiva il freddo del lenzuolo, c’era Luca, il figlio più piccolo, rifugiatosi tra lui e Greta, come faceva nel periodo dell’asilo.
Stordito da quell’immagine, Alvise aveva acceso la luce del comodino, ritrovando il piccolo spazio della sua camera da letto, l’armadio bianco di fronte, la sedia con gli abiti preparati la sera prima.
Non li vedeva da un sacco. Cos’era, Natale 2011? Greta non si faceva viva neanche per chiedergli i soldi del mantenimento – che Alvise aveva smesso di mandarle – né gli arrivavano messaggi per le formalità burocratiche. Fanculo, stava molto meglio da solo.
La sveglia suonava da un pezzo. Quando si era riaddormentato? Un sonno denso e cupo. Erano già le sette, si alzò, mise su la moka e aprì l’acqua calda della doccia: era diventato bravissimo a lavarsi nel tempo che impiegava il caffè a salire, arrivava a spegnere il gas sempre più in sincronia con il riempimento della macchinetta.
Si vestì in camera con gli abiti pronti sulla sedia accanto al letto e prese in cucina la borsa del lavoro, già preparata, come ogni giorno, dalla sera precedente. Alle 7 e 24 si trovava in ascensore.
Era in vantaggio di sei minuti sulla tabella di marcia e pensò di sfruttarli per fermarsi a prendere un cornetto al bar di fronte. Non erano buoni come quelli del panificio in fondo alla strada ma bisognava ogni tanto ingraziarsi i vicini, soprattutto il titolare del bar, un cinese che spesso fingeva di non vedere i suoi clienti parcheggiare nei posti riservati al condominio.
Passando davanti alla porta al piano terra, Alvise si accorse che era socchiusa e s’incuriosì: in dieci anni non gli era mai capitato di poter sbirciare nell’appartamento di quella famiglia tanto rumorosa quanto schiva. Guardando all’interno si intravedeva la sagoma di un uomo disteso sul divano, sembrava immobile, forse addormentato. Eppure Alvise sapeva che il proprietario dell’appartamento era un operaio edile e tutti i giorni si alzava prestissimo: verso le sei si sentiva il rumore secco, ripetuto, del rasoio sul lavandino del bagno, che si trovava proprio sotto la sua camera da letto.
Il pulsante per aprire il portone non funzionava. Alvise controllò se era saltata l’elettricità nelle scale, ma le lampade si accendevano. Dovremo far riparare anche questo, pensò, quando vengono i tecnici a sistemare le luci esterne. Prese il mazzo di chiavi dalla borsa, sbuffando: aveva perso quasi due minuti per quell’inconveniente. La chiave girava nella toppa, ma il portone restava chiuso. Provò a girare dall’altra parte, senza risultato, poi inforcò gli occhiali e osservò la serratura ma non ci trovò nulla di strano. Dopo un po’ di tentativi si guardò indietro, verso la porta socchiusa: avrebbe potuto chiedere ai vicini di aprire con le loro chiavi, ma si ricordò dell’ultimo litigio in assemblea condominiale e lasciò perdere. Che strano silenzio, però. Neanche i bambini andavano a scuola quel giorno? E le urla quotidiane della moglie che buttava giù dal letto i figli per svegliarli?
7:30, addio cornetto al pistacchio. Per fortuna aveva dei crackers in borsa, per le emergenze. Si avviò giù per le scale che portavano al vano garage, sarebbe uscito aprendo il cancello automatico con il telecomando. Probabilmente avevano cambiato la serratura del portone, senza preoccuparsi di avvertirlo: l’amministratore l’avrebbe sentito, questa volta.
Cominciò a premere sul telecomando prima di uscire all’aperto, nel cortile di transito delle macchine. La luce si accese ma il cancello rimase fermo. Riprovò più volte, avvicinandosi, poi si arrestò accanto al cancello per verificare se ci fosse qualche ostacolo. Toccò l’inferriata e cominciò a scuoterla, ma non accadde niente. Avrebbero dovuto pensare a un cancelletto pedonale per casi come questo: si voltò per vedere se stesse uscendo qualche auto ma quella mattina non ce n’era traccia. Niente persone, niente automobili, niente rumori del traffico dalla strada.
Alvise percorse la piccola discesa e risalì di corsa per le scale interne. Gli seccava arrivare in ritardo, anche se aveva l’orario d’ingresso flessibile, perché così saltava la sua tabella di marcia. Non aveva tempo da perdere, lui.
Riprovò ad aprire il portone con le chiavi, col pulsante, fece rumore di proposito con la maniglia, provò a battere sul portone. Si avvicinò alle vetrate e guardò la stradina di fronte. Il bar pareva vuoto dalla sua prospettiva. Le luci erano accese ma non c’era nessuno dentro, neanche il cinese che di solito metteva fuori sedie e tavolini, a quell’ora. Sembrava quasi di essere nell’appartamento che un tempo avevano al mare, qualche volta che ci era capitato d’inverno. Anche la luminosità era sottotono, quella mattina: tutto sembrava un po’ sbiadito, nonostante il sole di aprile che stava già illuminando le finestre del condominio di fronte.
7:55. Il suo primo ritardo al lavoro in più di dieci anni. Si avvicinò alla porta dell’appartamento a piano terra, all’interno l’uomo era ancora addormentato sul divano, i suoi contorni netti disegnati dalla luce dell’acquario appoggiato al mobile di fronte.
Suonò al campanello, aspettò, suonò più forte, niente da fare. Trafelato, salì dalla vecchietta del primo piano, che era sicuro di trovare sveglia, a quell’ora. Si attaccò al campanello, poi avvicinò l’orecchio alla porta. Non si sentiva neanche il consueto rumore della TV in cucina.
Ritornò al piano terra e provò a entrare a casa dei vicini che avevano la porta socchiusa. Permesso!, scandì a voce molto alta. Camminando lentamente fu in salotto, dove li vide tutti e quattro addormentati sui divani. Buongiorno! Accese la luce. La bambina era seduta sul tappeto, con la schiena appoggiata al bordo del divano e la testa rovesciata sui cuscini. Si avvicinò al bambino, prono sul divano, con le braccia lungo i fianchi e la testa di lato. La pelle era calda e il battito regolare. Sveglia!, gridò in faccia alla donna. Scosse a turno i corpi di tutta la famiglia, sempre più forte, poi preso dal panico provò ad aprire le finestre, che erano tutte bloccate, compresa quella grande che dava sul terrazzo.
Erano vivi, tecnicamente, però era impossibile svegliarli. Pensò che forse un ladro li aveva narcotizzati per derubarli, ma la casa sembrava in ordine. E poi che senso aveva lasciare la porta di casa aperta?
Si guardò intorno, appoggiandosi alla parete per prendere fiato: il motorino dell’acquario ronzava leggermente ma i pesci si erano nascosti; una luce verde proveniva dai cristalli liquidi di un orologio da camera, che segnava le 22:15. Dappertutto si sentiva un buon profumo, forse un deodorante per ambienti.
Uscì in fretta dall’appartamento e per un tempo che gli parve lunghissimo rimbalzò dal portone al garage, dalle scale ai corridoi del condominio, suonando tutti i campanelli alle porte senza risultato. Pensò che probabilmente il panico non gli consentiva di ragionare, doveva esserci una spiegazione, per forza, doveva esserci una soluzione a quel pensiero assurdo di essere bloccato, catturato, prigioniero nel suo condominio. E come mai il cellulare non prendeva?
Si sedette sugli ultimi tre gradini a piano terra, tenendosi la testa con le mani, e guardò verso il portone, sperando di veder arrivare la signora delle pulizie.
Poi si alzò in piedi, ricordandosi della scheda di plastica che aveva utilizzato per entrare in casa una volta che aveva lasciato le chiavi dentro. Aveva ritagliato un rettangolo tra la parte piana e quella curva di un flacone di detersivo, seguendo le istruzioni di un tutorial su YouTube. L’aveva conservata in garage, nella scatola degli attrezzi: bastava farla scorrere nella fessura tra la porta e lo stipite, dall’alto verso il basso, perché la porta blindata si aprisse. Naturalmente se non era stata chiusa a mandata.
Cominciò dal terzo piano: suonò a tutti i campanelli del pianerottolo. Mentre aspettava, nella luce mista del neon e di quel poco che arrivava dai finestroni in alto, ermeticamente chiusi, gli sembrò che il silenzio avesse una densità speciale. Non sapeva dire se era la mancanza di voci umane, o dei rumori più familiari, a creare quell’atmosfera quasi di sospensione. Immaginò il consueto sbattere delle porte, il ticchettio dei tacchi sui parquet, le chiavi che giravano nelle serrature, le voci dei bambini. Era come un’attesa, un’aria immobile e pesante, era come se ci fossero occhi e orecchie a sentire e amplificare ogni rumore fatto da lui, soltanto da lui, Alvise. Si guardò intorno, sfiorò le pareti di intonaco bianco, osservò gli angoli in alto alla ricerca di telecamere. Anche l’ascensore, fermo al pianerottolo con la luce verde e le porte scorrevoli aperte che si intravedevano attraverso il vetro smerigliato, anche l’ascensore pareva spiarlo, metterlo alla prova, chiedergli: e ora, che fai? E ora che faccio?, pensò Alvise.
Delle tre porte blindate soltanto una non era chiusa a chiave, quella dei pensionati Tonelli. Si aprì senza fatica e Alvise entrò di un passo lasciando la porta completamente aperta. Signor Claudio!. Signora, è permesso? Buio e silenzio. Proprio loro, che si svegliavano sempre all’alba, lei per riordinare e pulire e il marito per rinchiudersi nel box a fingere di riparare elettrodomestici. Un aroma dolciastro aleggiava nell’atrio. Accese la luce in ingresso e in salotto, poi capì che stavano ancora a letto. Che succede? Sollevò le tapparelle della camera, si avvicinò al letto matrimoniale e ritrovò quell’inerzia dei corpi tipica del sonno profondo che già aveva notato con la famiglia al piano terra. I due coniugi, le coperte fin sotto il mento, giacevano supini, la testa appoggiata morbidamente al cuscino. Alvise riprese fiato, si guardò intorno, provò ad aprire la finestra senza grandi aspettative; si fece forza e sfiorò il collo dell’uomo, ne sentì il calore, scese sul petto e avvertì il battito cardiaco. Senza dire una parola, Alvise tornò sui suoi passi e richiuse la porta d’ingresso.
Si accorse di tremare, incrociò le braccia per cercare di apparire tranquillo. Apparire a chi? Perché era così sicuro che ci fosse qualcuno o qualcosa che aveva orchestrato quella messinscena? Era solo per lui? E a che scopo?
Se il cellulare non funzionava – gli venne in mente – avrebbe potuto collegarsi in rete dal suo pc. Rientrare in casa – come mai non l’aveva ancora fatto? – e finalmente comunicare con l’esterno, chiamare il 118, innanzitutto, per i suoi vicini, poi il ferramenta per il portone e l’amministratore!
Fece le rampe con le chiavi di casa già in mano, sul pianerottolo si fermò un attimo a immaginare come sarebbe stato vedersi da una telecamera piazzata nell’angolo in alto. Un uomo in piedi davanti alla sua porta di casa, nella mano sinistra la borsa da lavoro, ora appoggiata per terra mentre trafficava con le chiavi nella serratura. Entrare e chiudersi la porta dietro senza indugiare, senza lasciare uno spiraglio da cui potesse entrare qualcuno o qualcosa, magari solo un animale rimasto rinchiuso nella tromba delle scale dalla notte prima, o una presenza umana, un ladro, chissà, un criminale, un pazzo scappato dall’ospedale lì vicino.
Una volta in casa, Alvise si tranquillizzò. Accese il portatile in salotto mentre controllava la camera, il bagno, il ripostiglio.
Anche la fibra avevano manomesso! Collegarsi a Internet era impossibile. Un guasto alla linea era da escludere, troppe coincidenze, impossibile. In casa però tutto sembrava a posto, nessuno era entrato, allora perché anche le sue finestre erano bloccate? Avrebbe dovuto spaccare il vetro, le tapparelle erano fissate dall’antifurto e sarebbe stato necessario scalzare uno dei listelli in pino degli avvolgibili per farsi finalmente sentire da fuori, per gridare aiuto, per far entrare il sole.
La cassetta degli attrezzi era in garage, col punteruolo che gli serviva per operare la piccola demolizione, una rottura della perfetta integrità del palazzo, del totale isolamento in cui si sentiva sempre più inaccessibile. Fuori di casa, nel vano scale, avvertì ancora un buon profumo, come di bucato appena lavato e steso al sole nel giardino condominiale. Da dove veniva quell’odore di fresco e pulito, l’aroma familiare che gli ricordava l’infanzia e l’estate lunghissima delle vacanze, gli amici con cui correva tra le lenzuola bianche appese? Seguì il profumo fino al secondo piano, che sapeva disabitato. Il costruttore aveva tenuto per sé un appartamento grande unendone tre contigui. L’aveva ammobiliato, preparato per un affitto, avevano pensato i condomini, ma in tanti anni non si era mai deciso a utilizzarlo in qualche modo.
Alvise riuscì subito ad aprire la porta con la scheda di plastica. Sul tavolo c’era un dolce tagliato a fette, qualcuno ne aveva già mangiato quasi la metà. Ecco cos’era quel profumo: vaniglia e zucchero. A ripensarci, non aveva il sintetico dell’ammorbidente. Un dolce fatto in casa, ecco, con ingredienti naturali, biologici. Chi abita qua dentro? Fece un giro per le stanze, era bello, pensò Alvise, gli sarebbe piaciuto viverci. Era arredato con gusto ma sobrio, pensato per essere gradito a molti. Si fermò un attimo sul divano, era stato in piedi tutta la mattina, in fondo non c’era niente di male. Si accorse del dolore alle gambe, tolse le scarpe e si allungò sul poggiapiedi. Anche la fame, però, si faceva sentire, d’altronde doveva essere già quasi mezzogiorno, anche se l’orologio a muro segnava le 7 e 24. Andò a prendere la borsa che aveva lasciato accanto al tavolo e guardò il pacchetto di crackers ma poi prese in mano una fetta del dolce alla vaniglia e si mise comodo sul divano.
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay
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Daniela Santoro è nata a Napoli ma vive e lavora a Treviso. Scrive quasi ogni giorno per qualche ora, di solito all’alba, ma alle otto in punto si trasforma in una professoressa di matematica. Ama leggere ovunque, anche se preferisce farlo in sala d’attesa dal medico, al passaggio a livello o nella macchina parcheggiata in doppia fila, anche a Treviso.