Un racconto di Monica Pace
Di ritorno dalla pesca, Michè scarica cassette di polistirolo sulla stradella del porto. Dalla barchetta addossata al muro d’attracco, che segna il confine tra mare e terra, i suoi occhi incontrano i piedi dei passanti. Sta in piedi a gambe larghe a poppa, ricevendo le cassette da Tanino. Ogni tanto accompagna l’unico amico usando la barca di lui, più che altro perché ai vecchi pescatori come Tanino la pesca è indispensabile oltre ogni ragionevole età. La giornata non è stata fruttuosa, ed entrambi urlano richiami per vendere il pesce prima di essere costretti a calare il prezzo per l’avanzare della mattina verso l’orario del pranzo. Al filo della strada senza marciapiede il suo sguardo incrocia i sandali rosa di Alice con gli unicorni colorati disegnati sul davanti, i piedi già abbronzati per le corse libere nei vicoli del paese dopo la scuola, le gambe secche e le ginocchia ossute, sempre sbucciate per qualche avventura avuta con le sue amichette giocando a nascondersi dai maschi. Infine le cosce di Alice affondano sotto una gonnellina di jeans corta e sfilacciata. Michè scarica un’altra cassetta.
– Zì Michè, che pesci sono questi? – Indica la bambina
– Questi sono pesci coniglio, non toccarli che hanno le spine cattive sulla schiena
– Ma sono buoni da mangiare?
– Zì Tanino dice di sì, ma io non li ho mai assaggiati
– Perché si chiamano coniglio? – Si accovaccia davanti alla cassetta a guardare più da vicino
Michè si passa il fazzoletto sulla fronte e guarda fisso dentro la cassetta. – E che ne so io? Tutti questi pesci stranieri hanno nomi di altri animali o di cose: lo scorpione, la palla, la lucertola, la piramide…
– Sembra un circo! – Alice ride attirando l’attenzione della madre che contratta l’acquisto del pranzo alla barca vicina. Michè alza lo sguardo dalla cassetta lentamente, risalendo lungo la bambina, fino ad arrivare alla bocca aperta e sdentata persa tra i riccioli smossi e in disordine.
Michè ama pescare, anche se sempre più spesso si deve confrontare con quelle specie aliene arrivate da chissà dove; allora gli rimane una rabbia dentro, a cui non sa dare un nome, e che gli lascia un alito agro anche dopo esser tornato a occuparsi alle sue faccende abituali, come riparare le reti o districare le chele essiccate dei granchi rimaste tra le maglie. Sono ormai anni che va avanti così in tutto il Mediterraneo: le aguglie a competere con i mezzobecco, gli inutili pesci flauto che ogni tanto rimangono intrappolati nella rete quando lui getta l’ancora al margine della prateria di posidonia, le triglie leggermente diverse da quelle locali e così via, fino al maledetto granchio blu. Quando pesca da solo restituisce al mare tutte le creature misteriose di cui non ha una vera esperienza.
– Alice! Accanto a me devi stare! Quanto volte te lo devo ripetere! – La bambina rivolge alla madre uno sguardo ribelle, ma ubbidisce senza salutare, tanto Zì Michè lo incontra in paese almeno dieci volte al giorno. La donna lo fissa muta e Michè finisce di sistemare le cassette, inclinandole un po’ a presentare il pescato, inclusi quei pesci coniglio che fosse stato per lui non sarebbero mai arrivati fino a terra, mentre Tanino lava la sua barca.
– Fammi sciacquare Tanì – Non vede l’ora di finire per potersi andare a lavare le mani come dice lui. In barca si deve accontentare della pompa del porto.
– Di nuovo Michè? – Tanino non lo prende in giro come gli altri per questa ossessione delle mani, si limita a tenere la pompa, fissandolo.
Di solito Michè attraversa la superficie dell’acqua come se esplorasse un altro pianeta; pur conoscendo tutti i trucchi per garantirsi la sopravvivenza, non può dire di aver scoperto il segreto del mare, come pretendono gli altri pescatori seduti al bar del paese o al circolo sociale. Lui assiste in silenzio ai loro racconti mimati che si ingigantiscono per poi rinsecchire al passare del tempo, e ascolta, gettando occhi sulle femmine che passano veloci in strada, cariche di spesa o di zainetti colorati.
Non ne ha mai davvero avvicinata nessuna, racchiudono in loro un mistero più grande del mare e gli sono sconosciute da sempre.
Invece loro sanno: da bambine le madri le sorvegliano, poi, non appena crescono, lo tengono alla larga come per una rivelazione condivisa, come se emanasse una puzza di pesce invenduto e dimenticato al sole. Ogni tanto bussa i tre tocchi alla porta di Giacinta, nella casa bassa ai confini estremi del paese, ma per Michè lei non conta davvero. Quelli sono incontri necessari, che consuma con la foga della cernia predatrice e solitaria quando, finito l’appostamento, si appropria della sinuosità del polpo per divorarla. Dopo, si sfrega la pelle con furia. Giacinta non lo vuole mai rivedere prima di tre settimane, minacciando di raccontare tutto a Tanino.
Così, il più delle volte, pesca in solitudine, restando più del necessario in attesa delle nasse da recuperare, oppure partendo con la lampara prima degli altri quando è tempo di calamari. Scruta i diversi umori dell’acqua dalla superficie, attendendo con fiducia che le profondità a lui precluse gli concedano la giornata. I regali del mare sono sudati, ma la fatica è normale, come comprendere le stagioni e gli amori dei pesci e le correnti e il loro interagire con il vento e con i diversi fondali. È considerato da sempre un pescatore ordinario, senza un tocco da vero maestro, e nessuna storia fenomenale da raccontare.
Al tramonto ha gettato la rete dietro a un promontorio lontano, dove nessuno va volentieri per il rischio di impigliarla. Così gli sembra, dapprima. Inizia a maledire le rocce il mare il vento la rete e sé stesso. Decide di tirare, rischiando il tutto per tutto. Emerge tra le maglie della rete, intatta, completa, verde, incrostata di una storia che lui non saprà conoscere, i piccoli denti bianchissimi, i piedi sottili e le caviglie modellate alla perfezione, le orbite purtroppo vuote. Mentre la libera Michè pensa al colore che restituirà ai suoi occhi e soccombe al desiderio di rivederla lucida, il bronzo ripulito, nella sua veste morbida, ornata da una sottile cintura annodata in vita e da una fascia nei capelli mossi, che terminano in piccole punte arricciate e in disordine, come attraversate dal vento. Dal fondo della barca dove l’ha adagiata, accarezza le braccia delicate protese verso di lui.
Copertina di Loredana Palamà
Monica Pace è nata a Firenze e vive a Roma dove fa la ricercatrice. Alcuni suoi racconti sono apparsi su Vie di fuga e EquiVoci, ebook a cura di «Cattedrale» e della Scuola del Libro, e su Retabloid, Spazinclusi, Hook magazine, Nazione Indiana e inutile. Dal luglio 2023 è ospite del collettivo Spazinclusi.
Loredana Palamà è nata a Lecce nel 1963, cresciuta a Roma e vissuta diversi anni in Germania. Ha frequentato il liceo artistico, il corso di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e laboratori di tecniche di incisione e di ceramica. Lavora da tempo nell’ambito di corsi creativi nella scuola primaria ed espone lavori pittorici e grafici a Roma e in Germania. Ha illustrato una decina di libri, tra i quali i più recenti sono: Feles in fabula – Edizioni Espera, 2020; Frottoliere – Apollo Edizioni, 2021; Artemicia – Edizioni Espera, 2022.