Immagine di Erika ROmano per il racconto "Una domenica"

Una domenica

“Così non va bene!”
“Come non va bene! Perché non va bene?”
“Perché non va bene, dai!”
“E non ci possiamo fare niente?”
“É che è tardi, se me lo dicevi prima ti rimediavo una di quelle!”
“Di quelle quali?”
“Di quelle che ci stanno, su! Ma così ci rimane solo una possibilità.”
“È quella che penso io?”
“C’è rimasta solo lei”
“Ma non è troppo presto?”
“A lei non piace tirar tardi, è una mattiniera”
“Sono le cinque del pomeriggio”
“E allora sarà già sveglia, dai. Prepara i soldi”
“Chissà se bastano”
“Tranquillo, chiede una cifra modica”.

Silvano mi aveva dato una bella salvata. Mi appropriai indebitamente delle banconote del salvadanaio per le emergenze dei miei, perché di emergenza si trattava. Vincenzina l’indomani avrebbe avuto casa libera ed era il momento giusto per provarci. Ero sicuro che ci sarebbe stata, stavamo un sacco insieme. Mi aveva confidato che non voleva andare all’università. Temevo sarebbe finita in qualche fabbrica: cartellino, otto ore di lavoro tutto uguale, cartellino e a casa a dormire. Meritava il meglio dalla vita, era fantastica, intelligente e sensibile. E per la sua prima volta meritava uno più esperto di me che non avevo mai visto una donna nuda. Non volevo fare disastri, ma nemmeno che la nostra fosse una storia platonica.
Era quasi verso sera quando arrivò Silvano. C’era qualcosa che mi infastidiva in lui. Portava sempre la sciarpa del Milan, ma faceva poco pendant con la sua faccia marrone. Di solito arrivava da me in bicicletta ma ultimamente prendeva il treno, si sentiva un gran signore. Mentre correvo per le scale iniziai ad essere pieno di dubbi. Era davvero la cosa giusta? Il mio amico lesse le perplessità nei miei occhi. “Guarda la fotografia” mi disse. In effetti quella signorina un po’ agèe con i capelli legati sembrava rassicurante. Accelerammo il passo, dovevamo farci mezza città a piedi. Mèta da raggiungere: Carcano, via Canonica.
Attraversavamo vicoli e strade. Io mi perdevo dietro ogni cosa: le botteghe, le signore con la spesa, i mariti che rientravano dal lavoro. Passarono gli zingari, qualcuno disse che erano diretti al mare. Ero un ragazzino pieno di fantasia e immaginavo che in quel momento, lo stesso in cui correvo verso via Canonica, tutto attorno succedessero cose incredibili. Grazie ad una vecchia macchina per scrivere, un attore iniziava un’opera che anni dopo gli avrebbe fatto vincere il Nobel; un cardiologo inventava canzoni strampalate con cui sarebbe diventato famoso. Ma erano illusioni: quella era la vecchia e industriosa Milàn, mica l’America.
Una volta vicini fummo guidati dalla musica. Era lei. Suonava seduta su una pieghevole in mezzo alla strada. Dal vivo incuteva un certo timore. Silvano era tranquillo, la conosceva bene. Indossava una gonna spiegazzata lunga fino alle caviglie tozze e una camicia scolorita sbottonata che lasciava scoperti buona parte del suoi generosi seni. Occhi scuri e capelli castani, teneva stretta tra le labbra una Marlboro senza toccarla con le mani, lasciando cadere la cenere sulle gambe e sulla strada. La immaginavo più grande e scrutando quel volto già pieno di rughe mi chiesi quale fosse il suo passato. Chissà se da giovane ha avuto un amore? Chissà se qualcuno le ha spezzato il cuore? Non ci degnò di uno sguardo finché non cacciai fuori i soldi dalla tasca. Solo allora ci sorrise. E smise di suonare la fisarmonica.

“Ciao” balbettai, in preda all’imbarazzo.
“Vieni” rispose lei poggiando a terra lo strumento musicale.
“Va bene, signora, la seguo”.
Emise una risata sguaiata, si infilò in un portone aperto e svoltò in un sotto scala. “Sbrighiamoci, voglio tornare a suonare”
“Scusi signora, ma come pensa possiamo farlo in questo buco, se passa qualcuno…”
“In pie’!” mi interruppe mentre si voltava, dandomi le spalle.
“No, è che io vorrei fare allenamento, ho paura di fare brutta figura domani che con Vinc…”
“In pie’!” insistette tirandosi su la gonna.
“No, è che forse c’ho ripensato, facciamo che non se ne fa niente, non si preocc…”
“In pie’!” ordinò.
“Ma perché non possiamo farlo in un’altra posizione, a me servirebbe come all…”
“Perché no!” sotto non indossava nulla. Mi arresi e improvvisai, imitando le immagini dei fotoromanzi. Per sembrare più focoso, le infilai una mano dentro la camicia.
“Amami! Graffiami! Sgonfiami!”. Non capivo più nulla, mi stavo lasciando andare. Si irrigidì.
“Ma sei un purcel!” protestò sfilandomi la mano dalla scollatura.
“In che senso?”
“Nel senso del maiale! Fai quello che devi senza perdere tempo, su! Dovevo scegliere un’altra vita, lo dicevo io che era meglio farsi monaca!”

L’impresa fu ardua, spaventato che passasse qualcuno. Lei non dimostrò entusiasmo, continuando a succhiare la sigaretta. Finito tutto si limitò ad alzarsi e sputare il mozzicone ormai spento. Mi carezzò il volto, borbottando qualcosa su quanto fossi giovane, quindi ritornò alla pieghevole e alla sua musica. Di certo non mi sentivo più preparato. L’unica speranza era convincere Vincenzina a farlo in piedi. Una prima volta davvero originale. Decisi che ci avrei provato. Alla fine, l’amore non è cosa comoda.
Aspettai tutta la mattina che Vincenzina mi telefonasse. Niente. Chiamò solo un tipo di Rogoredo ma aveva sbagliato numero. Temetti le fosse successo qualcosa e corsi a casa sua. La vidi uscire dal portone con Giovanni. Lo conoscevo, un tempo lavorava come telegrafista. E brava Vincenzina, io attaccato al telefono e te al telegrafista. Forse avevo frainteso il tuo “domani vieni da me che vorrei parlarti”. Avrei dovuto restarci male, ma non sentii niente. Tutta la notte avevo sognato la signora del giorno prima. Mi resi conto che continuavo a contare i soldi in tasca. Con lei non c’era il rischio di capire fischi per fiaschi e via Canonica era lì vicino. Non mi aveva detto nemmeno il suo nome ma in giro lo sapevano tutti: Veronica.

 

Illustrazione di Erika Romano

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