I bambini boccheggiavano accasciati sul divano. Teresa, ritta in piedi, armeggiava con la borsetta e il semplice gesto di sollevare la tracolla o scribacchiare post-it con istruzioni che avrei letto solo alla fine di questa estate africana, le macchiava la camicetta di sudore. Aveva talmente caldo che il corpo, più che sudarle, piangeva, conscio di quello che l’attendeva a breve. Camminava in linea retta risparmiando centimetri e si sarebbe volatilizzata come vapore se non mi fossi trovato sulla sua traiettoria.
Anch’io morivo di caldo e sfruttavo la mia esperienza da fan del Meteo in TV per intercettare un refolo dal nostro unico ventilatore, immolato al benessere della prole.
Dovette fermarsi. «Paolo… devo andare al lavoro» sbuffò asciugandomi le cornee.
«Mi dispiace. Vorrei fossimo disoccupati entrambi.»
«Ripara almeno il frigorifero.»
«E se chiamiamo tuo fratello?» La porta che sbatté alle sue spalle la interpretai con un no.
«Mamma è andata via?»
«Zitti e giocate.»
«Ma papà quando compri il condizionatore? Ci porti in piscina? ci porti un teino?»
Il tetano vi porto. «Aspettate. Vedo cosa rimedio.»
Il caldo avrebbe presto esaurito la mia pazienza e forse aveva già esaurito il frigorifero. Il refrigerante era il nuovo oro liquido e l’assalto ai negozi per accaparrarsi uno straccio di elettrodomestico in grado di barattare elettricità per frescura aveva fatto fioccare cartelli da “tutto esaurito” sulle vetrine nel raggio di chilometri. Il frigo ronzava. Chiedeva aiuto. Non avrebbe resistito a un altro prelievo di ghiaccio.
«Papà ci porti qualcosa?»
Spostarlo era fuori discussione. Sporco egoista. Candidamente falso in quel bianco verniciato a spruzzo, accogliente per yogurt, prosciutti, porzioni di lasagne, insalate in busta e senza busta; ogni genere di alimenti a gusto d’uomo, ma non a misura d’uomo.
È vero, Teresa e il fratello si odiavano a morte, però di Teresa c’era rimasto giusto l’alone. Cercai il numero nel cellulare, pensando a una scusa degna di giustificare un intervento gratuito d’emergenza, quando ebbi la visione delle chiavi. Le chiavi di Vito Pasei. Del 4G. Le chiavi del Mercedes di Vito Pasei, del 4G. Stavano accanto alle altre chiavi del suo appartamento, ancorate a un’immancabile post-it di Teresa che recitava:
1. acqua alle piante alla sera
2. croccantini ai gatti a ciotola vuota
«Papà allora?»
«Scendo al parcheggio.»
«Eh!?»
«Torno subito. Fate i bravi che oramai siete grandi.» Chiusi a doppia mandata per sicurezza.
Con i blackout frequenti, temetti di asfissiare nel vano ascensore. Optai per le scale scendendo così lentamente da assistere a interi cicli vitali di gocce di sudore che, spiccando il volo dalla fronte, prendevano nome Icaro mentre evaporavano in aria. E quanti stronzi se ne andavano in giro anziché starsene a casa. Incontrai il vicino con le sporte piene di bibite e la signora del quinto piano che urlava sempre. Non ci salutammo, la minima oscillazione del palmo avrebbe incendiato muscoli già provati.
C’eravamo tanto lagnati con l’amministratore per l’umidità e gli spifferi del parcheggio, e adesso era un forno crematorio. L’illusione di un asfalto solido si liquefaceva a contatto con la suola delle mie scarpe. Riuscii ad aprire a casaccio la portiera prima di soffocare tra i miasmi del bitume.
Ero dentro.
Accesi il quadro, avviai il motore e premetti sul tasto dell’aria condizionata trattenendo il fiato come se premere quel tasto, e non fare l’astronauta, fosse stato il mio desiderio da bambino.
L’aria fredda fischiava dalle bocchette d’aerazione. Chiusi gli occhi e mi feci investire dal getto artico che esploratori del passato hanno temuto e oltraggiato.
Folli.
«Vieni, vieni da papà.»
Dopo tredici minuti la temperatura sul quadro segnava la cifra idilliaca di venti gradi. Brividi su tutto il corpo. Civettavo con il getto possente come una scolaretta.
Maledetto puttaniere del Pasei! Programmarsi una vacanza ad Acapulco e abbandonare un gioiellino tale, zeppo di supporti vitali e rifiniture. Ero certo di stare recuperando ma il mio cervello non aveva retto allo shock termico tra casa e parcheggio. Il calore mi aveva fritto in tempura i neuroni e un proliferare di pensieri cancellava le mie convinzioni alla velocità di un virus.
Stavo sprofondato in un sedile di vera pelle all’interno di una capsula criogenica. Il Mondo, fuori, sublimava.
Potevo andare ovunque. Innestare una marcia, un’altra e la successiva, risalire la rampa, tagliare per l’autostrada, sfrecciare e piantarmi in corsia di sorpasso ignorando i cartelli e scegliendo direzioni a caso, pronto a cambiar vita.
E così m’affrettai. Accesi i fari. Cercai il cambio e lo trovai automatico, diedi gas, andai di retro facendo cadere uno scooter e abbozzando la fiancata di una Fiat. In due metri di manovra avevo causato tre CID. Dopo un ultimo ruggito, la Mercedes si spense.
Quel taccagno del Pasei! Manco al pieno alla macchina era riuscito a pensare. Uscii di getto rosso di rabbia scordandomi del Sahara urbano.
Forse era dipeso dalle possibili scuse che avrei dovuto accampare per spiegare il danno o semplicemente perché c’era un limite a quanto calore un corpo umano può sopportare, sta di fatto che quando le porte dell’ascensore si chiusero la corrente saltò con sadico tempismo. Detti l’allarme. Dalla piastra dell’interfono una voce gracchiante si esprimeva in idioma alieno. Tentai di parlare. Spinte dall’aria bruciante dei polmoni le parole uscirono roche come un getto di fuoco.
Spesso è dalle decisioni sbagliate che si ottengono i maggiori successi. Senza il tête-à-tête con l’ascensore non sarebbe insorto l’ictus. Dal lettino automatizzato biascico a Teresa con la parte meno offesa della bocca le istruzioni per spingere la carrozzella. È una furia. Inviperita per i danni che dovrà ripagare. È invidiosa in realtà. Ma la perdono. Dovrò stare due mesi in degenza e qui, in ospedale, hanno l’aria condizionata.
Fotografia di Ryan McGuire