Foto di copertina Treni

Treni

I.
Chissà se esistono due alberi perfettamente uguali. Fuori dal finestrino ne scorrono talmente tanti, mi sembrerebbe strano se non fosse così.

Sono su questo treno da solo un’ora e già mi sento nervosa. Almeno siamo partiti in orario, il pensiero di avere davanti un’intera notte chiusa qui dentro mi snerva. Per fortuna, lo scompartimento è vuoto e posso muovermi un po’. Come ogni volta che sono nervosa, mi viene da ridere.
Tutte le mie amiche la riterrebbero una sventura. Mia madre, quando le ho detto che sarei partita con il notturno delle dieci, per poco non ha avuto un mancamento. “Una signorina come te di notte non può viaggiare”, mi ha detto “Non sta bene”.
C’è voluto l’avallo di mio padre per convincerla. Non abbiamo più tempo, un altro salario ci serve, e in quella fabbrica domani mi ci devo presentare. Questo era l’ultimo treno e l’ha capito pure maman.
Devo alzarmi per sgranchirmi un po’ le gambe. I sedili mi fanno sudare. Ripenso all’odiato ventaglio che mia nonna mi ha infilato in borsa prima di partire. Beata saggezza.
Lo tiro fuori, lo apro e mi sventolo piano, passeggiando su e giù per lo scompartimento. Cinque passi piccoli o tre grandi.
Dopo l’ennesima volta che mi ritrovo faccia a faccia con la porta, non resisto. Se devo fare qualche brutto incontro almeno lo farò prima che la notte sia troppo inoltrata. Appena apro la porta dello scompartimento mi investe una ventata di afa. Faccio un lungo respiro, qui fuori l’aria almeno si muove e questo basta a darmi sollievo. Il corridoio è deserto, mi rilasso. Lo percorro avanti e indietro per qualche minuto. Ventidue passi piccoli o quindici grandi. Tiro giù uno degli strapuntini a disposizione degli avventori dell’ultimo momento ma mi rialzo. In fondo al corridoio c’è il passaggio per accedere al piccolo ballatoio, bastano 12 passi grandi a farmi uscire nella notte. Qui sì che si sta bene. Se non mi fosse stato negato anche questo vizio fumerei una sigaretta.
La pianura che stiamo attraversando è quasi completamente buia. Lontane e fioche, si intravedono rare luci. Sembrano formare dei ricami, una successione di pizzi e merletti disposti a caso. Alcune sembrano più vicine, stiamo per arrivare in stazione. La prima di una lunga serie.
Traggo qualche respiro profondo nel tentativo di fare il pieno d’aria e decido di rientrare. Anche se vorrei non fosse così, temo che diventerà un luogo affollato tra poco. Riapro la porta del mio scompartimento e non posso fare a meno di sentire la differenza di temperatura tra dentro e fuori: qui ci saranno almeno tre gradi di più.
Il treno rallenta, si ferma. Fuori dal finestrino sporco non vedo altro che oscurità. L’orologio della stazione indica le undici e cinquantacinque, mi consola che continuiamo ad essere in orario. Dal corridoio arrivano delle voci, il rumore dei passi pesanti. Sento porte che si aprono e si richiudono rapide. Porte sempre più vicine.
Sperare è servito a poco, anche la mia cede e si apre.

II.
Mentre il treno si avvicina il mio corpo sembra dimenticarsi della stanchezza e la mia mente si riempie di speranza, anche se è facile che finisca come le altre volte. Da quattro giorni bivacco in questa maledetta stazione, in compagnia di tanti altri come me e delle occhiatacce schifate degli italiani. Lo stesso sguardo infastidito che si appiccicano sul viso quando vedono una scritta su un muro o l’immondizia per le strade. Io non sono immondizia, me lo ripeto da quando sono arrivato, anche se è sempre più difficile crederlo. Ho una storia, un nome ed un cognome, anche se potrei crearne mille altri e nessuno saprebbe che sono falsi. Qualcuno ci prova, nella speranza di passare per profugo, io non ne ho bisogno.

Sono pochi a salire con me, tanti hanno trovato un riparo e aspetteranno domani. Io non ce la faccio più. Sono un corpo, una testa, ho sentimenti, memoria, emozioni. Me lo ricordano i volontari che in questi giorni mi hanno portato il cibo, ma poi loro se ne vanno e tutto quello che ho intorno, gli altoparlanti che indicano treni che io non ho il diritto di prendere, il bar che vende panini dall’aspetto orrendo, i pendolari che la mattina corrono velocemente e ci evitano come se fossimo ostacoli, i muri dai colori freddi e gli specchi rovinati con l’acido dai writers; tutto mi urla per convincermi che sono solo un oggetto. “Stai fermo, il più fermo possibile che dai fastidio alle persone che passano” mi ordina uno dei sedili nella sala d’attesa. “Sempre più immobile, vedrai che poi sarà facile anche respirare meno, non respirare affatto” continua il cappello di un capostazione. La pistola di una guardia che mi cammina davanti non usa parole, non ne ha bisogno. So di cosa è capace più del carabiniere grassoccio che mi osserva dall’alto in basso per un istante, sospira, scuote la testa e se ne va.

Il treno si ferma assieme al mio respiro. Questo è il momento, o la va o la spacca. Forse ce la faccio. Salgo gli scalini. L’interno è caldo e l’aria viziata sembra stringermi in un soffocante abbraccio di benvenuto. Cammino in silenzio, studiando gli scompartimenti chiusi. Sono solo e so che in questo posto non ho nessun diritto, devo stare attento.

D’altronde sarebbe stupido commettere un errore ora, dopo tutto quello che ho passato. Sarà meglio uno scompartimento vuoto o uno con molte persone? Mi fermo nel primo in cui non vedo posti occupati. Posso distinguere solo i primi due, quelli più vicini alla porta, per il resto è un’incognita. Apro. C’è una ragazza, posso stare tranquillo. Forse.

III.
Ora capisco quando mia madre, le mie amiche, mia nonna e tutto il resto del paese non vedevano di buon occhio l’idea che viaggiassi di notte. Ora ho paura. L’uomo sta immobile sulla soglia e mi guarda. Indugia qualche istante, poi si gira di scatto e con un movimento secco richiude la porta dietro di sé. Ignora la fila in cui sono seduta io e sceglie il sedile in mezzo di quella opposta. Per fortuna non è di fronte a me né troppo vicino. Sento il mio cuore battere fortissimo, mi sembra che copra quasi il rumore del treno.

Lo guardo, è sporco, ha la barba lunga, disordinata, come i capelli. Abbasso gli occhi sui vestiti, non credo che vedano acqua e sapone da un po’, per non parlare di un ferro da stiro. La camicia ha i primi bottoni aperti che lasciano intravedere una medaglietta dorata nascosta in parte dai lunghi peli del petto. Non riesco a capirne la forma ma mi ricorda qualcosa. I pantaloni sono pieni di buchi, di strappi. Sembrano avere mille anni, proprio come lui. Improvvisamente mi rendo conto che mi fissa e il mio cuore accelera ulteriormente. Ricomincio a sudare.
I suoi occhi sono spalancati, come se vi fosse rimasto impresso qualcosa di terribile. Lo sguardo è profondo, intenso, penetrante, sembra frugarmi dentro, rimestandomi in un punto che non credevo di possedere. Mi fa sentire nuda, non respiro.
Vorrei alzarmi, correre via nel corridoio, cambiare scompartimento e ricominciare a far entrare aria nei polmoni. Per farlo dovrei passargli davanti e solo l’idea mi paralizza.
Mi sforzo di respirare, girando lo sguardo verso il finestrino, e mi sorprendo a pensare che non emana nessun odore, né buono né cattivo. Sento ancora il suo sguardo scorrermi addosso. Mi volto, cercando di non incrociare i suoi occhi, voglio sapere che ore sono, se malgrado questa novità almeno rispetteremo la tabella di marcia. Non faccio in tempo, le luci si spengono e lo scompartimento si fa totalmente scuro mentre io annego nel buio.
Non vedo più nulla ma nemmeno lui vede me.

IV.
Il sedile è morbido, mi rilasso sul poggiatesta. Non mi riposo in qualcosa di così comodo da una vita. Per quanto confortevole so che devo restare concentrato. Nonostante le palpebre siano due macigni, non devo chiudere gli occhi. So quello che succede, dopo.
Studio la ragazza di fronte a me, cerco di non fissarla troppo ma è difficile. Se si sente a disagio e urla, sono fregato. E a dirla tutta non sarei al sicuro nemmeno se lei lasciasse questo scompartimento e restassi solo. Sono senza identità. I miei singoli organi valgono più della mia vita, se sono con qualcuno mi sento tranquillo. Mi forzo a osservare il posto vuoto davanti a me. Non me ne accorgo, ma le palpebre si chiudono.

E vedo occhi. Di donna. Di un’altra donna. Non ne conosco nemmeno il nome. La violentano davanti a noi in qualche posto sperduto della costa libica il giorno prima di partire. Sappiamo che se qualcuno interviene sarà ucciso. Scelgo la mia vita per la sua, mi dico che non sarebbe servito a niente ma non mi convinco. Ci scambiamo uno sguardo, entrambi sappiamo che non c’è altro da fare, entrambi consapevoli che non esiste alcun perdono per me.

Riprendo cognizione del posto in cui sono e riapro gli occhi. Non è facile. Mi ritrovo con lo stesso imbarazzo di prima, mi rendo conto che la giovane è infastidita, ma non c’è altro, il finestrino è lontano, c’è solo lei da guardare. Chissà cosa pensa di me. Immagino che per lei non sono nient’altro che uno scarto umano, la crepa sulla parete, la macchia sulla tovaglia che non va più via. Qualcosa che altera la perfezione che ha attorno. E ha ragione. La mia pelle è piena di cicatrici, non tutte visibili. Non si può tornare indietro dopo quello che ho passato, non saremo mai uguali. Forse anche io al posto suo sarei spaventato a trovarmi di fronte uno come me. Non servono parole, non importa se non usiamo la stessa lingua, parla il mio corpo. E nessuno vuole ascoltare la sua storia.

Le palpebre hanno di nuovo la meglio.

E ora è una mano. La distinguo ancora in lontananza. Uno di noi è caduto dal barcone affollato di gente. Forse è stato spinto, nessuno sembra saperlo. Il mio istinto è quello di buttarmi e recuperarlo ma nessuno mi aspetterebbe. È sempre più piccola, si muove, spera ancora che qualcuno la afferri e la tiri fuori dal mare. Poi affonda sott’acqua. Mi dico che è solo una visione data dalla fame e dalla stanchezza, qualche barca la vedrà e la salverà. Nonostante sia molto convincente non riesco a mentire a me stesso.

Scuoto la testa e ritorno nello scompartimento. Sempre con quella donna che mi osserva. Sì, ora è lei che sembra studiarmi più di quanto non lo faccia io. Mi accorgo che sto stringendo la medaglietta che porto al collo. Gesto infantile, spero non mi reputi troppo strano: non voglio restare solo. Forse è il caso di dirle qualcosa, sono convinto che parlare aiuterebbe entrambi. Non ho molto tempo per pensarci, si spengono le luci. Ed è inutile tenere gli occhi aperti.

Un paio di scarpe da ginnastica sporche, un po’ troppo consumate. Sono quelle di Youssef, ci conosciamo da sempre. Passeggiamo assieme, sogniamo di andarcene in Europa. Colpi di mitra, un attacco terroristico. Corro e mi nascondo dietro un palazzo. Non c’è nessuno con me. Mi affaccio e vedo i suoi piedi che non cammineranno più. Lo prometto a me stesso. Costi quel che costi me ne andrò e non tornerò.

Spalanco gli occhi, ma niente, è ancora buio. E so che anche gli altri verranno a farmi visita, come ogni volta. Stringo i pugni e aspetto che la sfilata finisca.

V.
Torno a vedere ciò che mi circonda, finalmente. Stiamo attraversando una lunga galleria e le luci ci hanno messo un po’ a scaldarsi. L’uomo è sempre lì dove l’ho lasciato, ha gli occhi chiusi, sembra essere a suo agio. Sembra non essere davvero qui e questo mi rilassa.
Il sangue riprende a fluire normalmente nel mio corpo, il ritmo del respiro si fa di nuovo regolare, mi sono preoccupata per niente. Abbandono le braccia ai lati della poltrona, appoggio le spalle allo schienale, mi rendo conto solo ora di quanto le tenessi rigide. Mi fanno male.
L’orologio mi dice che è quasi l’una. Tra nove ore abbondanti scenderò da questo treno e sarò sola. Sola davanti alla fatica di reinventarmi una vita, sola in una grande città straniera, sola tra tanti uomini abituati a sfornare pezzi tutti uguali, tutti i giorni, tutti insieme.
Quando il compare di mio padre gli ha prospettato questa possibilità per me, lui non ne era convinto. Unica femmina di sette figli, era un disonore che varcassi le Alpi senza marito per mandare i soldi a casa. Peccato che con l’onore non si mangi. Perché quando di sette fratelli, tre cadono alla spicciolata sotto le armi e due li porta via il colera, non ci si può mettere a fare troppo la principessina. Mia madre continua ad apparecchiare e rifare letti per tutti, come se nulla ci avesse scalfiti, ma io e mio padre lo sappiamo che siamo rimasti in quattro, per il momento. E se i soldi per la dote non ce li hai, prendi tua figlia, la fai sedere, le sfili parola dopo parola la coroncina dalla testa e lo scettro dalle mani e le fai fare la valigia. E se l’hai cresciuta bene, come hanno fatto con me, lei la fa e ti ringrazia pure. Potevo avere un destino decisamente più infausto: essere venduta a qualche bordello di quart’ordine, o peggio, finire per strada. Poteva anche andarmi meglio: di posti per fare le istitutrici ce n’erano, all’inizio, ma sono state le signorine delle grandi città, meglio vestite e presentate, a occuparli. Noi siamo arrivati tra gli ultimi. Così sono su un treno, in una tasca l’indirizzo della fabbrica più moderna del paese e nell’altra quello di una modesta famiglia che si è offerta di ospitarmi.
“Devo solo iniziare, poi mi sistemerò meglio” ho detto a mio padre per consolarlo alla stazione. Non so ancora se cercavo di prendere in giro me stessa o lui.
Mia madre non è proprio venuta a salutarmi. Diceva che il piccolo stava male, non poteva lasciarlo a casa. Ho fatto finta di crederle, vederla sparire in lontananza su quel binario che differenza avrebbe fatto?
Il treno si sta fermando di nuovo. Chissà se ci lasceranno soli nello scompartimento. La presenza di quest’uomo non mi disturba più ma forse è meglio non abbassare la guardia. In fin dei conti chi mi dice che la bestia non possa svegliarsi da un momento all’altro?

VI.
Riesco a tornare sul treno. Non li sopporto più tutti quei volti, avevo giurato di non dimenticarli mai ma non possono torturarmi ogni notte. Vogliono farmi impazzire ma non ci riusciranno. Spero di non aver parlato o peggio urlato, la ragazza sembra serena. Una volta passato quel maledetto confine potrà chiamare le guardie, farmi cacciare dal treno, avrò comunque vinto. Quanto mancherà ancora?

Decido che è meglio non addormentarmi. Per non spaventare la giovane, per me che non sopporto quel macabro corteo. Mi distraggo pensando a lei. Non mi avventuro nel guardarla in volto, i suoi occhi verdi mi tolgono il respiro. Mi accontento della sua mano poggiata sul vetro del finestrino chiuso. Bianca, morbida. Immagino di toccarla. Ne percepisco il calore, la stringo e lei fa altrettanto. Senza i segni che ha la mia. Senza aver compiuto azioni terribili, come la mia. L’immaginazione corre ancora e non riesco a fermarla: ora le tocco il volto, i capelli chiari, le spalle. Il seno.

Sento il treno fermarsi, una nuova stazione. Forse l’ultima prima del confine. Magari ci riesco. Scaccio quelle fantasie, forse ancora più dolorose dei volti che mi vengono a trovare quando dormo. Nonostante siamo sullo stesso treno, a pochi centimetri di distanza, non potrò mai avere una donna come lei. È come se fosse in un’altra dimensione, posso vederla ma devo restarne distante. Il mio corpo puzza di morte e non è un odore che passa con una doccia, ce l’ho sempre dietro, dopo quello che ho visto. Sono sporco, sempre, perché lo sono dentro. Io sono l’Africa, continente umiliato e depredato, lasciato al suo destino, picchiato e violentato in ogni maniera. Sono il conquistato, lo schiavo negro, in qualunque parte della Terra mi troverò, qualunque lavoro sarò in grado di fare. Lei è l’Europa, ricca, piena di promesse e inaccessibile, se non nei suoi confini. Potrà accadere che per caso i nostri corpi si possano sfiorare, ma è il massimo che mi è concesso. La mia è la colpa più terribile, quella di cui non ho alcuna responsabilità: nascere nel posto sbagliato.

Sento voci dal corridoio ma nessuno apre la porta. Bene così. Questo è il viaggio più lungo della mia vita. Non il più scomodo né il più faticoso. Ma ho la sensazione di essere chiuso da un secolo dentro a questo maledetto treno che viaggia nel tempo, da anni, senza mai arrivare a destinazione. La ragazza che ho davanti mi sembra di conoscerla, come una vicina di casa che incroci ogni mattina prima di andare al lavoro. La osservo per un istante e mi avventuro in un sorriso di cortesia. Dovrebbe mancare poco, ne sono sicuro ormai.

VII.
Dal finestrino cominciano ad entrare le prime luci dell’alba e questo mi inquieta. Significa che stiamo per arrivare e io non voglio scendere da questo treno. Mi piacerebbe che continuasse la corsa in eterno, attraversando vallate, montagne, costeggiando spiagge e dividendo in due campagne piene di fiori. Invece il sole che sorge cancella la notte come sta per cancellare questo viaggio.

Sento che lui mi guarda mentre tortura la medaglietta dorata. Già da un po’ ha riaperto gli occhi e ho sentito subito il calore del suo sguardo su di me. Mi giro a guardarlo anch’io e mi stupisce vedere il cambiamento sul suo volto. Sembra avere una stanchezza che prima era solo accennata, come fosse trattenuta. Anche gli occhi sono diversi. Li vedo più limpidi, meno spalancati, come se ciò che li teneva in tensione fosse fluito via con la notte. Sembra essersi arreso, aver mollato un peso che si è portato dietro da secoli. Accenna un sorriso. Solo ora mi accorgo di quanto il suo aspetto sia piacevole. Sotto la barba incolta, dentro i vestiti sporchi e lisi, adesso riesco a intravedere un uomo. Mi chiedo cosa l’abbia portato qui, da dove venga, quanta strada abbia fatto per essere seduto in questo scompartimento insieme a me. Cosa si sia lasciato alle spalle, se anche lui ha dei fratelli, dei figli, una donna. Penso che se lo incontrassi in un’altra vita, magari, quella donna potrei essere io. Ci immagino in una bella casa, mentre sono davanti ai fornelli a preparare il pranzo e lui mi si stringe contro, chiudendo le sue forti braccia intorno ai miei fianchi. Mi vedo abbandonare la testa all’indietro, sfiorando con le mie guance le sua barba corta e ben curata. Mi vedo respirare a fondo il suo profumo di pulito, mettere le mani sulle sue, girarmi lentamente e baciarlo sulle labbra. Immagino di sentirle schiudersi e di rispondere al mio bacio con ferma dolcezza e controllata passione, prima che le voci dei nostri due bambini invadano la cucina.

Il rumore della pioggia che inizia a sbattere sul finestrino mi riporta alla realtà. Il treno frena di colpo, per poco non scivolo dal sedile. Anche lui perde l’equilibrio. Cerca di tenersi con le mani ai braccioli ma il brusco arresto gli fa impigliare il bottone della casacca nella catenina, strappandogliela via. La medaglietta vola in fondo allo scompartimento e d’istinto mi sporgo a raccoglierla. Non mi accorgo che lui risponde allo stesso riflesso e le nostre mani atterrano insieme sul metallo freddo. Sento il contatto del suo braccio contro il mio, vorrei voltarmi a guardarlo ma mi sento bloccata. Chiudo gli occhi e l’unica cosa che sento è il suo respiro ritmato su cui i miei battiti sembrano calibrarsi.

VIII.
Calore. Inaspettato. Un piccolo regalo del destino per tutto quello che ho dovuto sopportare. Fermo il braccio a contatto con la sua pelle, ma senza esagerare. Non la voglio contaminare. Sono marcio, ho una malattia dell’anima che si trasmette se si sta troppo vicino agli altri. Respirano i tuoi sensi di colpa, li fanno propri. Ma io li voglio tenere per me, non voglio dimenticare né lasciare che parte del mio peso lo portino degli sconosciuti. Non lo merito un calore così, una donna così. Non la guardo, ovviamente. E mi rimprovero anche di averle sorriso. Non trovo la medaglietta, sento le sue dita che ancora la cercano e la trovano, sfiorano le mie. Sarebbe bello stringerle, ormai non mi può più accadere nulla, ho passato il confine. Devo combattere più di quello che credevo per resistere alla tentazione. Tanto, mi dico e mi dà forza, è inutile. Dimensioni diverse.

Ritraggo finalmente il braccio e chino la testa quando mi porge l’oggetto perduto. Voglio che lo tenga lei. Sempre con lo sguardo basso, non ce la faccio. Temo che dai miei occhi possa capire tutto quello che non so spiegare a parole. Chissà se esiste una lingua in cui ci siano parole che descrivano gli orrori che ho visto, di cui sono stato testimone e protagonista. Parole che racchiudano le emozioni che provo, l’essere costantemente in mille posti. Qui in treno, con questa bella ragazza che sta per scendere, e sul barcone, in spiaggia, in città e in tanti altri luoghi. Solo una di queste dimensioni cambia, quella del presente, le altre si ripetono all’infinito. Mani che scambiano soldi, che colpiscono, che uccidono. Mani di altri. Mani mie. Sempre, in continuazione.

Magari con una donna così il passato potrebbe scomparire. Basterebbe sprofondare nel mare che c’è nei suoi occhi e ritornare pulito. Salvo da ogni peccato. Ma non posso. Nemmeno un’ultima volta. Rimango a fissare il pavimento, spostando appena le gambe, per lasciare più spazio. Un invito per far sì che sia lei a scendere per prima dal treno. E perché non riuscirei ad andarmene senza guardarla ancora una volta.

IX.
Trattengo il respiro e spero che mi stringa le mani, mi guardi negli occhi, mi dica il suo nome. Spero che possiamo scendere insieme da questo treno. Ci vedo camminare lungo la banchina, fuori dalla stazione, verso un punto lontano, senza lasciarci mai più. Spero che mi racconti tutta la sua storia, e che io, con pazienza, ferita dopo ferita, possa guarirlo nel corpo e nell’anima.
Spero tutto questo nello spazio di pochi secondi che lui cancella ritraendo il braccio.
Afferro la medaglietta e gliela porgo. Non stacca lo sguardo dal pavimento ma mi prende la mano e me la chiude intorno. Mi sta dicendo, senza bisogno di parole, che vuole che la tenga.

Il treno riparte, fa un singhiozzo, si ferma di nuovo, e il capostazione annuncia la fine della corsa. Siamo arrivati. Resto ferma, aggrappata all’idea di un suo ultimo gesto verso di me, che non arriva. Lui sposta leggermente le gambe per farmi passare e capisco. La strada che ho davanti la percorrerò da sola, nemmeno quest’ultima illusione mi salverà. Nemmeno quest’uomo mi sottrarrà alla fabbrica, alla desolazione della mia vita di donna tagliata fuori da tutto, senza punti fermi in questa immensa, nuova, fumosa e fredda città.
Mi sposto verso la porta, ormai a pochi centimetri, ma mi blocco. E non resisto. Mi volto di scatto, lui è dietro di me, nella stessa posizione di pochi istanti prima. Mi avvicino, gli poso una mano sulla testa e lo sento irrigidirsi, ma non si sottrae. Non mi fermo. Faccio scivolare la mano sullo zigomo nudo, seguendo il profilo della barba, fino ad arrivare al punto in cui si fa più folta. Vedo e sento i muscoli del suo viso reagire al mio tocco, il resto del corpo è immobile.
Restiamo così per qualche secondo, io a guardarlo, lui che studia il pavimento.
Poi mi volto, apro la porta e mi incammino verso il corridoio. Se non l’avessi fatto me lo sarei rimproverato per il resto dei miei giorni. Me ne vado con questo minuscolo pezzetto di lui tra le dita. Gli ho lasciato qualcosa di mio sul sedile, chissà se lo vedrà. Chissà se avrà anche lui voglia di portarmi con sé.
Scendo uno scalino dopo l’altro fino a toccare il suolo francese. Il vapore dei treni mi toglie il respiro. Mi incammino verso l’uscita della stazione cercando già con gli occhi una carrozza che mi porti alla mia nuova casa. Vedo il profilo della Tour Eiffel lucida e fredda, costruita da poco. Mi era stata solo raccontata, adesso che mi si staglia davanti mi dà le vertigini. Mi aggrappo alla medaglietta, provo a stringerla forte ma non c’è più. Non cambia niente. Da domani sarò sola, una straniera in questa enorme città, ma oggi no. Finché la mia mano riuscirà a conservare il calore che lui mi ha dato la solitudine sarà lontana.

X.
Forse davvero è la mia occasione di redenzione, non ne ho idea. Sento la mano della donna scorrermi sul volto. È da tanto che non succede. Scelgo di tenere gli occhi bassi, il suo è solo un capriccio. Non voglio corromperla, non voglio lasciare a lei il mio peso. Femmina europea, cosa vuoi da me? Tra poco sparirai dentro qualche lussuoso appartamento di Alexander Platz e ti dimenticherai del negro che avevi vicino per il tuo percorso. Per me non sarà così semplice, chissà quando altre mani accarezzeranno il mio corpo. Non alzo lo sguardo, vedo la differenza tra la sua pelle pulita e la mia camicia, indossata per troppi giorni. Mi vergogno.

Dopo quello che a me sembra un secolo finalmente se ne va. Rimango fermo fino a che il respiro non ritorna normale. Non è l’unica cosa che sembra stabilizzarsi attorno a me. La temperatura scende nel vagone e anche l’aria sembra diversa rispetto a qualche istante prima. Più ferma penso, come se questo concetto avesse senso. La donna si è dimenticata una sciarpa, la prendo e la avvolgo attorno alla mano destra, quasi fossi un pugile prima infilarmi i guantoni.

Arrivo alla porta e prendo fiato. L’ossigeno tedesco non è così diverso da quello italiano o africano. Lascio che il trambusto della stazione riempia le mie orecchie. Un altoparlante sta annunciando la prossima partenza, un cellulare squilla davanti a me. Esco e mi ritrovo immerso nel traffico della capitale, le mie narici infastidite dalla puzza di smog. Eppure la bacerei questa terra, penso mentre due uomini in divisa si avvicinano. Non voglio stare qui solo per la ricchezza o perché so che avrò un trattamento migliore rispetto ai paesi a sud. Dopo aver lasciato la costa, essere abbandonati in mezzo al mare è stato terribile. Sapere che da qualunque parte guardi c’è acqua, che dovresti nuotare per giorni e non puoi fare nulla, nemmeno scappare. Ho degli incubi spaventosi in cui quell’immensità mi sovrasta e temo che possano diventare realtà. In questi sogni tutti quelli che sono affogati, che ci hanno lasciato la pelle, approdano sulle coste occidentali. Vengono a vendicarsi di noi, di chi ce l’ha fatta, chi li ha lasciati lì. Ogni volta mi sveglio urlando e tremando. Lo avrebbe mai capito la bionda ragazza che mi carezzava? Per quello amo Berlino, perché c’è solo terra, per chilometri. Il Mediterraneo è distante. Sorrido e con un inglese stentato indico la mia provenienza alle guardie e mi infilo nella loro auto. Solo quando mi rilasso all’interno dell’abitacolo mi rendo conto che la sciarpa attorno alla mano non c’è. A pensarci bene ho come l’impressione di non averla avuta mai con me da quando sono sceso dal treno.

Ileana Moriconi – Marco Masciangelo

Foto di copertina di Magale

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