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Seguire i maestri

1. Edilizia

Lo scheletro di pilastri saliva e la polvere fine, sbriciolata, copriva il terreno mentre manovali, e operai specializzati, tutti uguali fra loro, ma solo in apparenza, tutti coi pantaloncini strappati e il torso nudo e il caschetto, il caschetto non sempre,  salivano e scendevano come automi, dai ponteggi e dalle scale di cemento. Un uomo più magro degli altri agitò la mano verso l’unico che, sotto al caschetto, indossava una camicia.

Capo, disse, sto finendo un lavoro a casa, posso prendere la sega diamantata?

Il capo lo guardò.

Solo per stasera, aggiunse l’uomo.

Domattina, disse il capo, dev’essere qui. Prima delle sei o passi guai seri.

L’uomo magro  annuì e si chinò sul macchinario pesante e impolverato. Impolverato com’era tutto impolverato, lì attorno, e gli altri uomini, sudati e impolverati anch’essi, lo guardavano, mentre faticava nel sollevare la sega; e non si mossero.

Poche ore più tardi, mentre il sole si ostinava a resistere, l’uomo  magro, ancora vestito da lavoro, tagliava tramezze e pavimenti della sua abitazione. Aveva allungato per la casa fili sporchi di cotone, sporchi di gesso blu, li pizzicava come corde di violino, le vibrazioni scuotevano uno strato palpabile di colore, opaco, e l’uomo ne seguiva i tratteggi. Smise quando gli bussarono, con la scopa, dal piano di sotto. Battevano furiosamente ma l’uomo sorrise. Perché tanto sarebbe stata l’ultima volta.

2. Informatica

Aveva imparato il mestiere a Vallo della Lucania. Tre anni intensi, nel corso dei quali non aveva voluto perdere tempo, com’era accaduto, prima di allora, troppo spesso. Il fine pena era imminente e sapeva che fuori sarebbe stata dura. Così, nonostante avesse sempre schivato i lavori manuali , si era impegnato. Tu rubi con gli occhi, aveva detto l’insegnante di carpenteria. E il lattoniere aveva mormorato, davanti a tutti gli altri, che non aveva mai visto nessuno imparare tanto in fretta. Quello era costato all’uomo magro un piccolo pestaggio ma, una volta uscito, il suo piano aveva funzionato: assunto quasi subito, in un cantiere piccolo ma troppo vicino a casa sua e al suo passato, e poi lassù, nella grande città, dov’erano in pochi a prestargli attenzione.

A Vallo della Lucania era andata bene, ma Biella era stata diversa. L’unico laboratorio disponibile era quello di informatica. I detenuti, secondo i piani del dipartimento, avrebbero dovuto imparare la programmazione; ma riuscivano a stento ad avviare il computer e così il professore, più che altro, li lasciava giocare a solitario. Ma l’uomo magro non faceva nemmeno quello. Aveva una repulsione profonda per la tecnologia, che lo avrebbe accompagnato tutta la vita se un giorno, per puro caso, Christian non si fosse seduto alla postazione accanto. La prima cosa che lo colpì, di quello strano tipo, furono gli occhi. Quasi bianchi, fissavano l’interlocutore in una maniera spavalda e impudente, provocavano disagio nel prossimo e Christian, che lo sapeva, anziché limitare i suoi atteggiamenti li esasperava. Questo creava qualche problema coi secondini, visto che quello sguardo comunicava tutto meno che rispetto. Ma le complicazioni peggiori le aveva coi compagni di sezione. Perfino lì, lontano dai comuni, c’era qualcuno che voleva fargli la pelle. Ma Christian, quel giorno, si sedette e nemmeno guardò il suo vicino di banco. Con gli occhi fissi al monitor lavorò cinque minuti buoni alla tastiera, batteva con le dita come una segretaria dirigenziale, ogni tanto si fermava, mordeva un labbro, digrignava la mascella, e ricominciava. Alla fine lo schermo cambiò, sparirono le icone, lo sfondo con la collina verdeggiante fu sostituito da righe bianche e nere, cifre, lettere, e solo allora Christian si voltò verso l’uomo magro.

Stammi attaccato, disse, e vedrai cose che nemmeno immagini. Cose che ti serviranno parecchio, fuori.

L’uomo magro aveva guardato di scatto verso l’insegnante. E se ci scoprono?, aveva chiesto.

Christian aveva picchiettato col dito sul vetro del monitor. Si può eliminare ogni traccia del proprio passaggio, disse, anche dai telefoni cellulari, che sono il futuro e non devo spiegarti il perché.

L’uomo aveva preso sul serio Christian e le sue parole ed effettivamente, in poco tempo, gli erano entrati in testa anche i concetti più difficili. Finché un giorno qualcuno, al ministero, si accorse dell’errore e il laboratorio venne chiuso di tutta fretta, senza pubblicizzare troppo la cosa. I detenuti vennero smistati e l’uomo magro avrebbe ritrovato Christian, i suoi occhi bianchi e la mente agile, soltanto anni dopo, a Lanusei.

3. Il morto che cammina

Riportò in cantiere la sega diamantata con largo anticipo. Arrivò poco dopo le cinque. I primi manovali erano già appoggiati alle gru e alle ruspe, tutti con la sigaretta accesa e il caschetto buttato a terra. I montacarichi erano ancora senza corrente e l’uomo salì al piano, con la sega caricata in spalla, per le scale piene di tondini metallici. Inciampò molte volte però nessuno fece il gesto di aiutarlo. Quando il capo arrivò, e vide l’attrezzo sul pavimento, annuì. Ma fu solo un attimo. L’uomo magro allora si mise al lavoro, sembrava andasse tutto bene, ma il pensiero gli correva alla fine del turno, a quando avrebbe raggiunto casa e si sarebbe collegato. Aveva un appuntamento galante, con Agnese, che forse sarebbe stato l’inizio di qualcosa. Perché, anche se non si erano mai incontrati, le  pensava ormai spesso, e gli sembrava che anche lei fosse interessata. Poteva sbagliarsi, certo, magari era solo un’impressione . Ma forse non lo era.

La pinza gli scivolò dalla mano, cadde nel vuoto. Prese velocità, spinta dall’accelerazione costante della gravità terrestre; talvolta lo aveva visto succedere, allo stesso modo, agli operai che non si erano legati a dovere. Ma la sua pinza invece era annodata alla corda, l’aveva imparato in carcere, dal lattoniere; il cavetto di tela si tese fino al limite, fece rimbalzare la pinza un paio di volte, poi l’uomo la recuperò e tornò al lavoro. Però non si sentiva concentrato a sufficienza e si diede un colpo sul caschetto. Una cosa alla volta, una cosa alla volta, maledizione. Era un’ottima aspirazione questa, ma non appena le mani tornarono a piegare le lamiere i pensieri andarono a quella serata. Dopo il suo appuntamento aveva tre possibilità. O posare l’isolante negli intagli del pavimento e delle pareti, un lavoro facile per il quale un paio di giorni sarebbero bastati; se fosse stato concentrato, però. Certo, se con Agnese fosse andata bene, se avesse guadagnato qualche punto, un po’ di fiducia, magari una fotografia, avrebbe potuto premiarsi, come faceva solo nei momenti giusti, quando se l’era meritato. Perché il premio, gli aveva detto Christian, non è uno sfizio, ma il riconoscimento di una buona prestazione: deve rafforzare solo i comportamenti corretti, non i comportamenti qualsiasi. Quindi, se non se lo fosse meritato, avrebbe ripiegato sulla terza opzione: uscire, alla ricerca dell’ultimo tassello. E con tutte le precauzioni del caso. Avrebbe rubato due targhe in un deposito a lungo termine, vicino all’aeroporto. Le avrebbe attaccate col gesso sopra quelle vere, come gli aveva insegnato Raffaele, in modo che al bisogno, un poco d’acqua, una spugna, e nessuno avrebbe notato nulla. Occhiali da vista di cui non aveva bisogno. E i movimenti più rischiosi all’ora in cui le volanti si davano il cambio. Raffaele ne sapeva, del resto era un criminale professionista, un vero affiliato. Ma in quegli ambienti ci sono regole che nessuno può violare. E Raffaele, quando aveva capito che la sua relazione era stata scoperta, che il boss aveva già dato l’ordine, che non poteva salvarsi, aveva preso la strada del pentitismo. Così era giunto a Rovereto, nel suo stesso reparto, lontano da tutti quelli che aspiravano a piantargli una lama in gola.

4. Il paese dei cretini

L’abitazione fu ultimata in meno di due settimane. Intense. La mattina sveglia presto, sistemare l’isolante, correre al lavoro, la giornata lunga nel cantiere; poi a casa, e avanti con le rifiniture; nelle pause qualche conversazione con Agnese; poi rimuovere ogni traccia di contatto dalla rete, Christian sarebbe stato fiero di lui, e se avanzava tempo una visita ai negozi di mobili, quelli adatti; e infine i turni di pattugliamento, col gesso sulla targa, gli occhiali finti e lo sguardo puntato al marciapiede.

In passato aveva sbagliato. E lo sapeva. Ma ricordava ancora quando a Lanusei, durante l’ora d’aria, mentre tutti sussurravano che era arrivato uno nuovo, il suo sguardo aveva ritrovato quello di Christian. Niente computer quella volta, nemmeno uno in tutta la struttura, ma le nuove lezioni impartite dal suo mentore sarebbero state molto più serie.

Immagina, gli aveva detto un giorno, di arrivare in un paese dove sono tutti cretini.

In che senso?

Che sono cretini, idioti, stupidi. Hanno una tara al cervello, non capiscono proprio le cose. Fin qui ci sei?

L’uomo magro aveva annuito e Christian lo aveva imitato.

Ora immagina che tu invece sia una persona adulta, istruita, che viene da un luogo dove sono stati raggiunti grandi traguardi nel campo della scienza, dell’arte, della cultura, della giurisprudenza. Per cui, quando questi cretini ti dicono qualcosa di assurdo, come il fatto che la luna è piena solo quando le carote sono mature, o che se un uomo è zoppo bisogna arrestarlo, ecco che tu sei in grado di capire che stanno dicendo grandi sciocchezze. Perché i cretini sono loro, non tu. Fin qui è tutto chiaro?

L’uomo magro aveva annuito e due guardie erano passate, osservandoli con occhi inespressivi.

Bene, continuò Christian con enfasi, ora ti faccio una domanda, concentrati. Tu, che sei perfettamente in grado di comprendere che quel paese di cretini è retto e governato da cretini, secondo leggi inventate e scritte da cretini, nel quale tutti questi cretini sono convinti di avere ragione, e al tempo stesso è impossibile fargli cambiare idea, proprio perché sono cretini; ecco, io ti chiedo, tu ti sentiresti obbligato a rispettare quelle leggi?

L’uomo magro esitò. Non capiva dove Christian volesse condurlo, lui se ne accorse, quindi continuò ma con tono meno infiammato.

Rifletti bene. Si tratterebbe di leggi assurde, pensate dai cretini per i cretini, quindi leggi cretine; tu ti sentiresti obbligato a seguirle, oppure, proprio perché scritte da cretini, potresti violarle? Ricorda che tu sai cos’è giusto, perché tu, e solo tu (non i cretini), hai visto una civiltà evoluta, piena di menti illuminate, sai come si ragiona, e quindi puoi stabilire, senza margine di errore, che i cretini stanno sbagliando. Perciò, ipotizziamo che tu voglia fare una cosa che per te è normalissima, e legittima, ma i cretini non vogliono, pensano che sia illegale, ti vogliono impedire di farla con tutte le loro forze. Ma solo perché sono cretini. Bene, tu a quel punto cosa faresti?

Il volto dell’uomo s’illuminò di colpo.

Hai ragione. Io seguirei le leggi giuste, non quelle dei cretini.

Bravissimo. E ti sentiresti in colpa nel violare i precetti dei cretini?

No, rispose sicuro l’uomo.

Perfetto. Vedo che hai capito.

A quel punto Christian si alzò, allargò le braccia, fino quasi a comprendere le guardie che ormai avevano raggiunto il fondo del corridoio, e disse: Benvenuto nel paese dei cretini. Poi s’inchinò, portando la mano all’ombelico.

Eccoli là, continuò. Li vedi? Secondini, magistrati e poliziotti. Il direttore, i parlamentari, il presidente della Repubblica, sono tutti un branco di cretini. Io e te, invece, noi sappiamo cosa è giusto fare.

Poi Christian unì l’indice al pollice e colpì le sbarre, come fanno i bambini in spiaggia con le biglie.

Ma i cretini hanno potere su di noi, continuò, sono tanti, sono ovunque, e sono forti. Ci rinchiudono qui dentro e pensano anche di essere nel giusto. Ricordatelo bene: non lasciare mai, mai, che ti impongano quello che devi pensare! Perché questo, disse toccandosi la tempia, è tutto quello che hai.

5. La saggezza del secondino

Quando i lavori nell’abitazione furono conclusi, l’uomo magro decise di premiarsi. Raggiunse il bagno e con un magnete al neodimio di particolare potenza, nascosto in un souvenir da frigorifero, azionò il congegno che sbloccava le piastrelle. Dietro alla colonna del lavandino si liberò uno scomparto segreto, dove teneva il suo disco fisso preferito. Quello che nessuno, durante le molte perquisizioni , era mai riuscito a trovare. Niente robaccia presa dalla rete, niente scatti dalla Cambogia o dall’Est Europa. Tutta produzione originale. Lo portò in camera, lo collegò al portatile, e poi il portatile al televisore, verificò che le porte e le finestre fossero chiuse ma, appena prima di cominciare, l’occhio gli scappò all’orologio.

Il giorno prima aveva intravisto una possibilità interessante, appena fuori dalla palestra di pallavolo. Lì per lì gli era sembrata solo una ragazza con lo sguardo ribelle e selvaggio. E quanto gli piacevano le donne sportive. Mentre la guardava, così sfrontata col mondo, gli era tornata in mente la casa circondariale di Rieti.

Lo avevano sistemato per qualche tempo in una cella singola, accanto all’ufficio dove, quando non succedeva nulla di particolare, gli agenti della penitenziaria si fermavano a bere il caffè. Quando il clima era torrido, e lasciavano la porta spalancata, lui passava intere serate ad ascoltare le conversazioni dei secondini. Imparava sempre qualcosa di utile, sulla gestione del carcere o sui vizi degli altri detenuti. Era stato così che aveva scoperto della morte di Raffaele: non gli avevano perdonato la sua passione. Ma una sera ascoltò una conversazione particolare. L’agente scelto ultimo arrivato era originario di un piccolo paese, vicino a Foggia, e la famiglia spingeva perché, nonostante fosse ancora un ragazzo, si sposasse. Con la fidanzata andava tutto bene, stava spiegando ai colleghi, ma lui sentiva che il matrimonio sarebbe stato un passo troppo grande.

Vedi, stava confidando al capoturno, io non vedo l’ora di stare con lei, scendo appena posso e non è un tratto breve, lo sai. Ma lei, dopo un po’ che stiamo insieme, diventa insopportabile. Ho paura di sposarmi perché non so come potrebbe finire. Lei, alla fine, mi piace parecchio. Non voglio rovinare tutto.

Il capoturno era un uomo per bene, lo ascoltavano perfino i detenuti. Pierpaolo qualcosa , si chiamava, e aveva atteso prima di replicare. L’uomo magro intanto, con la testa girata e l’orecchio tra le sbarre, aspettava.

Le femmine non sono come noi, aveva detto Pierpaolo, sono più fragili e quindi richiedono più attenzioni. E questa cosa, a noi, costa. Costa assai. Sopportiamo, sopportiamo, sopportiamo, e alla fine uno scoppia. È garantito. Ma così non va bene per niente. Non va bene per noi e non va bene per loro.

A quel punto Pierpaolo si era zittito, sapeva il fatto suo. Aveva gettato l’amo e attendeva.

E quindi come si fa? aveva chiesto l’agente.

L’uomo dalla cella sentiva Pierpaolo che accendeva una sigaretta, e la fumava rumorosamente, con calma, senza rispondere.

Io le voglio bene, aveva continuato l’agente. Non voglio lasciarla.

Al che Pierpaolo aveva continuato.

C’è soltanto un modo per resistere. Una femmina singola si prende tutto, ti assorbe ogni risorsa, non hai speranze. La puoi affrontare solo quando sei rilassato, e per farti trovare rilassato, ti serve un’altra femmina. Quando litighi con una, vai dall’altra. Quando litighi con quella, vai dalla prima. Devi fare l’Arlecchino, che se ha due padroni, nessuno lo comanda.

E l’uomo magro, nella cella, aveva capito.

6. Definizioni

Qualcuno lo aveva chiamato pedofilo. A quello piacciono le bambine, dicevano. Ma come si fa a essere così idioti? Lui non aveva mai toccato una bambina in vita sua, mai. E nemmeno guardata. Loro piuttosto, le avevano osservate bene le ragazze davanti alle medie? Evidentemente no. Quelle erano donne fatte e finite. Come Agnese, che ancora dormiva, stesa sopra le coperte della sua nuova camera da letto. L’uomo magro le accarezzò i capelli e lei si svegliò, scoppiando subito a piangere.

Stai tranquilla, le disse, non sei sola. Mi prenderò io cura di te.

Agnese aveva una delicatezza non comune nei movimenti, una particolarità difficile da trovare.

Sul comodino il giornale ripiegato. In prima pagina la foto dei genitori di Agnese, l’auto accartocciata in fondo al burrone, i titoli tremendi. L’uomo magro guardò per qualche istante il proprio lavoro: aveva impiegato un pomeriggio intero per confezionare quella falsa prima pagina, un angolo era stato inchiostrato male, ma sorrise comunque soddisfatto. La ragazza si tolse le mani dal volto e l’uomo esibì uno sguardo corrucciato.

Grazie, disse Agnese. Cosa facevo se non c’eri tu?

Bevi ancora un po’ di tisana, disse l’uomo. Le accompagnò la tazza alle labbra, sorresse la testa, poi attese l’effetto del sonnifero, di nuovo.

Quando Agnese cadde addormentata le asciugò le labbra umide, con le dita, poi notò che la gonna leggera si era scostata un po’ troppo e si intravedevano le mutandine. Ma l’uomo s’impose disciplina; mentre copriva le gambe col lenzuolo, fissò la parete senza muovere lo sguardo. Le cose sarebbero accadute al momento giusto, senza forzare nulla, senza rovinare nulla. Agnese sembrava quella giusta e lui aveva bisogno, dopo tutti quegli anni di sofferenza, di una vera storia d’amore.

Con Benedetta le cose, invece, sarebbero state diverse.

Uscì dalla camera di Agnese, chiuse la porta e bloccò il catenaccio. Aprì quella di Benedetta e se la chiuse dietro. La ragazza era in un angolo, rannicchiata. Appena lo vide iniziò a gridare.

Schifoso, cosa vuoi da me?

Ma lui non aveva voglia di rispondere. La prese di peso e la buttò sul letto. Lei si dimenava e scalciava, cercava di colpirlo. L’uomo le tastò le cosce.

Sei magra ma tonica, disse. Bene.

Le afferrò i polsi e li ruotò, per studiarli. Aveva ancora i segni delle fascette con cui l’aveva immobilizzata, fuori dalla palestra. Aveva dovuto essere un po’ rude, perché solo la velocità è garanzia di sicurezza, così diceva Raffaele. Le bloccò il collo con la sinistra, mentre si sfilava la cintura dai pantaloni e la avvolgeva sul dorso della mano. Poi si sedette sulle gambe di Benedetta, le rivoltò la maglietta dalla nuca alla fronte. La schiena nuda era bellissima, leggermente lucida per il poco sudore della lotta e della tensione.

Qui ci sono delle regole, disse. Poi iniziò a colpirla con la cintura sulla schiena. Dopo soli tre colpi capì che non si sarebbe trattenuto. Appoggiò il pollice sul proprio fianco e spinse giù, agganciando pantaloni e mutande insieme. Poi spinse ancora, finché si trovò nudo. Benedetta gridava, mentre lui le premeva la faccia dentro al materasso. Cercò di tirare verso il basso i pantaloncini di Benedetta, ma lei resisteva. Guardò meglio, per capire come toglierli, si erano incastrati sulle piccole anche, e allora notò il bagliore intermittente della lampadina. Era l’avviso luminoso del citofono, che non si sarebbe sentito, altrimenti, nelle camere insonorizzate.

Stronza, disse colpendole la schiena a mano aperta.

Lei si rannicchiò sul letto piangendo, mentre lui rimetteva i pantaloni e raggiungeva la porta. Dallo spioncino vide l’uomo del piano di sotto. Si pettinò e respirò profondamente, un paio di volte, poi aprì.

Mi scusi, disse il vicino, mi sembra che abbia finito i lavori in casa, giusto? Ma mia moglie, da oggi, deve studiare tutto il giorno, prepara un concorso importante e ci chiedevamo, ecco, se avesse ancora qualcosa da fare. Sa, per i rumori.

L’uomo magro sorrise e scosse la testa.

Stia tranquillo, disse, ho fatto tutto. Non sentirete più nulla.

L’altro sorrise, soddisfatto, e salutò. L’uomo magro chiuse la porta e si voltò verso le stanze insonorizzate. Il respiro era ancora affannato. Agnese o Benedetta? Lo sguardo si muoveva a destra e sinistra. Bel dilemma, pensò. Restò immobile ancora qualche istante, poi si diresse in cucina.

Gli era venuta fame e, pensandoci bene, non aveva nessuna fretta.

Crediti immagine: freepik.com

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