Topolino bianco

Topolino bianco

Affacciata sulla via principale di Pesariis, la casa della zia Clotilde è un edificio importante, in pietra, costruito sul finire del Seicento.
Le belle finestre a bifora al piano nobile e il porticato al piano terra, la loggia al piano superiore per l’essicazione dei prodotti agricoli sono tipici dell’architettura del luogo. Eugenia e Anna sono le uniche discendenti del ramo della famiglia che la abita da generazioni. Adesso che zia Clotilde è morta, l’hanno ereditata.
In quell’abitazione trascorrevano l’estate da bambine, quando i genitori le portavano a camminare lungo la via delle malghe e delle braide fra pascoli e mucche. Era fresca, i muri spessi e le volte ad arco tenevano fuori il caldo e i rumori della strada. La panca, la piattaia, i polsonetti in rame appesi alle pareti, il lungo acquaio in pietra e il grande fogolar nel mezzo, la cucina era il centro attorno a cui ruotavano tutte le attività. Zia Clotilde cucinava minestroni e zuppe che bollivano mattinate intere, preparava i cjarsons e le torte insieme alla nonna, mentre un via vai di vicini si intratteneva in chiacchiere. Erano tutti benvenuti in quella casa. Le sorelle sanno che sarà difficile decidere cosa farne.
Costerà mantenerla, è una sorta di monumento, vincolata dalle Belle Arti. Costerà, anche la successione.
Le pratiche e le volture sono ancora in corso, ma Eugenia e Anna hanno fretta, sono già lì per una prima ricognizione.
Dal portico, scesi tre scalini si apre la grande cantina semivuota, ci sono vecchie botti e qualche damigiana spagliata, la zia aveva smesso di confezionare confetture e sottoli ormai da tempo.
È l’unica parte dell’abitazione che non straripa di arredi, oggetti e soprammobili accumulati nel tempo. Ci sono due piani e un sottotetto, Eugenia e Anna sono salite fino in cima, per fortuna non ci sono infiltrazioni d’acqua. Zia Clotilde aveva fatto sistemare il tetto, tuttavia le travi della capriata hanno bisogno del trattamento antitarlo e di un paio di mani d’impregnante e il pavimento è da levigare e verniciare.

«Mamma quanta polvere. Uff… non respiro. Che vuoi fare di ‘sta roba?»
«È arte povera, antiquariato contadino, è un peccato disfarsene.»
«Puzza di vecchio, questo odore non andrà mai via.»
«Non capisci niente.»

C’è il delirio in solaio: cassoni, tavoli, letti, sedie, accatastati dappertutto. Eugenia tira la pancia in dentro e si infila in mezzo, è alta, spallata, fa fatica a passare.

«Capisci tutto tu… non vedi quanta roba, prova a contarli, non ci libereremo mai, mi par di soffocare: lì, accatastati, ci saranno almeno quattro letti, chi li userà mai? Nessuno li vuole neanche se glieli regali.»
«Saranno ingombranti però in una casa di montagna stanno bene» insiste Anna mentre dà colpetti affettuosi alla pila di sponde e reti sollevando sbuffi di polvere.
«È già tutta arredata. C’è troppo polvere qui, io scendo. Questa casa è una condanna. Non senti che aria pesante?»
Anna non le bada «e quel tavolo là dietro? – lo raggiunge e passa la mano sul ripiano – forse è solo abete, ma guarda la misura: sarà 1 metro e 70 di lunghezza, non dirmi che non può servire»
«A chi?»
«Beh, a qualcuno dei nostri figli, quando cresceranno.»
«Non ti facevo così scema» Eugenia ridacchia sardonica.
«Ma cosa ridi, grazie eh, mai che ti risparmi gli insulti.»
«Quando ero piccola nemmeno tu. E anche menavi.»
«Bugiarda! Quando mai?»
«Non alzare la voce: calci e pugni.»
«Non è vero, sempre a far la vittima, dove stai andando?, voltati, eri tu a piagnucolare. – Lasciami! – Piantavi grane su ogni cosa e mi toccava anche leggerti le storie ogni sera – quello non te lo ricordi, vero?» le trema la voce.
«Lasciamo perdere, Anna, mi leggevi storie di paura, facevi apposta. Quanto ti ho detestato… ero terrorizzata.»
«Figurati. Stavo ore con te per addormentarti, e quando non ci riuscivo venivi nel mio letto e scalciavi tutta la notte che non riuscivo neanche a dormire» le si strozza il fiato per la rabbia, ma è anche tristezza, le si è fermata in gola e non riesce a espellerla.
«Per forza, avevo gli incubi e questa casa me li fa tornare.»
«Dimmi allora cosa vuoi fare di ‘sta roba.»
«Li mettiamo su eBay o su Subito e li piazziamo in una settimana.»
«Per due soldi, i tuoi dieci centimetri in più non sono andati in cervello. Tanto vale regalarli. Ma tu ci pensi mai a loro?».»
«Loro chi?»
«I nonni, i bisnonni, gli antenati, quelli che hanno abitato qui, quelli che hanno usato la roba. Le cose portano l’impronta delle loro vite. Se le butti via, butti via anche loro.»
«Ah, adesso fai la filosofa, ma va fa’… »
«Finiamola di baruffare per questi, che sono il problema minore, scendiamo giù e ragioniamo su quelli di sotto che sono antichi e di valore, c’è anche un pianoforte.»
«Mi vien già male – si porta le mani alla gola, espira – dabbasso vorrai tenere tutto. Quei mobili cupi, quei catafalchi. C’è già una casa museo in questo paese, vuoi farne un’altra?»
«Eugenia smettila, quattro generazioni di Gonano hanno abitato questi muri. C’è la storia della nostra famiglia qui dentro e solo noi possiamo mantenerla viva.»
«Custodirla vorrai dire. Non c’è niente da mantenere vivo qui, sono tutti morti. Ci siamo solo noi due a tenere accesa la fiammella, il lumino sulla tomba. Questo è. Ma io non ci sto. Voglio liberarmi del passato e vivere la mia vita. Se tu hai tempo da dedicare ai morti fai pure. Facciamo valutare la casa, ti chiedo solo la mia parte.»
«Lo sapevo, lo sapevo che volevi arrivare qui. Avida. Egoista! – sbatte un piede per terra – Ecco cosa sei. Ti interessano solo i soldi. E come vuoi che ti dia la tua parte? Vendendo la casa. Non c’è altro modo, io soldi non ne ho. Non puoi obbligarmi a venderla.»
«Sì che posso. Prova a chiedere a un avvocato. Intanto se vuoi risanarla devi comunque tirar fuori soldi, ci arrivi?»
«Sì, sì… ci arrivo…»
«Ecco, ci volevano anche le lacrime adesso…tieni… asciugati… su, troveremo una soluzione. Pensa se tu fossi sola, con tutto ‘sto peso addosso.»
«Ma tu… me lo rendi ancora più pesante…»
«Oddio, Anna, cosa c’è? Sei bianca come il muro.»
«Vedo nero… devo sdraiarmi… »
«Aspetta, ti tengo… non svenire adesso.»
«Sto sudando… fff… »
«No, no, tieni duro.»
«Tirami su le gambe.»
«Sulla scala non è il massimo. Respira… ce la fai?»
«Aspetta… adesso mi passa… »
«Cosa ti è successo?»
«Non lo so, è stato un soffio, un’ombra, mi ha sfiorato e mi sono sentita sprofondare. Ora va meglio.»

Sono passati due mesi. Le sorelle sono di nuovo lì per decidere sul da farsi. Al piano nobile il bel pavimento in seminato veneziano occhieggia disegnando tracce e percorsi colorati, da piccole vi spendevano i pomeriggi cercando fra i sassolini vie di scampo e bocche spalancate. Ormai presenta le sue gobbe, ma gli assestamenti – ha detto l’ingegnere – in una casa così antica sono fisiologici, la struttura è sana, ha solo bisogno di un trattamento contro l’umidità che si farà a partire dalla cantina e, certo, di stuccature alle numerose crepe statiche, di una mano di bianco e dell’antitarlo alle travi del tetto. Ci sarebbero da rifare gli impianti e i serramenti, ma, limitandosi agli interventi minimi e senza modificare gli spazi, la cifra per il restauro sarà contenuta.
Anna gongola, Eugenia ha esaurito la sua carica di rabbia: impuntarsi significherebbe rompere i rapporti con la sorella e non è più convinta che ne valga la pena. Ha fatto valutare la casa da un paio di agenzie e la cifra che le hanno prospettato è di gran lunga inferiore a quella che si aspettava. Conviene attendere tempi migliori per venderla – sono anni di inflazione e il valore degli immobili è in discesa – e per il momento conservarla com’è. Per questo ha ceduto sulle manutenzioni ordinarie: accatasteranno temporaneamente i mobili nella grande sala del piano nobile e in qualche altra stanza del piano superiore per cominciare gli interventi necessari. La cantina dopo il risanamento ospiterà le carabattole del solaio, così si potrà lavorare nel sottotetto. Hanno eliminato il vestiario che giaceva nei guardaroba, vuotato le cassettiere delle camere e i mobili della cucina, stivato in scatoloni i servizi buoni e il vasellame antico.
È venuto il momento di cominciare i lavori: hanno ingaggiato una squadra di operai del posto. Gli armadi non escono dalle porte e non c’è modo di smontarli, ma loro sembrano sapersi destreggiare.
Due sono già all’opera in cantina: martellinano l’intonaco vecchio per applicarne uno apposito che lascia traspirare l’umidità di risalita; altri due stanno spostando i mobili ai piani superiori. Sono veloci ed efficienti. In un giorno hanno sgomberato le stanze e accatastato tutto nel salone.

La mattina successiva Eugenia e Anna si presentano di buonora per concordare il programma dei lavori.
«Non ti sembra che ci sia qualcosa che non va?» osserva Eugenia varcando il portone d’ingresso. Si sentono gli operai vociare al piano di sopra.
«Cosa avranno?» si chiedono contemporaneamente «Ho una strana sensazione» biascica Anna.
«Come se fosse tutto… uguale a ieri.»
«Nooo, non ci credo!» «Non può essere!» – esclamano all’unisono mentre si affacciano alla porta del piano nobile «Chi è stato?»
«L’avevo detto io che questa casa è una condanna» sbotta Eugenia.
«Guarda ‘sto armadio, c’hanno messo due ore ieri a spostarlo, ed è di nuovo qui»
«Sono tutti qui.»
«Chi è venuto stanotte? Chi aveva le chiavi?» Anna si gira verso gli operai che sbraitano accusando non si sa chi di aver agito durante la notte azzerando il loro lavoro. «Al vorà sfuarzât la puarte. Al vûl ciolinus pal cûl.» [In friulano: Avrà sforzato la porta. Vuol prenderci per il culo.]
«Chi? La porta è a posto.»
«Oddio Anna, vieni a vedere.»
Anna segue Eugenia lungo il corridoio: una nota di crepuscolo, una scia viola, le conduce fino alla camera dei nonni. Eppure è giorno fatto. I mobili scuri e imponenti esibiscono la loro ossatura.
«Che aria pesante c’è qui.»
«C’è un odore impressionante, di polvere e poi, non saprei, un profumo vecchio, dolce e irrancidito.»
Un rumore sordo, come un battito, le chiama dall’interno dell’armadio.
«Lo senti anche tu?»
Si avvicinano con passi cauti alla porta del guardaroba e la aprono: una infilata di abiti leggeri, sagome di forme femminili, pende dalle grucce. La prima impressione è quella che siano corpi. Corpi femminili giovani velati di chiffon e sete leggere a fiori e a pois.
«Che meraviglia!» Eugenia deglutisce e si incantata sui vestiti, impalpabili come alberi in fiore, le tremano le mani mentre li sfiora. Non vede l’abito da sposa bianco che volteggia per la stanza, vola fuori della finestra gonfio come un palloncino e si innalza senza corpo su, su, nel cielo sgombro di nuvole.
Anna invece lo insegue e cerca di afferrarlo, lo osserva ammutolita svanire nel cielo.
«Maria Vergine! Era vero o è una nuvola?»
«Cosa?»
«C’era un abito da sposa, qui – indica l’aria – che volava, poi è uscito dalla finestra.»
«Oh Signore Anna, hai dormito stanotte? »

Qualcuno sta salendo le scale con passi affannati, due operai si affacciano alla camera e parlano uno sull’altro:
«Questo è troppo. Adesso è piena anche la cantina.»
«Dio purcit, l’han riempita di schifezze!».
«Chi?» chiede Eugenia.
«Lo sa Dio.»
«Sarà chel pote di Rupil chel vûl puartaus vie il lavôr.» [In friulano: Sarà quel cretino di Rupil che vuole portarci via il lavoro.]
Anna e Eugenia scendono in cantina con gli operai e in effetti sembra diventata una discarica: lo spazio centrale è occupato da un mucchio di bancali accatastati, paiono vecchi letti, letti a castello. Ma c’è dell’altro: un cumulo di immondizie è ammonticchiato in un angolo, scarpe di tutte le misure, piccole, grandi, da bambino, incartapecorite come quelle che si pescano dall’acqua o si ritrovano abbandonate ai bordi delle strade, e poi pettini, portamonete, portafogli rinsecchiti.
Gli operai fissano le sorelle.
«Cosa dobbiamo fare?»
«L’intonaco l’avete finito?» chiede Anna:
«Manca solo questa parete.»
«Bene, allora visto che questa roba non impedisce, lasciatela qua e finite l’intonaco.»
«E dopo? Non c’è lavoro per quattro qui, torniamo a spostare i mobili dei piani sopra?»
«No, no, portate quaggiù quelli del solaio e cominciate il lavoro là.»
«Le padrone siete voi, ma no mi pâr just.» [In friulano: Non mi sembra giusto.]
Eugenia tira per la manica Anna e le sibila nell’orecchio «Sei rimbecillita? Vuoi tenere queste immondizie?»
Anna non risponde, torna decisa sui suoi passi, Eugenia la segue borbottando «Non sei tutta a posto.».
L’armadio in camera è rimasto aperto «Ecco – dice Anna – i vestiti sono ancora qua.»
«E dove dovevano essere?»
«Volati via, come l’abito da sposa.»
Eugenia la fissa, fa il segno di spararsi alla tempia «Maledetta questa casa e il momento che l’abbiamo ereditata» sbatte la porta del guardaroba, sospira e si dirige al comò «Chissà cosa ci sarà qua» apre il primo cassetto, ne balza fuori un topolino bianco che squittendo raggiunge il pavimento e si nasconde velocissimo sotto l’armadio.
«Hiiii! Che schifo!»
Anna ride «È solo un topolino bianco!»
Dentro il tiretto trovano un involto legato con un nastro rosso e una scatolina. «Da dove viene ‘sta roba, avevamo vuotato tutti i cassetti.» Eugenia è incredula. Esaminano in controluce l’anello con brillante che vi è contenuto. «È un anello di fidanzamento» Anna sentenzia. Nell’involto ci sono una ventina di lettere scritte in calligrafia minuta, ordinate per data; la prima risale al febbraio 1940, l’ultima al luglio 1944. Le scorrono velocemente. Iniziano con “Carissimo Umberto” e terminano con “mio amato” o “amore carissimo” o ancora “mio dolce amore” e sono tutte firmate “tua Rosina”.
«Evidentemente erano fidanzati – commenta Eugenia – in che anno si è sposato il nonno?»
«Non lo so, il papà è nato nel ‘48, suppongo nel ‘47, perché la nonna si è trasferita al nord dopo la fine della guerra. Questa Rosina deve essere stata la fidanzata precedente. Chissà perché non si sono sposati. Il nonno non ci ha mai raccontato di lei. Se l’avesse sposata noi non ci saremmo.»
«Chissà com’era.»
«Che strano, ci sono i vestiti, l’anello e non c’è nemmeno una foto.»
«Deve aver avuto un bel corpo a giudicare dai vestiti. Era alta circa come me – si confronta con un abito del guardaroba – ma di circonferenze misurava la metà.»
«Guarda che belli, forse era benestante, o, chissà, il nonno era così innamorato che glieli regalava lui. Sono stoffe impalpabili, preziose.» L’immagine di Rosina, che non esiste, sta crescendo nella loro immaginazione. Si gettano a capofitto nelle lettere.
Pescano frasi cariche di amore “vita della mia vita” “hai scavato un solco nella mia anima” “tesoro mio” ripetute, insistite.
«Senti questa – dice Anna – “Caro, caro, vorrei che tu fossi qua con me, che non te ne fossi andato, che mai te ne andassi” che stile, di sicuro era istruita».
«Vorrei sapere se era del paese, scendo a chiedere ai vicini se hanno qualche ricordo» Eugenia gira i fogli veloce, inquieta.
Anna la ferma «Aspetta, leggi qui.»

13 luglio 1944
Sotto la torre la forca maledetta del bestiale tedesco ha stroncato la giovinezza di un partigiano diciannovenne, alla stessa ora pochi metri più in su un innocente quindicenne giaceva in una pozza di sangue. I passi ci hanno condotti lì, senza che lo sapessimo. Muti ci siamo ritrovati e io non ho potuto resistere di fronte allo scempio che il repubblichino stava compiendo su quel povero volto, sfigurandolo a calci. Mentre io urlavo – Vigliacco, venduto! – mi hai tappato la bocca e mi hai trascinata in casa. Ma io sarei saltata dalla finestra. Mi sento ardere da una furia omicida. È giunto il momento di ribellarsi. Se non lo fai tu, lo farò io.

Era l’ultima lettera.
Ora Rosina è il loro enigma.
I vicini non sanno nulla, nemmeno sior Toni che ha passato i novanta ed è lucidissimo, nemmeno al bar Centrale, dove passano tutti: nessuno ha mai sentito parlare di questa Rosina che oggi dovrebbe essere centenaria.
Eppure. Il suo vestito volava. Il topolino bianco ne è testimone.
Rientrando Eugenia e Anna si affacciano alla cantina e si paralizzano: i bancali gettati alla rinfusa non sono più bancali, ma letti a castello a tre piani, fatti di assi non verniciate, sono allineati in doppie file come quelli dei campi di concentramento nazisti.
Ritornano al guardaroba: i vestiti dondolano sulle grucce e sprigionano un sentore sfinito e irrisolto, come il profumo invernale del calicantus.

Copertina di Isabella Deganis: “Valzer”, tempera su legno, 2000

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Barbara Vuano è nata a Belluno. Vive fra Udine e Grado.
Ha pubblicato racconti e biografie in libri collettanei per Kappa Vu, Udine.
Ha pubblicato le raccolte poetiche Il tempo ti guarda scorrere, (Samuele Editore 2017) e Benedetti i bambini (qudu libri 2024); il saggio antropologico Nascere nella cenere, (Forum Editrice Universitaria 2022).
Si è classificata fra i semifinalisti al Premio Calvino narrativa breve 2024.

Isabella Deganis, Udine 1944 – 2011, è stata animatrice e presidente del comitato D.A.R.S. (donna arte ricerca sperimentazione fondato dalla pittrice Dora Bassi). Ha collaborato con la rivista “Lapis” e con il Centro Friulano di Arti Plastiche. La sua pittura è figurativa e surreale: fazzoletti, pizzi, scarpe, vesti calze, rimandano a relazioni e persone, con un’attenzione particolare alle donne e alla loro intimità. I corpi sono evocati: mani, piedi, indumenti richiamano situazioni familiari, elementi autobiografici, la parte diventa simbolo del tutto.

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