incendio infanzia surreale

Ti declama Ballerini

L’elefante affonda lento nel catrame. Rughe gli ricoprono il corpo mastodontico e segnano le generazioni come tacche su un fucile; ha una proboscide lunga quanto il mio essere, in grado di toglierlo d’impaccio, ma sta fermo e affonda.
Probabilmente vaneggio. Sono automatismi. Prendo il cellulare, compongo un messaggio usando il pollice a sottolineare la mia superiorità e poi non so niente di elefanti, niente dell’Africa. Niente di noi.
Qui c’è un pomeriggio che finisce e anche l’elefante finirà a breve, inghiottito da un incrocio. L’avrà mai rispettata una precedenza? Gli tendo un braccio che assomiglia a uno spaghetto e lui sventola le orecchie flosce e scaccia via gli insetti. Mi fa aria, mi asciuga il sudore addosso. Fissa oltre. Non mi guarda. La sua altezza glielo impedisce e lo orienta verso prospettive che posso appena millantare di aver vissuto. Una sirena di sei tonnellate può ammaliarti con il suo peso. È una presenza forte nel mondo e ti schiaccia con la sua verità. Non sarà una verità assoluta però vince sulle tue bugie.
Se solo emettesse un barrito, avrei la scusa per chiamarti.
Tu starai già dormendo a occhi aperti, perché dove esisti tu, esiste il dolore e il sogno è una strada lastrica di possibilità incoscienti e rassicuranti, nella loro intangibilità. Tu sei quella che considera il Tevere il suo amante e lo accarezza nelle insenature, mentre la gente brucia calorie in calzoncini e calze di flanella, dimentica del resto. Sei quella vestita di viola agli eventi formali, quella che salta sui tavoli intonando stornelli. La tua danza è nei piedi e la gente si sofferma a guardarti le caviglie anche se la gonna ti sale su. Il sangue defluisce dalla testa. Partono applausi, si scatenano fischi. È un coro di: “bella&bona, bona&bella” ma tu non abbocchi, dubiti dell’isteria e ti basi sulle ferite del passato; cicatrici, ammonimenti per ciò che ti aspetta dietro i grugniti urlati contro il tuo sesso.
Sembra complicato detto così. Sono le rughe dell’elefante che non segnano generazioni, segnano te.
Incurante continui a cantare uno stornello e ti sorrido. Seduto di sghimbescio al bancone troppo affollato, sono un romano senza radici; pretoriano senza legione e comunque a braccetto coi demoni. Ho allenato il linguaggio celato delle notti insonni, delle tazze rovesciate a colazione, dei fastidi di un sedile posticcio, di un «Come stai?» civettato al supermercato e proprio perché posso tradurre la tua sofferenza in parole, mi risulta crudele esporti a qualcosa che ritieni mistico, quando si tratta di soggetto, suono e condizione.
L’asfalto guadagna centimetri sulle zampe dell’elefante. Ha l’esigenza di un aggettivo così, se dovesse sparire, verrà compianto per quel qualcosa da associare a lui.
Scrivo sovente di pathos, Portos e armistizi; rispetto dogmi e regole e, adesso che serve, mi distraggo pensando alle gare in bici. Avrò avuto meno di dieci anni, tu dipendente dalla mammina nelle scelta dei vestiti, io dipendente dalla gravità. Me ne stavo ritto, in piedi sui pedali, scimmiottando l’erezione degli adulti; salivo e scendevo come i pistoni delle “astromacchine” – che disegnavo coi pastelli, sbafando i Fabriano F4 – perché seduto sul sellino non ci potevo stare, o sarei caduto. Tutti a gridare al traguardo mentre io, con la faccia stupida e la lingua di fuori, ero concentrato sulla prossima curva, sul piegarmi e mantenere l’equilibrio della bicicletta di mio padre per paura di graffiarla.
Già allora c’era l’elefante. Solo che passavo oltre. Giusto così. Ero impegnato a farmi nuovi amici, a scoprire il caldo delle vacanze, a uccidere zanzare. Lui è sempre stato lì e aspettava. C’era nel momento stesso in cui si saliva uno scalino e si afferrava il ramo sopra la testa.
Mastico foglie, ricevo linfa. Non è uno scambio, è un dono. Onnivoro e poi un abbraccio sincero risulta indigesto.
L’elefante muove lo sfintere, sventola le orecchie, avvicina la proboscide alla bocca. Forse ha paura, forse ha bisogno. Le zampe sono segate a metà dall’asfalto. Se fosse un iceberg sarebbe normale. Ne fa una questione personale e mi vuole qui con lui.
Anche io cercavo di salvarti, ricordi? Correvi sul campo fiorito sollevando la veste per non inciampare e al posto degli uomini cacciavi sorprese sotto le ramificazioni dei tigli e sotto le rocce. Chiedevi alle margherite l’amore senza privarle dei petali. Odiavi i bambolotti. Fantasticavi su un figlio tutto tuo e mi guardavi distesa sull’erba, con le ginocchia sporche di terra e i piedi incrociati nell’aria. Dal tacco scuro delle Balducci con fibbia, all’indefinito colore della punta dei tuoi capelli smerigliati da giornate in aperta campagna. Eri tutta lì. E io volevo di più. Sembra crudele l’età di un esploratore. Sperare di fecondare pianeti cinti da supernove, sconosciute agli scienziati e parenti dell’immaginazione, era un modo concreto per sfuggire al rossore dell’imbarazzo. Il fusto su cui poggiavamo le schiene era di legno, come la casetta in collina dalla quale discendevi ogni mattina chiamandomi tra risate e vocalizzi imbarazzati. Basterebbe questo a descrivere un’infanzia, un’amicizia, un’unione, senza bisogno dell’incendio. Assistere alla sua nascita è come opporsi all’onda d’urto di un sole. Crepita, sbaraglia, acceca. È un pennarello nero. È la morte dell’arte. C’è un paesaggio e dopo resta cenere. Perfino l’incendio sono riusciti a etichettare con un aggettivo: doloso. Non ero un piromane. Assistere impotente al tuo pianto, dopo il passaggio di quella carogna che dovevi chiamare Zio, ha destato in me l’animo della vendetta. Il legno morto delle travi non avrebbe sofferto il fuoco. Quanto è stupida l’innocenza. Ero certo di circoscrivere la violenza alla sola casetta in collina. I fiati convulsi, le gambe trafelate in mulinelli di acido lattico, la maglietta inzuppata d’acqua attraverso cui respiravamo, la nube acre e soffocante a invaderci le narici. Il fumo di ciò che un tempo era stato, adesso era un sudario, e ci si impregnava addosso. Mi capita ancora di svegliarmi di soprassalto, con il crepitare degli alberi, avvolti dalle fiamme. Sono tornato alla collina, sono tornato in tutti i posti della nostra fuga. Quella notte – le nostre teste arrivavano appena ai pomelli delle porte – i luoghi adatti a noi, ai nostri spaventi apparivano clandestini.
Provo a paragonarmi all’elefante immerso nella cenere. Mi chino e soffio nella tagliola sperando sia pulviscolo. Non è cenere e a lui non dà fastidio. Allontano una mosca e gli avanzi di spazzatura lasciati a seccare sulla strada, come le olive delle nostre colline laziali.
Da quanto ascolti vinili di Bernstein e poesie di Ballerini? Io ti ho salvata e mi parli di accendere la fiammella del gas in cucina. Ti sei fatta superare da tutto. Mi hai lasciato avanti. Te l’avrei detto al telefono ma l’elefante non barrisce e ho la gola secca, priva di aggettivi.
Non dovrei farmene una colpa, fra sei mesi c’è un treno con sopra scritto il mio nome che mi scorterà via da qui. Il nord è ricco di opportunità da inseguire (dicono) e tuttavia mi ostino a tracciare strisce sulla strada, usando la coda del pachiderma. Ha le setole, ha la scorza che lo protegge dal sole.
«Allora perché affondi?» urlo al cellulare per rispettare il cliché del marito tradito, del lavoratore umiliato. È la foga, la dabbenaggine del contactless. Sono io con le mie convinzioni di elefanti, di battiti rallentati e accelerati, di strade e ricordi e futuro possibile quando nella via di casa c’è questa esistenza che rinuncia a nascondersi.
«Complice!» L’illuminazione lascia indifferente il pachiderma. Continua a intavolare una discussione silenziosa con gli insetti impegnati a tormentarlo.
È lo stravolgimento delle cose? Nato bipede e ora reso fruibile dal vento? Sbatto le ali come un moderno Icaro ma l’esistenza se ne sbatte e mi ancora a terra come se ci trovassimo alla presenza di un porto.
Affondo.
Colpisco l’elefante con un pugno. «Bastardo.» Continuo: «Arrendevole, perdente, sadico.» Ogni qualità infiocchettata da un cazzotto, dalla frustrazione, dal principio di sentirmi l’obiettivo di una figura sgranata, che rimanda al cambiamento. Mi dico: “è solo un sacco”, ma l’eco del pugno rivela un essere vivente; mi illudo: “lo sposto”, con le braccia ancora a spaghetto.
Calmo. Affondo e stranamente calmo.
Non so niente dell’Africa, dei suoi pericoli. L’elefante aspira con la sua grande cannuccia di carne la pozzanghera liquida e se la spruzza sul corpo. Gli insetti si allontanano e stavolta non tornano.
Non so niente dei suoi rimedi. Un porto sicuro.
Ricominciamo di nuovo, così, mano nella mano, ad assaporare la saliva di un bacio atteso da anni e tu mi chiederai – con quella fronte corrucciata che dà importanza alle piccole cose e lo sguardo immutato da bambina che ha perso l’innocenza – se usano ancora lo sciroppo di mais per sostituire il sangue nei film. E posso solo approfittare delle pause nella tua teoria e mostrarti le dita intrecciate nelle tue come i canestri di vimini bruciati sulla collina. Così. Strette così. Le imprimo tutte e dieci nella pozza e arriva il calore di un saluto.
«Assurdo.» Pronuncio l’aggettivo dedicato a te, alla precarietà delle tue scelte, all’essermi infatuato dei tuoi passi di seta, che lasciavano integri i gusci delle uova su cui camminavi. Però l’elefante barrisce e allora eccola la qualifica che gli spetta e gli calza anche a pennello, perché in Italia gli elefanti non partoriscono.
Posso essere a braccetto coi demoni e rispettare una promessa. Immerso, fino a cancellare il colore imposto dai vestiti, mi lascio trasportare dal suolo fuso in un liquido fresco che massaggia le gambe, e le gambe lo riconoscono prima di me come l’acqua della piscina gonfiabile, tenuta in giardino nell’estate dell’89; dal pulsare di una circolazione interna in armonia con l’elefante, l’incrocio, il figlio della Cipriani, affacciato al balcone del terzo piano, dal quale ha assistito a tutta la scena senza mai scomporsi, e il trillo della chiamata, con il cellulare accostato all’orecchio.
Rispondi. «Pronto?»
Hai la voce dispersa. Ti aggredisco: «Ho poco tempo. Ti ricordi quando alla festa di Luigi abbiamo parlato di pistacchi, giudicato il signore sdentato e le macchie di vino?» Respiro sul microfono «Dell’elefante nella stanza?»
«Oddio…» silenzio di lei. Starà giocherellando coi ricci? «… Stefano sei tu?» No, i capelli li ha tagliati. Scommetto sul mento le si è formata la solita fossetta dove posso incastrarci il mignolo. «Pronto, cos’è uno scherzo?»
Silenzio mio. Appoggio i gomiti sull’asfalto. È più comodo di un divano. L’elefante mi guarda. Giurerei in un occhiolino.
«Stefano se è uno scherzo non è divertente. Cosa c’entra la festa di Luigi, poi quale elefante?»
Sorrido. Dal basso, le palme dei piedi formicolano. «Quale stanza Giulia, quale stanza?»
Sbuffi: «Sto traducendo un testo dall’arabo, non ho tempo per stare appresso alle tue uscite da matto.»
«Non ti preoccupare, ne ho abbastanza per entrambi. Attraverso Roma e te lo porto. Ci metto poco, tanto è cava.» Ridi. Ti sento. Non ho mai smesso di farlo. «Ora devo attaccare che nell’asfalto non prende.» Alzo lo sguardo e mi inchino al figlio della Cipriani per aver assistito allo spettacolo. È sparito dal balcone. Se sta scendendo, ha intravisto l’Africa.

***

Dovrò informare i beni culturali delle anfore contate lungo la discesa. Dovrò svelare a Giulia che si può respirare trattenendo il fiato. Il tunnel della metro sul soffitto ha un buco, dal quale sono passato, che si sta lentamente richiudendo, e un altro, molto più largo, che si sta espandendo. Controllo l’orologio della stazione. Spuntano gli unghioni dell’elefante. Faccio spallucce. Prenderò il prossimo treno. Giulia l’ha sempre desiderato un animale domestico.
«Mi scusi, si sente bene?»
Ah già! Le altre persone. Arrido alla voce sconosciuta «Oh sì. Mi sento.»
«Lei è pieno di…» Muove l’indice come se volesse spennellarmi via. «Ha sul…» Vorrebbe aggiungere altro e infatti marca distanza neanche fossi la linea gialla di sicurezza della stazione.
«Sono abbronzato. Torno da un viaggio e mi appresto a farne un altro.»
Voce sconosciuta annuisce senza capire. Gli presenterei volentieri l’elefante se non avesse i suoi tempi di discesa.
Siamo in piedi. Il vagone della metro è pieno. Guardano tutti me e il catrame, e snobbano la sirena da sei tonnellate. Una suoneria anonima interrompe il silenzio. È la mia (dovrò cambiarla). È Giulia.
«Tieni, impressionala tu. Sentiamo come la prende.»
L’elefante barrisce e ti declama “Se il tempo è matto” di Ballerini. Poi attaccherò io con i miei aggettivi e stireremo le rughe in un sorriso.

Copertina di Matteo “ShannoSauro” Vettori

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